Commento di A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre (1975) di Giorgio Caproni
Scritto da Anna Ronga
(Al termine del Laboratorio di analisi dei testi letterari contemporanei [cds in Lettere moderne, a.a. 2024-2025], si pubblica qui il commento di Anna Ronga, dottoranda di ricerca in Lingue, Letterature, Culture e loro applicazioni dell'Università del Salento, 40° ciclo, a un testo di Giorgio Caproni tratto da Il muro della terra).
A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre
Portami con te lontano
... lontano...
nel tuo futuro.
Diventa mio padre, portami
per la mano
dov’è diretto sicuro
il tuo passo d’Irlanda
l’arpa del tuo profilo
biondo, alto
già più di me che inclino
già verso l’erba.
Serba
di me questo ricordo vano
che scrivo mentre la mano
mi trema.
Rema
con me negli occhi al largo
del tuo futuro, mentre odo
(non odio) abbrunato il sordo
battito del tamburo
che rulla – come il mio cuore: in nome
di nulla – la Dedizione.
Isolata nel cuore della raccolta Il muro della terra, nella sezione Poesia (o tavola) fuori testo – che funge da cerniera tra le sezioni Acciaio e Bisogno di guida –, la poesia A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre si apre con una richiesta: «Portami con te». È questo il primo di una serie di imperativi cortesi che intessono un dialogo tra l’io poetante e il figlio-padre cui si rivolge e che rappresentano gli snodi essenziali attorno a cui si impernia il testo. La formula dal sapore fiabesco «lontano / ... lontano...», verso cui si indirizza il movimento congiunto nell’esortazione del padre, è ulteriormente slontanato e rarefatto dal verso a gradino, nel quale il secondo «lontano» appare avviluppato dalle due serie di puntini di sospensione, soffuso in un’atmosfera immaginifica. La dichiarazione della meta del viaggio («nel tuo futuro») conclude il primo segmento sintattico, in cui risulta già enucleato il gioco tra “io” e “tu” che trama tutta la lirica. E difatti «Diventa mio padre» si schiude subito come l’invocazione decisiva, segnando un trionfo della reversibilità propiziata, come palesa il titolo, dall’identità di nome tra il padre e il figlio del poeta. La ripetizione di «portami» si associa stavolta a una precisazione della preghiera: «per la mano», sintagma posto in rilievo ancora una volta dal verso a gradino; non dunque il dove, prima vago poi collocato sullo scenario del futuro, ma il come di questo attraversamento diventa centrale in questo reiterarsi della richiesta, un passaggio da compiere non solo insieme, fianco a fianco, ma proprio presi per mano nel tipico gesto di guida che unisce genitori e figli. La rima «lontano» : «mano» stringe e suggella quest’intimo, necessario legame, e la presenza del determinativo «la» visualizza la concretezza del gesto, focalizza l’immagine della mano come sede del contatto, appiglio per farsi guidare.
Dal verso 4 fino al 7 il tu diventa progressivamente il centro dello sguardo e della scena. Allacciando «sicuro» a «futuro», il poeta evoca la direzione certa, salda, del «passo d’Irlanda» del figlio-padre (soggetto messo in risalto dalla posposizione al verbo). L’apparenza irlandese del figlio, il dato puramente fisico che si precisa nel «profilo / biondo, alto» – con un raddoppiamento analogico che inscrive in quel profilo il simbolo celtico dell’arpa –, trasla sull’andatura, che si tinge di un’impressione di leggiadria e musicalità. Si noti la struttura chiastica a livello concettuale (ma parallela per la disposizione dei blocchi grammaticali): i referenti, i tratti osservati del tu («il tuo passo»; «del tuo profilo») si incrociano coi loro contraltari analogici («d’Irlanda»; «l’arpa»). Al profilo biondo e alto del figlio si contrappone finalmente il poeta nel suo inarcarsi verso terra. L’anafora di «già» veicola il senso di un tempo incombente, anticipando l’ossessione per l’appressarsi della morte che si esprimerà compiutamente nell’ultima strofa. L’io, fattosi da parte per lasciare spazio al ritratto del tu, ricompare così nel perimetro del testo solo per paragonarsi in termini difettivi al figlio-padre («più di me»), per mostrarsi padre-figlio che declina «verso l’erba», quest’ultima in rima inclusiva con il verso a gradino «Serba», altro tenero imperativo che contiene la nuova esortazione paterna.
