Giovedì, 08 Febbraio 2018 07:00

Testimoni di un miracolo. «Felici diluvi» di Graziano Gala

Scritto da Mariaelena Tucci

Come può una pioggia dirotta, violenta, incessante, che tutto distrugge e che tutto trascina con sé, lasciare spazio alla speranza che qualcosa possa essere rimasto attaccato al suolo, lottando per la propria sopravvivenza e rinascendo a vita nuova dopo la catastrofe? Felici diluvi del giovane scrittore Graziano Gala, insegnante di Lettere originario di Tricase (Lecce) giunto alla sua prima prova letteraria, ci dimostra come i ‘diluvi’ dell’esistenza, per quanto rovinosi possano essere, riservino sempre un ventaglio mai completamente prevedibile di possibilità per ritornare sui propri passi, cambiare completamente rotta o conferire un senso nuovo alla propria condizione di adattamento.

Edito da Musicaos Editore, il libro si presenta infatti come un prontuario tascabile composto di quattordici brevi, illuminanti racconti, in cui storie apparentemente dissimili tra loro rispondono a un comune denominatore: la volontà di superare la tempesta, attraversandola. C’è chi, ad esempio, confida in se stesso e nelle proprie capacità per ottenere il riscatto da tempo desiderato, come Marco Poli, il «netturbino per necessità» del primo racconto (L’applauso), «una delle più belle promesse dell’annata ’87 bloccata dalla sorte e insaccata in una divisa catarifrangente» (p. 15), che si serve di un vecchio pianoforte, recuperato durante la sua consueta raccolta dei rifiuti, per rendere giustizia al suo tortuoso passato; allo stesso modo, il protagonista di Rumori dal basso usa i limiti narrativi per infrangerli e per rivendicare il giusto spazio in cui riversare i propri tormenti: dal suo rabbioso stream of consciousness, che parte dal quinto binario della stazione di Feccia con destinazione Francavilla, emerge non solo l’istinto sovversivo contro l’attuale sistema editoriale («Statemi lontano, gentili signori della Maugeri […] Avete di sicuro delle polacchine marroni o grigie da talent scout che la vedono lunga sul futuro dell’editoria nazionale e scelgono per tempo i loro cavalli. Io odio le polacchine, odio lo scouting e odio l’editoria nazionale», p. 114), ma soprattutto la pervasività del disturbo del protagonista, che lo porta da anni a guardare le persone «dalle caviglie in giù» (come recita il sottotitolo del testo) e che racconta di traumi indicibili, di segreti ormai impossibili da disinnescare.

Sabotare il silenzio, dunque, diventa l’imperativo da conquistare per continuare a rimanere vivi: nel racconto omonimo, l’autore-protagonista, un salentino trapiantato a Milano per insegnare latino e italiano al liceo «Ven-in-Sauro» di Imago, riuscirà a lenire la lontananza dalla sua terra grazie alla follia di Abdul Mahréz, un operaio-pirata dall’accento ispano-bergamasco che lo affiancherà ogni giorno nel suo tragitto lavorativo, conducendolo in una fantomatica guerra navale fatta di stazioni metro da assaltare e di nuove terre da scoprire («E alla fine accadde che ne assaltammo una al giorno, di meta immaginaria: Pecco, Trescia, Danese e tutto quanto il creato interno o limitrofo al regno lombardo», p. 40). Andare controcorrente vuol dire spesso scegliere di percorrere strade secondarie, talvolta impervie: in Complanari, il protagonista si avventura con la sua vecchia Taunus «su questi serpenti perennemente a coda in bocca» (p. 29) per incontrare Frida, una giovane prostituta a cui sogna di regalare un futuro migliore, mentre ne Le circostanze dell’arrivederci le vite di Marilena Forconi e di Franco Storti si incrociano sul bancone dell’ex Hacienda Forconi Marillon, un tempo locanda di successo nel piemontese, per poi inseguire l’aroma del caffè, con il suo gusto amaro ma comunque intenso, quello delle illusioni più cieche, delle sconfitte più dure, in nome della passione che lega i due amanti.

