Autore: Chiara Briganti

Il racconto di un territorio è saldamente vincolato alle coordinate dello spazio e del tempo, alla concretezza delle distanze e della durata dei tragitti necessari a percorrerle e non può ignorare come queste variabili influenzino le relazioni personali. Se al principio avevo immaginato che Ostia non si discostasse molto da altre realtà periferiche di cui avevo avuto esperienza, mi trovavo ora a valutare la natura peculiare di questo posto, periferia se considerato negativamente e per sottrazione rispetto all’Urbe, municipalità autonoma dotata a sua volta di un sobborgo e di un’identità propri se guardato nella sua singolarità. I dodici capitoli di "Ostia!" attraversano un arco di tempo che va all’incirca dalla fine degli anni Settanta ai giorni nostri e aiutano a gettare luce proprio sulla dialettica tra Roma Capitale e le sue frazioni, sulle politiche di integrazione e il loro insuccesso, sul dialogo intermittente tra enti amministrativi e associazioni cittadine. Sono, soprattutto, la testimonianza della ricerca di forme di socialità proficua, della creazione di legami solidali in un contesto difficile che raramente guadagna l’attenzione della stampa se non per fatti di cronaca che esorbitano dallo stretto giro della quotidianità locale, non foss’altro perché colti e diffusi dalle reti nazionali. In una realtà in cui la testata sferrata ad un giornalista è solo la manifestazione estrema e più eclatante della convivenza sofferta tra forze antagoniste per storia, valori e finalità, l’attività portata avanti dal collettivo cittadino di Territorio Narrante si configura come un tentativo di resistere all’alienazione, di porre un argine alle tendenze apolitiche, al disimpegno, alla rassegnazione

Nell’attitudine al racconto di Rabito è possibile individuare due traiettorie convergenti, quella della ristrutturazione dell’esperienza privata e quella della riorganizzazione dell’esperienza comunitaria, entrambe tese a confermare la presenza del soggetto preso a sé e collocato nella comunità d’appartenenza; si potrebbe dire, anzi, che Rabito si avverte realmente integrato solo quando può farsi narratore di e nel gruppo di riferimento, sia esso la famiglia, il popolo minuto e, come vedremo, il pubblico virtuale per il quale decide di mettersi a scrivere.

Tentare di isolare nell’opera di Primo Levi i momenti dedicati alla riflessione linguistica è impresa disagevole e destinata ad una realizzazione mutila, o quantomeno incerta. Difatti bisognerebbe operare una scelta di metodo, decidendo se privilegiare le circoscritte ma disseminate digressioni etimologiche o più genericamente filologiche, o esaminare, in un’ottica più larga, i fenomeni micro e macrostrutturali che rientrano nel dominio del linguaggio inteso nell’accezione più ampia e traversale di complesso di segni e simboli. In questa sede si intende rilevare come per Levi il linguaggio riproduca i moduli d’acquisizione dell’esperienza (nei termini di tracciabilità, capitalizzazione e riconversione) e come il linguaggio si determini a sua volta come esperienza paritaria e comunitaria.