Nel movimento strofico tra i versi 9 e 12 il poeta torna pienamente padre nell’evocazione della dimensione memoriale. Ritorna anche in primo piano «la mano», stavolta mossa dal tremolio della commozione e intenta alla scrittura. Il ricordo che si vuole consegnare appare infatti «vano» perché incorporeo, affidato ai versi, fatto sostanzialmente di poesia. È il ricordo adesso inciso, quello di un padre che si piega, che si abbandona al figlio, ne invoca la paternità, e chiede la sua mano per continuare a camminare nel tempo che non gli apparterrà più. Il padre-poeta risiede ormai tutto nello spazio del foglio, nella mano che scrive e che nell’atto di farlo già sorvola sé stessa, imprime e smaterializza lo scrivente. Mentre l’io si decentra e si dissolve, facendosi scrittura, il tu prende consistenza e può infonderla al ricordo, traghettandolo in una nuova forma d’esistenza. L’ultimo gesto che gli viene chiesto è d’altronde ancora un movimento: «Rema». Ma nell’alternanza e anzi nella coesistenza di concreto e simbolico, nella tensione inesausta tra fisico e metafisico che si dipana in tutta la poesia, anche il remare si rivela metaforico: il figlio è invitato a spingersi sì «al largo» ma «del tuo futuro», sintagma chiave che, introdotto già al verso 2, circolarmente, ricompare in questo finale; un significativo iperbato interpone al verbo e al suo complemento di moto l’aggiunta circostanziale «con me negli occhi»: ancora una volta l’io si lascia assorbire, diventa immagine riflessa nello sguardo dell’altro e qui la sua smaterializzazione è definitiva e prelude al congedo. Negli ultimi versi l’affollarsi di vocali chiuse – “o” e soprattutto “u” –, congiunto a un ritmo battente, martellante, concorre, con chiaro effetto fonosimbolico, all’evocazione di una dimensione luttuosa, mortifera. Il forte enjambement che spezza «il sordo / battito», sinesteticamente «abbrunato», rende perfettamente il cupo suono che descrive. Le rime interne («rulla» : «nulla» e «come» : «nome») e le catene assonantiche («odo», «sordo»; «cuore», «nome», «Dedizione») completano il quadro di un’ultima strofa percorsa da una turbata musicalità da marcia funebre. Nell’inserzione incisiva («come il mio cuore: in nome / di nulla») l’io poetante, esplicitando l’accordo tra il suo cuore e il tamburo, annuncia il suo annullarsi, lo sfarfallare del battito che rotola verso la fine (l’ansia dilata anche la misura del penultimo verso, il più lungo della lirica, affannoso e tremante nell’inarcamento che lo lega all’ultimo). La Dedizione, punto terminale dell’io e della poesia, è la resa, la capitolazione, nel senso etimologico e dunque militare della deditio latina, come ha segnalato lo stesso Caproni in una nota al testo. Ma non c’è spazio per l’odio, come sottolinea, negandosi, la paronomasia parentetica: la morte viene accolta con rassegnazione, con la «disperazione / calma, senza sgomento» del viaggiatore cerimonioso giunto all’ultima stazione. Il poeta si consegna al destino e si affida al figlio-padre affinché lo conduca nelle vie del domani, nel tempo che sarà senza di lui, che sarà assenza e nuova presenza, sovversione e rimescolamento eterno delle generazioni, cammino solitario e comune.
«L’immagine del figlio che prende per la mano il padre non può non riecheggiare quella di Enea con il padre Anchise sulle spalle e il figlioletto Ascanio per mano, tanto cara al poeta e cardinale per la raccolta Il passaggio di Enea, in cui l’eroe troiano viene assunto come simbolo dello smarrimento e della solitudine «di tutta l’umanità moderna, in questo tempo in cui l’uomo è veramente solo sopra la terra con sulle spalle il peso d’una tradizione ch’egli tenta di sostenere mentre questa non lo sostiene più, e con per mano una speranza ancor troppo piccola e vacillante per potercisi appoggiare e che tuttavia egli deve portare a salvamento».