L’amore diventa così forza motrice ne La figlia di Brasi, dove una lavanderia a gettoni, di cui Goffredo Mammoni è il proprietario, si trasforma nella «chiesa laica» («la gente entra in questo posto immonda per uscirne purificata, arriva carica di problemi per andare via con la soluzione degli stessi», p. 88) atta a celebrare l’incontro con Manina Sìfforte, un ossimoro di delicatezza e tenacia, di goffaggine e di caparbietà, mentre degenera in forza distruttrice nel racconto Piatti, bottiglie, improvvisate stoviglie, in cui l’inconsueta perversione di Domenico Cola nei confronti della moglie, Martina Lava, renderà ben presto la loro casa «un vulcano in eruzione» («cognomi, attività e incandescenze invitavano alla similitudine», p. 101). E se al «cattolico contabile» Fabio Filzi (La prospettiva di Giuda) basteranno soltanto «quaranta minuti mal spesi» (p. 129), quelli di un tradimento, per salvare il suo imperfetto microcosmo familiare, al Signor Piaccia (Purché le piaccia), un ingegnere in pensione, servirà una domenica pomeriggio per mettere in discussione un tempo metodicamente pianificato e mai realmente vissuto.

Ciò che però s’insinua più profondamente nei destini degli uomini per stravolgerne il corso è la Provvidenza, che Gala spoglia di ogni patetismo: è il caso del racconto Sentir messa, dove la figura di don Pasquale si erige a emblema di una religiosità svuotata di senso («Presto arriverà al latino, ne sono più che sicuro: presto godrà nel non farci capire una mazza di quello che vuole dire e poi ci maledirà segretamente e maledirà le nostre madri e le madri delle nostre madri e il provveditore di Giovenazzo che lo ha mandato qui a predicare in mezzo alle pecore […]», pp. 119-20); e di Récumeterna, dove la vecchia prefica RoSara rappresenta i resti di una morale ormai stanca, per nulla avvezza al cambiamento. Di contro, in Felici diluvi emerge la dimensione più autentica della spiritualità, cui i comuni mortali si approcciano per giungere a una consapevolezza totale di sé e del mondo circostante; sarà, infatti, una serie di eventi apparentemente fortuiti («La Provvidenza […] quella vera, si presenta in modi talvolta inconoscibili, talaltra inspiegabili, talaltra ancora fin troppo concreti […]», p. 149) a condurre Gaetano Tamorra (Fuori i polmoni), da trentanove anni «abituato a rinunciare alla propria vita, alla propria moglie e alle proprie gioie» (p. 151), verso la libertà di scegliere come (e cosa) respirare, mentre ne Il sonno dei giusti, Capís Tanáchis, «omiciattolo caldo e olivastro di un metro e quaranta» (p. 27), si fa strumento di Dio per regalare alle sue rose l’acqua necessaria in cui poter prosperare, continuando a rendere felici le coppie innamorate.

La scrittura fresca e immediata di Gala, che sembra ispirarsi, sin dai nomi fortemente evocativi dei personaggi, ai giochi linguistici di Rodari e di Benni e all’ironia dissacrante di Cosimo Argentina, guida il lettore nel carosello di emozioni, spesso contrastanti, che si rincorrono pagina dopo pagina, storia dopo storia, senza tuttavia lasciare nulla al caos e all’indefinito: il racconto finale che dà il titolo al libro appare la summa di ciò che è stato letto e il complemento di ciò che non è stato (probabilmente, ancora) scritto. Ecco, allora, che nella corsa di Clara, aggrappata sotto la pioggia al suo fido ombrello, ritroviamo anche la nostra storia e tutte quelle sofferenze percorse almeno una volta nella vita in completa solitudine, ma senza paura, certi che almeno una goccia caduta dal cielo avrebbe potuto regalarci un miracolo.