Parlare della vita è anche parlare di lavoro: questo sembra essere il filo conduttore de La gente per bene (Terrarossa Edizioni, 2018), ultimo romanzo di Francesco Dezio. La storia, narrata in prima persona, segue il protagonista dai banchi di scuola fino alla maturità e ai problemi con il lavoro. Definire La gente per bene un romanzo industriale è riduttivo: l’utilizzo frequente di flashback e flashforward, divagazioni e ricordi innesca un racconto ibrido e sconnesso dove il protagonista, alle prese con la macchinazione della struttura imprenditoriale, è in lotta con la tecnocrazia che schiaccia ogni forma di umanità e di interesse culturale e artistico (Francesco, protagonista e io narrante, è artista per vocazione e ingegnere precario per necessità). Tra riferimenti a Orwell (un capitolo è intitolato Nel ventre della megattera meccanica), a L’uomo flessibile di Richard Sennet o ad altri classici della sociologia («non si sapeva chi controllasse chi […]. Un meccanismo, rudimentale ma efficace, che aveva regole simili a quelle del Panopticon di Jeremy Bentham», pag. 160), il protagonista riflette e ricorda, commenta e denuncia. Il risultato è un ritratto preciso e sistematico del meridione e di una condizione sociale priva di riferimento alcuno, ed è proprio questo il nodo dal quale si sviluppa un linguaggio ricercato ma soprattutto ricco, centrifugo, capace di spaziare dai tecnicismi informatici alle delicatissime e poetiche descrizioni, senza dimenticare i dialettismi che hanno il fine di immergere il lettore in un mondo caotico e terribilmente vero.
Molta attenzione è ancora riposta alla tridimensionalità dei personaggi, sviluppati attraverso dialoghi secchi ma verosimili, talvolta affiancati dall’insistenza descrittiva sulla loro dimensione corporale e gestuale, come quando «il signor Volpe si segna la guancia col pollice» (pag. 92) o quando Maiellaro «imprime al polso una rotazione, sopra e sotto, più volte, pollice in su e indice puntato a pistola» (pag. 81): e questa ricerca dei particolari è sì stilistica, ma funziona soprattutto come un preciso sistema di caratterizzazione del protagonista, innamorato del disegno e, comunque, costretto ad un lavoro, quello di progettista meccanico, che gli impone una massima cura dei dettagli. Con questi elementi narrativi Dezio genera una forma espressiva nuova e la adatta alle circostanze, dettando i tempi della lettura e mostrando una attenta capacità di regolare un vocabolario ampissimo.
Francesco è fin da subito inserito in una realtà opprimente e schiacciante, in una famiglia povera «e di spirito e di grana» (pag. 13), in una paese dove è difficile coltivare la «propensione al mondo delle arti» (pag. 30). In questi passaggi il protagonista ricorda i personaggi di Svevo e della narrativa modernista. E come nei romanzi modernisti, anche qui la sua identità si evolve nel confronto/scontro con un “doppio” o con un antagonista: Natalino Manucci (alias Pasquale Natuzzi), il «re dei divani». L’imprenditore è uno dei personaggi a cui è dedicato più spazio, e che meglio trova riscontro con il senso del titolo (antifrastico) del romanzo: è un imprenditore abile e carismatico; dedito al lavoro, mette da parte i sentimenti e si costruisce da solo come “la gente per bene” dovrebbe fare. Il suo ritratto si arricchisce di una venatura di incoerenza e spietatezza, e la sua ambiguità genera nel lettore una conseguente difficoltà a darne un giudizio univoco. Natale Manucci è il primo imprenditore del romanzo a fidarsi totalmente di un neo-laureato come Francesco, ed è persino disposto ad andare in Germania a «visitare uno dei modernissimi stabilimenti della Mercedes» (pag. 158) per rubare «con gli occhi ogni particolare» (pag. 158). Disprezzerà, però, gli spazi e i tempi che l’azienda tedesca concede al riposo dei dipendenti:
