Mercoledì, 07 Maggio 2025 13:09

«La terra come elemento universale che accoglie il seme e lo nutre»: dentro TerraRossa Edizioni. Intervista a Giovanni Turi

Scritto da Elisabetta Perrucci

Durante l’anno accademico 2024/2025, in occasione delle lezioni e dei seminari svolti sulla storia dell’editoria letteraria italiana e organizzati dal Prof. Fabio Moliterni presso l’Università del Salento, il direttore della casa editrice TerraRossa Edizioni, Giovanni Turi, ha dato la possibilità di conoscere la sua realtà editoriale attraverso questa intervista.

«La terra come elemento universale che accoglie il seme e lo nutre»: dentro TerraRossa Edizioni. Intervista a Giovanni Turi.

Scritto da Elisabetta Perrucci                                                                                                                    

Intervista del 9 aprile 2025

Giovanni Turi, originario di Alberobello (BA), è laureato in Lettere moderne e specializzato in Editoria libraria e multimediale. Prima di diventare editor e successivamente direttore della Casa, ha lavorato per vari editori e fino al 2022 è stato curatore della collana Nuovelettere della Stilo Editrice. Inoltre, ha preso parte come giurato al Premio nazionale letterario “La Giara” di RAI ERI.

TerraRossa Edizioni è una piccola realtà pugliese, con sede operativa a Bari, che pubblica attualmente due distinte collane. Secondo una recente ricerca dell’Osservatorio sulla Qualità dell’Editoria (Oquedit), la Casa si trova in terza posizione. Inoltre, dopo “La casa delle Madri” di Daniele Petruccioli, anche “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” di Michele Ruol è rientrato nella dozzina candidata al Premio Strega.

 

 

«Nasce con l’idea di provare a seminare parole fuori dai tracciati consueti»: questo è ciò che si legge sul sito della casa editrice. Invece, da quale idea nasce proprio il nome TerraRossa?

La casa editrice originariamente era un progetto corale; io avrei dovuto essere solo il direttore editoriale. Tecnicamente nasce nel 2016, ma si inizia a parlarne già nel 2015. Dopodiché il progetto è stato avviato, ma mi sono ritrovato un po’ a doverlo gestire in autonomia. Il nome TerraRossa nasceva da diverse sollecitazioni: quella prevalente era che in origine una delle collane, Fondanti, che è quella che si ripropone di pubblicare testi del passato, voleva raccogliere soprattutto autori pugliesi o comunque meridionali. Poi, in realtà, si discosta da questa idea originaria; ora gli autori pugliesi sono minoritari nel catalogo. Io sono originario di Alberobello, che ha questa terra rossa e mi piaceva l’idea della terra come elemento universale che accoglie il seme e lo nutre, così come ci si augura che il libro possa nutrire il lettore. Allo stesso tempo questo elemento universale è declinato in una specificità locale, appunto questo colore rosso. Ma c’è anche a una connotazione un po’ politica: il primo testo di Fondanti è stato Nicola Rubino è entrato in fabbrica di Francesco Dezio; quindi, diciamo, tante suggestioni.

 

 

A proposito di collane, in origine vi era solo Fondanti? E da quale concetto derivano i due nomi?

