Antonio Prete è oggi un autore, critico, comparatista che gode di stima internazionale e a cui la mia generazione deve molto: la sua appassionata curiosità ha indagato con acribia alcune delle più affascinanti firme della letteratura mondiale, Jabés, Leopardi, Baudelaire per citarne alcuni, ma si è anche generosamente riversata sull’esplorazione del sentimento (Nostalgia, 1992; Trattato della lontananza, 2008) e sull’immaginario poetico legato agli elementi naturali (Prosodia della natura, 1993). Due aspetti, questi, che sembrano avere come spontaneo approdo il suo ultimo lavoro, Torre saracena. Viaggio sentimentale nel Salento (Manni, 2018).
Si tratta di un percorso sensoriale nella terra d’origine dell’autore, che inizia da un bastione di confine sul mare e termina nell’evocazione della antica Rudiae di Ennio. Il percorso è estremamente vario, nello spazio e nel tempo: seguiamo un bambino che si smarrisce tra i demoni barocchi delle strade di Lecce, degli adolescenti festosi tra le luminarie di Melpignano, degli adulti che conquistano in bicicletta le terre dell’Arneo. È un viaggio nei ricordi e nei luoghi e in ogni pagina regna la serena convinzione che non sia necessario decidere dove finiscano gli uni e incomincino gli altri. In effetti l’autore si richiama a Benjamin nel dire che «il libro di viaggio scritto dal “nativo” avrà […] una certa affinità col libro di memorie» (p.121).
A questo si potrebbe aggiungere che una possibile chiave interpretativa dell’intero testo è dichiarata fin dal sottotitolo: nel 1768, in piena bulimia da Grand Tour, Laurence Sterne pubblicava Viaggio sentimentale di Yorik lungo la Francia e l’Italia e segnava il valico di un confine ben preciso: se nella tradizione odeporica settecentesca si riempivano i bagagli di antropologia e oggettività, di razionalità e cosmopolitismo, per Sterne si viaggia essenzialmente per tre ragioni: infermità di corpo, imbecillità d’animo, necessità assoluta. A partire da queste motivazioni possono poi individuarsi varie tipologie, non del tutto nobili, di viaggiatori: vanagloriosi, ipocondriaci, sfaccendati, delinquenti ecc. A questo poco edificante ventaglio, però, il pungente Sterne deve aggiungere quelli che «o per mare o per terra, scorrono gli inciviliti paesi del globo cercandovi cognizioni o miglioramenti», ossia i viaggiatori sentimentali.
Sterne, parodiando la moda del viaggio illuminista, anticipa quello di impronta romantica in cui il paesaggio non è mai solo uno sfondo, ma l’occasione per un continuo confronto finito/infinito, io/mondo, spazio/tempo, realtà/interpretazione. Prete pare inserirsi subito in questa categoria di viaggiatori e, oltre alle suggestioni di Sterne, sembra attuare le riflessioni di alcuni maestri della geocritica: Dionisotti, Westphal, McHale, da cui si ricava che ogni paesaggio non è che una continua trattativa tra la realtà e la sua rappresentazione, un atto soggettivo che percepisce e interpreta, non descrive. Prete, in effetti, nel suo prologo ammette che:
anche per il Salento è soprattutto l’esperienza soggettiva che edifica profili ed immagini peculiari e traccia – unendo memoria e sguardo, relazioni umane e linee del paesaggio – il disegno di una differenza, radice e motivo di un’affezione o di un amore (p.7).
Il suo è un viaggio di ritorno in una terra che ha lasciato, ma anche continuamente ritrovato, quindi può raccontarcela con affettuosa sincerità, ma senza cedere a trasfigurazioni nostalgiche: ne risulta un catalogo di scorci e voci, paesaggi e aneddoti, monumenti e ricordi che si accumulano in molteplici sfumature cromatiche. Si parte dall’ocra di Torre di Sant’Isidoro, voluta da Carlo V a difesa dai Saraceni, ma anche simbolo di quel doppio confine: terra/mare e terra/cielo che è così ricorrente nel Salento e che ha ispirato alla sua gente l’arte dell’accoglienza e della tolleranza; si attraversano il verde e il rosso della cava di bauxite tra Otranto e Punta Palascia e si riflette su quanto la stupefacente bellezza di quel paesaggio sia in realtà frutto di un tormentato quanto impari scontro Uomo/Natura; si contempla il bianco della pietra leccese, dei talamoni turchi, dei palazzi di Otranto; il nero di quel «Zeni sù en ise ettù ‘sti Kalimera» (tu non sei straniera qui a Calimera) inciso sul timpano di un tempietto della Grecìa salentina o ancora il nero, misto al rossiccio, delle antiche incisioni nella Grotta dei Cervi. Sfumature cromatiche da descrivere attraverso gli aneddoti ma anche l’architettura, la storia, la letteratura, la spiritualità, il suono e l’atmosfera che da questi luoghi promana; tanti tasselli che paiono incasellarsi nell’armonia di un enorme mosaico che – alla stregua di quello nella Cattedrale di Otranto – sembra dispiegare – e spiegare – l’essenza stessa del Salento.