Può essere interessante anche guardare al testo che traspone poeticamente questa riscrittura virgiliana:
Enea che in spalla
un passato che crolla tenta invano
di porre in salvo, e al rullo di un tamburo
ch’è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora così gracile un futuro
da non reggersi dritto.
I punti di contatto con la lirica contenuta ne Il muro della terra sono evidenti, a partire dai riscontri intertestuali: ritroviamo il rullo del tamburo, il sintagma «per la mano» e il concetto di «futuro»; la poesia dedicata al figlio sembra porsi in diretta continuità con questi testi, rappresentandone però un’evoluzione, un momento successivo, quello in cui la speranza futura portata per mano non è più piccola e vacillante ma si regge sulle sue gambe e anzi, ribaltandosi i ruoli, diventa il sostegno del padre e lo porta in salvo. La dimensione civile della riscrittura del mito di Enea sembrerebbe comprimersi nell’intimismo famigliare, tanto che il rullo del tamburo bellico, associato allo schiantarsi delle mura della città, risuona in minore nel battito del cuore del poeta, nel destino del singolo individuo che si prepara alla morte. Ma il restringimento e la scissione io-noi sono solo apparenti se pensiamo a quanto ha scritto Caproni stesso, sintetizzando magnificamente il senso della sua poesia:
«Mia ambizione, o vocazione, è sempre stata quella di riuscire, attraverso la pratica del verso, a trovare, cercando la mia, la verità di tutti. [...] E si arriva così al paradosso che quanto più il poeta si immerge nel pozzo del proprio io, tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo: appunto perché in quella profondissima zona del suo io è il noi: un io che, dalla singolarità, passa immediatamente alla pluralità. La funzione sociale – civile – della poesia, sta, o dovrebbe stare, appunto in questo. [...] Il poeta è un minatore. È poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galerìas del alma, e lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli stratti superficiali diversissimi da individuo a individuo, sono comuni a tutti anche se non tutti ne hanno conoscenza. L’esercizio della poesia rimane puro narcisismo finché il poeta si ferma ai singoli fatti esterni della propria biografia. Ma ogni narcisismo cessa non appena il poeta, partendo dalle proprie personali esperienze, e costituendo con esse le proprie metafore, riesce a chiudersi e inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi e portare a giorno, quei nodi di luce che sono non soltanto dell’io, ma di tutta intera la tribù. Quei nodi di luce che tutti i membri della tribù possiedono, ma che non tutti i membri della tribù sanno di possedere, o riescono a individuare».
Così, anche nei versi che abbiamo analizzato, il poeta, inabissandosi nell’io e trascendendo il dato biografico, giunge a interrogarsi sulle inquietudini esistenziali di «tutta intera la tribù», verbalizza l’insondabilità del dolore e dell’amore e dà voce a una speranza universale.
Quel simbolo di epocale smarrimento, di perdita simultanea di passato e futuro, di crollo apocalittico che era Enea viene infine risemantizzato qui in un’accezione positiva, speranzosa, in cui non solo si saldano individualità e collettività ma anche i tre piani temporali si presentano intrecciati e permeabili: il passato del padre si effonde nel presente del figlio e si proietta nel futuro in qualche modo condiviso, nello scavalcamento delle barriere generazionali, nella reversibilità che riavvolge il nastro e consente la catena di morti e rinascite, garantendo una prosecuzione, una permanenza della vita proprio nel momento della resa, intonata non al lamento ma alla serena, pacata accettazione. Pur nel cupo “abbrunarsi” delle immagini conclusive, l’apertura terminale sulla Dedizione stempera in calma dolcezza la crudezza dolente del presagio funereo. Ogni cesura diventa perciò un passaggio, un’apertura sull’oltre, sul perpetuarsi di un ciclo inesausto, in un infinito finire che non conclude. Passato, presente e futuro si riversano in una continuità vitale, fioriscono l’uno dall’altro, le generazioni scorrono e si scambiano e i nomi che si ripetono sono i segni di questo avvicendarsi rinnovativo. In ultima analisi, la speranza di salvezza è riposta nella mano del figlio-padre che guida e in quella del poeta che scrive.