Il progetto era già nato con le due collane. Sperimentali voleva essere quella un po’ più aperta al panorama nazionale; Fondanti nasceva prima con una connotazione più regionalistica, meridionale, poi ho tralasciato quest’orientamento, perché significava porsi un limite in più e, quindi, l’ho abbandonato. Entrambe nascono da un principio: siamo in una realtà editoriale molto, molto diversa da quella raccontata da Gian Carlo Ferretti in Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003. In questi giorni sto leggendo con molto amore, molta ammirazione I migliori anni della nostra vita di Ernesto Ferrero, che racconta la sua avventura all’Einaudi e sembra appunto veramente arcaico, lontanissimo, come il mondo contadino che ci raccontavano i nostri nonni. Ora tutti si lamentano dello stato delle cose, della sovrapproduzione editoriale e della mediocrità anche di ciò che viene pubblicato, però tutti in qualche modo alimentano queste due tendenze. TerraRossa, invece, era nata proprio con l’idea di opporsi completamente a questi due orientamenti; quindi, innanzitutto pubblicare solo cinque libri l’anno è un’assoluta eccezione nel panorama editoriale, perché generalmente le case editrici piccole ne pubblicano comunque dai dieci in su. Alcuni, nella collana Fondanti, sono appunto ripubblicazioni: non novità messe sul mercato, ma testi ritenuti significativi del recente passato, perché ormai diventa irreperibile un libro già a volte dopo pochi mesi, e dopo cinque-sei anni va fuori catalogo, anche se è un testo che continua ad essere importante e continua ad essere attuale. L’idea era appunto quella di continuare a far vivere nel tempo questi libri: Fondanti nasce proprio da lì, sono libri fondativi, di fondazione sia nel panorama letterario sia nel percorso dell’autore, perché spesso sono esordi. Sperimentali, invece, nasce dall’idea di osare, cioè di restituire dignità alla parola. L’idea base è che la letteratura nasca e si nutra di scrittura; il raccontare storie, l’intrattenere sono peculiarità anche del cinema, del teatro, dei videogiochi persino e, invece, farlo attraverso la scrittura a mio avviso è la specificità della letteratura. Accontentandosi di un linguaggio sempre più basico, standardizzato, per venire incontro alle presunte esigenze del lettore o addirittura, come si diceva a fine anni ‘90 e inizio anni 2000, del non-lettore (visto che in Italia sono più i non lettori), si finisce con il cercare di conquistarli. Ma si è ottenuto l’effetto opposto, perché i non lettori giustamente hanno continuato a preferire altro e i lettori si sono disaffezionati ad un prodotto sempre più mediocre. Sperimentali voleva essere uno spazio di opportunità per gli autori, l’opportunità di esprimere in libertà la propria voce, di osare con il linguaggio, con la sintassi, con la punteggiatura, con la struttura narrativa; quindi, in qualche modo chiede la partecipazione attiva del lettore. Fin quando siamo messi davanti ad un testo o a un prodotto artistico originale, in qualche modo, perdiamo i nostri riferimenti culturali, dobbiamo ricrearli. Sono stato ad uno spettacolo teatrale un paio di anni fa di Antonio Rezza, un performer, un attore incredibile, e al termine c’è stato un confronto con il pubblico che è stato veramente illuminante. Tra i vari interventi ce n’è stato uno molto simpatico di una spettatrice: «Sono venuta per la prima volta ad un suo spettacolo anni fa, perché tutti mi dicevano Antonio Rezza è bravissimo. Non c’ho capito niente e me ne sono andata contrariata. Dopodiché, siccome tutti continuavano a ripeterlo, ho insistito e devo dire che sono finalmente entrata nella sua arte e ora l’apprezzo molto, non mi perdo uno spettacolo». Rezza ha detto una cosa geniale: «Signora mia, quando lei capisce tutto di uno spettacolo si faccia dare i soldi indietro». Questo vale anche per i libri: se leggiamo in maniera passiva, il libro non ci sta dando niente. È chiaro che ci possono essere momenti della giornata o della vita in cui uno predilige un tipo di letture meno impegnative, è legittimo e, anzi, anche giusto, però non deve diventare appunto l’approccio esclusivo alla lettura. Lì dove non c’è più uno stimolo, una sfida, una complessità… si ha paura della complessità, ma la complessità è una ricchezza. Lì dove rinunciamo alla complessità vuol dire che stiamo banalizzando la realtà e una realtà bidimensionale è una realtà irreale. L’obiettivo di Sperimentali è anche quello di restituire dignità in questa complessità senza spaventare, possibilmente, i lettori.

 

Cinque opere l’anno e non particolarmente commerciali: è una sfida? Un doppio pericolo?

Sì, però è una falsa sfida, nel senso che tutti siamo dotati degli strumenti espressivi, linguistici e, quindi, si tratta semplicemente di accogliere o meno lo scambio. Dopodiché se ci auto sabotiamo, se ci convinciamo che il lettore o lo spettatore, il cittadino sia al di sotto di quello che è, finiremo per renderlo e per renderci tali. C’è una grossa responsabilità in tutti noi quando scegliamo di non votare, cosa guardare e cosa leggere, cosa non guardare e cosa non leggere. E non possiamo continuare a delegarlo soltanto agli altri.

 

I social e la tecnologia permettono di avere sempre a portata di mano la cultura e non solo, comprese le molte fake news. Cosa pensa a riguardo?