Durante la visita Manucci si accorse che esistevano persino delle stanze in cui agli operai veniva consentito mettersi in pausa, li vide fumarsi tranquillamente una sigaretta: pazzesco! Da alcuni ambienti, specie quelli dove si staziona a braccia conserte, possono scaturire pensieri dannosi, di rivolta, temeva. No, questo lui non l’avrebbe mai consentito. Per il resto, De Giorgio aveva ragione, ora ne aveva le prove: quei testoni dei suoi operai la dovevano smettere di fare i giocolieri e gli equilibristi, specie davanti a lui per compiacerlo. Cattive abitudini da estirpare come gramigna che invade i campi di grano; invece dovevano starsene cioncati di muso il più possibile nella proprio area di pertinenza. Ne andava del rendimento. (pag. 159)
Il protagonista paga l’insofferenza per il lavoro flessibile e cerca di evadere attraverso la pittura, prima, la musica e la lettura, poi. Il testo è infatti cadenzato da citazioni di romanzi. Francesco rimane isolato anche nella lettura:
Mi siedo all’ombra, sulle mattonelle meno luride, origliando le conversazioni attutite di chi lavora in cucina. Porto sempre con me un libro di piccolo spessore (non si vede nessun altro in giro che lo fa). Attualmente sto leggendo In tutti i sensi come l’amore di Simona Vinci, con scarso entusiasmo, e C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo di Efraim Medina Reyes.
Le forze industriali cozzano con gli interessi e le inclinazioni personali dell’io narrante, ma piuttosto che lasciarsi sprofondare nell’auto-consapevolezza, questi continua a lottare di fronte alle difficoltà lavorative e sentimentali. Il sogno di indipendenza economica e stabilità sociale si trasforma, alla fine del romanzo, nella ricerca di fortuna in Germania, trovando nella determinazione e in un messaggio di speranza tenace lo scarto definitivo tra l’inetto di inizio secolo scorso e l’individuo del post-capitalismo narrato da Dezio.
Del resto, l’intero romanzo è ibridato in una struttura tra l’autobiografico e il documentaristico, tra l’inchiesta, il non fiction novel e il romanzo industriale: sappiamo infatti che il testo è stato presentato all’editore come un “brogliaccio” di appunti e vari materiali, ancora prima che avesse le sembianze di un romanzo, includendo anche fotografie e fotocopie di documenti. Queste fondamenta di reportage, questi “inserti di realtà” poi riassorbiti, in qualche modo, nelle strutture narrative, rendono La gente per bene un romanzo innovativo nello stile e nei contenuti, riuscendo a trovare un punto d’incontro tra l’autofiction e il romanzo di denuncia. I capitoli del romanzo sembrano essere indipendenti e organici al tempo stesso - tanto che ciascun capitolo è dotato di un vero e proprio finale - e ognuno di essi apre una finestra su specifici momenti della biografia di Francesco. E allo stesso tempo non sfuggono le riflessioni sulla politica, sulla storia del meridione, sulle classi sociali e i luoghi comuni, sempre scandite da una ironia tagliente che già si leggeva nel suo precedente romanzo, Nicola Rubino è entrato in fabbrica (pubblicato nel 2004 con Feltrinelli e riproposto nel 2017 con Terrarossa Edizioni) ma che adesso appare, se possibile, più equilibrata e naturale.
Ed è questo un tratto che avvicina la scrittura di Dezio a quella di autori “irregolari” come Luciano Bianciardi, un certo Volponi e Cosimo Argentina: l’ironia come registro, forma e figura di una rabbia e di un malcontento esistenziale riversati contro un mondo feroce, nel quale anche le relazioni sentimentali e affettive sono permeate dalla logica del profitto, e il tempo libero o l’eros (Dezio è un abilissimo narratore dell’erotismo) diventano unità di misura del tempo di lavoro: «Un tre posti porta via mediamente centocinquanta minuti […] ma alcuni riescono a fare tutto in un’ora, il tempo che io e te siamo stati a prenderci il tè».