Chiaramente i social sono uno strumento o possono essere uno strumento. Soprattutto all’inizio, all’avvio del progetto editoriale avevo questo blog, Vita da editor, che poi si è esaurito, perché ormai i blog personali hanno fatto il loro tempo. Sono strumenti che mi hanno permesso di entrare in contatto da Bari, da Alberobello, dall’estrema periferia con i protagonisti della scena editoriale e del panorama letterario. Ci offrono delle opportunità. Dopodiché è anche vero che si è passati dalla critica alla comunicazione, dalla comunicazione alla promozione, con conseguenze abbastanza deleterie. E questo in parte è stato anche indotto dai social. Facebook ormai viene considerato da boomer, però permetteva comunque uno spazio di espressione, di condivisione, di lettura del testo, costringeva l’utente a soffermarsi sulle forme e i contenuti. Instagram è sempre più incentrato sulle immagini: sfido chiunque a leggersi le didascalie, soprattutto quando sono più lunghe di 200 caratteri. Tiktok è solo video. Quindi, è sempre più una contrazione dello spazio di confronto, di discussione e il problema è quello, non il social in sé. Ed è anche il fatto che stanno soppiantando altri circuiti, perché nel momento in cui un ufficio commerciale, un ufficio stampa di una casa editrice medio-grande si preoccupa più del booktoker, dell’influencer e non del critico letterario sta danneggiando il sistema inevitabilmente. È ciò che accade. È marketing che, però, ha delle conseguenze, soprattutto se si mettono in apertura dell’inserto, quindi dandogli più dignità delle pagine della critica. Sono tutte operazioni colpevoli, di cui ci dobbiamo assumere le conseguenze e le responsabilità.

 

E in TerraRossa c’è attenzione al marketing?

Il marketing è inevitabile che ci sia, nel senso che comunque i libri vanno comunicati, vanno anche divulgati, tanto più quando si è piccoli e, quindi, si hanno spazi ridotti perché non si possono acquistare paginate di inserti culturali, di recensioni, di visibilità. Il lavoro dello scrittore ha bisogno delle referenze del lettore e ugualmente, a maggior ragione, di quelle dell’editore. È ovvio che cerchiamo di fare un marketing onesto, nel senso che i libri che pubblichiamo e che promuoviamo sono libri in cui crediamo e che riteniamo significativi. Non c’è nessun testo pubblicato come riempitivo perché l’autore era noto o aveva un suo bacino di lettori, anzi sono stati detti “No” anche ad autori importanti che hanno pubblicato con case editrici più grandi: la nostra idea era che ritenevamo ci stessero dando testi minori o che non erano all’altezza delle loro possibilità e delle nostre aspettative.

 

Per quanto riguarda la sede della casa editrice, come mai avete fatto la scelta di rimanere in Puglia e non quella di spostare il progetto in città come Milano, Roma o Torino?

Adesso ad Alberobello è rimasta solo la sede fiscale; le sedi operative ufficialmente sono a Bari, che è abbastanza viva dal punto di vista culturale, ma è sempre, sì, una periferia. Ritengo che questo sia a volte uno svantaggio e a volte un vantaggio. È vero che sono centri al di fuori dei circuiti dell’“editoria che conta”, ma questo mi permette di avere spazi di indipendenza e di libertà maggiori. Dalla periferia a volte si ha una visione d’insieme molto più coerente e molto più completa che non dal centro, proprio perché si possono osservare alcune dinamiche senza farsene travolgere. È ovvio che, come tutto, ha i suoi svantaggi e vantaggi: la Puglia aveva vissuto la cosiddetta “primavera pugliese”, cioè quel che era stato costruito da Vendola in termini di politiche sociali, politiche giovanili e politiche culturali, che in parte è un po’ sedimentato e in parte è stato sperperato. Però era anche un momento, un periodo, quando io facevo l’Università, in cui si credeva davvero di poter dare un contributo concreto a cambiare qualcosa e in parte, forse, si è anche riusciti a farlo. Tutto sommato l’avrei vista un po’ come una sconfitta, quella di non provare qualcosa nella mia terra. Dopodiché è anche vero che siamo penultimi o terzultimi per numero di lettori come regione in Italia e l’Italia è terzultima in Europa; quindi, le difficoltà non possiamo nascondercele.

 

La sua laurea triennale in Lettere e la specialistica in Editoria la influenzano nella scelta dei dipendenti oppure riesce a dare spazio anche a coloro che non hanno esperienze pregresse?

Magari ad avere dipendenti! Anche se sono solo cinque libri l’anno già tenerla in piedi è complicato. Ho dei collaboratori o comunque redattori che vi lavorano, anche se sono impegnati in altri lavori, diciamo che seguono alcuni step della casa editrice; poi, c’è Francesco Dezio che fa le illustrazioni. Per il resto devo gestirlo in autonomia: dal contatto con il tipografo, alla rendicontazione, alle spedizioni, alla valutazione degli inediti, alle fatture, tutte una serie di mansioni tutt’altro che piacevoli, che era il motivo per cui all’inizio ero entusiasta di fare l’editor per TerraRossa e ora lo sono molto meno di fare l’editore. Non solo per le responsabilità: questo lavoro comprende una serie di mansioni completamente estranee al mio percorso di studi e ai miei interessi. Di contro, anche qui come per il discorso della periferia, l’essere appunto autonomo mi permette di pubblicare dei libri che magari a prima vista sono invendibili e alcune volte, com’è stato nel caso La casa delle madri, si rivelano anche un successo (è stato nella dozzina del Premio Strega). È un testo molto complesso con questa prosa ampia, secondo me è incredibile come romanzo e andava assolutamente pubblicato, però se avessi dovuto dar conto a un socio avrei avuto difficoltà. Ma così come me la racconto è per consolarmi!

Per quanto riguarda le illustrazioni, colpisce particolarmente la copertina pulita con un solo cerchio che racchiude il tutto. Può capitare di trovarvi degli spoiler riguardo l’opera?

La storia delle copertine è un altro aneddoto gustoso! Sono tutte illustrazioni di Francesco Dezio che è anche un nostro autore: ha pubblicato con noi sia Nicola Rubino è entrato in fabbrica, che era stato il suo esordio con Feltrinelli, in Fondanti,  poi La gente per bene in Sperimentali. Il vantaggio rispetto ai grafici comuni delle case editrici è che lui è appunto un autore, ha una sensibilità d’autore e, mentre i grafici generalmente forniscono alcuni elementi del libro e poi tirano fuori delle proposte, Dezio li legge. Quindi, con la sua sensibilità autoriale tira fuori delle idee. Tendenzialmente, diciamo, si cerca di non essere mai didascalici, quella è l’intenzione, poi può capitare in alcuni casi che la copertina possa suggerire qualcosa in più o qualcosa in meno, ma insomma l’idea è quella. L’impianto grafico nasce prima di Dezio, con Francesco Ditaranto e Giuseppe Moliterno, che erano nel progetto originario. Nel 2015, se ricordo bene, alla Fiera di Francoforte, che è la più importante fiera editoriale europea, ero rimasto basito dalla qualità scadente della grafica delle copertine mondiali, soprattutto quelle statunitensi, che sono come i Miti Mondadori e i SuperPocket, avevano questi titoloni strillati, colorati, confusi e questo mi aveva molto sorpreso. Facevano eccezione le case editrici italiane e quelle francesi o francofone. In particolare, una canadese aveva queste copertine in cui c’era un tondino che poteva essere, non so, l’occhio del lupo sulla copertina o la palla con cui giocava il bambino; quindi, dimensioni variabili e posizioni variabili. Da lì diciamo era nata innanzitutto l’idea di dare uniformità, che comunque non è un’eccezione; basti pensare a Sellerio o Adelphi, a quelle che sono case editrici di un certo prestigio. E questo lo vedo quando vado alle fiere di editoria: avere un banchetto con tutti i libri riconoscibili aiuta. Io da bambino ero un lettore di Topomistery che aveva questa circolarità, che è un po’ come i gialli Mondadori, in cui c’era l’immagine all’interno di questo cerchio a dare varie suggestioni che poi vanno a convergere in quella che è la grafica.

Credo non sia semplice riassumere il concetto che lega i vostri autori e autrici, ma se dovesse scegliere una sola parola per descriverli?

Sono scrittori, semplicemente. Non sono influencer, attori o altri prestati alla scrittura, ma sono scrittori. Sono autori con una forte consapevolezza dei propri strumenti espressivi, con una voce ben riconoscibile; quindi, sono tutti testi molto diversi l’uno dall’altro, proprio perché ognuno porta l’impronta di chi l’ha scritto. Direi appunto che è la scrittura il discrimine dei nostri testi e l’essere scrittori dei nostri autori.

Altro in questa categoria:
« Walter Siti, un'intervista