Until my ghastly tale is told, this heart within me burns.
Samuel Taylor Coleridge
Narrare è un processo di attiva creazione di senso[1]. Molti studi (antropologici, psicologici, narratologici) hanno considerato il meccanismo narrativo, l’ “emplotting[2]”, come un mezzo capace di tracciare una configurazione di significato - del reale o di un suo aspetto drammatico - che risulti soddisfacente per il narrante, per quanto mai definitiva, costantemente suscettibile di modifiche, sempre dinamica e aperta[3]. L’autobiografia è stata inclusa in questa cornice d'analisi, veicolo di una lucida e attiva produzione di significato, in grado di far riabbracciare parti di sé altrimenti critiche o problematiche[4].
Padreterno di Caterina Serra è un romanzo che muove sulle stesse istanze profonde: è una ricerca di una trama di senso, che genera da mani macchiate da una colpa, che si guarda dietro fino alle radici.
Ciò che Serra riporta è la confessione di un uomo tremendo, il quale si muove sin da subito nel lessico della violenza, del narcisismo, del possesso morboso:
«Mentre le faccio male, e sento la sua voce che si alza, Basta, adesso. Che non è più quello che vuole[5]».
La voce narrante, Aristeo, si auto-elegge a dio già nel nome: Aristeo è un dio agreste, ma minore, e viene volentieri troncato in Teo, per farsi solo divinità:
«Aristeo è un piccolo dio, minore [...] il dio degli alberi e delle api, un semidio, un dio contadino[6]».
«Aristeo, mi avete chiamato. Aveva ragione la mamma che ci teneva tanto a chiamarmi Teo, che lo sapeva che era come chiamarmi dio[7]».
Aristeo è l’unica vera voce presente, nonostante il romanzo si svolga tutto accanto al padre morente.
«Non posso seguire una cronologia dei fatti. Forse posso solo cercare di metterli insieme. Non uno dopo l’altro, ma uno accanto all’altro, come certe terre di campi coltivati viste da un aereo. Voglio raccontarti cosa mi è successo. Se ci riesco. Il fatto che tu non parli rende tutto più facile. Non puoi rifiutarti, papà[8]».
Il processo di confessione in Padreterno non esaurisce nella traccia psicoanalitica, tesa banalmente a trovare un rimosso o una rete di tensioni biografiche da sciogliere per riafferrare una purezza perduta. Confessare si presenta invece come qualcosa di più complesso: è infatti la trasposizione di un dialogo muto, tronco e dunque tragico. Il testo, più che la testimonianza di un uomo che cerca una redenzione, è una contemplazione della sua viscerale mostruosità. E, soprattutto, è un racconto di decostruzione, strato a strato: nel corpo di una scrittura densissima, Serra riporta una forma di disfacimento volontario che nel monologo prova a far emergere le pietre angolari dell’identità (corrotta, macchiata) del protagonista. Le tensioni biografiche sono descritte, ma la presunta purezza di Aristeo, per emergere, come in ogni processo analitico, avrebbe bisogno di un “tu” in grado di cogliere il senso del suo racconto, che lo comprenda o ne prenda atto, che in qualche modo vi reagisca. La confessione tragica, però, si imposta su continui dialoghi falliti, i quali comportano tanti “tu” che rientrano sempre, narcisisticamente, nell’“io” narrante:
«Non l’ho fatto apposta. Dimmi che non l’ho fatto apposta. Non me ne sono neanche accorto[9]».
L’alterità è uno specchio non chiaro: resta superficie deformante e imprecisa, crudele, e lo è perché non è parte attiva e co-creatrice. I “tu” non sono realmente presenti. Le parole e i gesti altrui creano la traccia dell’identità di Aristeo, ma nessuno di loro (il nonno, la zia, la madre, la badante Katya, il padre morente, la compagna Nina) ha voce effettiva. A ben guardare è il protagonista stesso, ingabbiato in questo incedere tragico della parola, a usarli come burattini inermi. Esistono solo nella narrazione di Aristeo. Agiscono solo perché lui li fa agire, li guarda muoversi: ne ricrea la parola, la situazione, il gesto contaminante – e nel farlo ricerca e crea la trama di se stesso.
Inseguendo le coordinate dell’inizio e della fine del protagonista, Padreterno risulta una lista dei colpevoli ma con un solo assassino. Nina soltanto, la donna amata e odiata, parla in prima persona nelle poesie ad incipit di quasi ogni capitolo. Ma anche questi testi fanno soltanto da contrappunto spettrale, che Aristeo, da autore/narratore, posiziona in modo rilevante a posteriori, per inscenare un dialogo mai avvenuto. Anche Nina è nel coro delle voci riesumate, mai vive, rianimate solo narrativamente. Nina è muta come gli altri, anzi: ammutolita.
«Patate / al rosmarino / e un mostro / nel forno. / Bottiglia / di vino / che pesa / anche vuota. / Resti / sveglio? / O ti pungo / come un’ape / che non ti riconosce. / Verso io / come / fanno / le donne greche – Nina Nausicaa
Vuole dire che mangio lo stesso, bevo lo stesso, che non c’è niente che mi faccia veramente male, che mi faccia sentire in colpa. O quanto meno responsabile. Questo vuole dire. Il mostro magari sono io[10]».
Più che ciò che affiora del protagonista (Teo, per la madre, un dio assoluto; Aristeo, il dio minore e fragile, per il padre e Nina) è interessante il processo di svisceramento di un sé tramite parole che ricadono su se stesse, che si soccorrono egoisticamente, che cercano costantemente di auto-assolversi. Così si manifesta anche l’ambiguità del titolo: il «padreterno» a cui tende il dialogo non è il padre morente, ossia un tu esistente oltre il sé, ma il protagonista stesso.
«Nina dice che è colpa delle madri invadenti e petulanti, quelle che vogliono avere il controllo, quelle che ossessionano il figliomaschio, tutto attaccato come lo pronuncia lei. [...] che sgridano e poi consolano, mortificano e ti perdonano sempre, perché vogliono che sia il migliore, il più bravo di tutti, il più possibile vicino a quel dio a cui lo paragonano, quel dio che vorrebbero fosse. Quel figliomaschio che alla fine si sente così per tutta la vita. Un padreterno, tutto attaccato, come lo fa suonare lei[11]».
Padreterno è una confessione sacra – sacer – strappata dal reale, da esso del tutto scollata: resta contemplazione di una vita velenosa e fallimentare, dove il narrare non può essere un impianto salvifico. La narrazione al padre, il Tu più santo, non crea uscita o soluzione. Confessare è configurare la geografia della rovina, individuare le crepe che fanno di Aristeo ciò che è: un uomo debole e violento, un dio egoista e terribile, un figlio amato male e che ama peggio.
Nel romanzo, il mito è un piano compresente a quello della realtà, e che le fa da filigrana: è un cosciente strumento significante, una cassa di risonanza narrativa. Non è solo meccanismo estetizzante, ma sostiene il testo nella sua valenza tragica. Nina è Euridice «forte, furiosa, con i suoi cani intorno, che li tocca di continuo, che se li tiene sempre addosso[12]» ed «è diminutivo di Giovanna, è Anna, è la grazia di Dio[13]», è la donna leonessa; Aristeo è il dio agreste della terra e delle api che vorrebbe essere Prometeo; Katya, la badante, è Medusa coi capelli avvolti nella carta stagnola («che sembrava perfettamente a suo agio mentre con quella testa abbagliante attirava il mio sguardo come una gorgone[14]»), e diverrà pietra nel suo farsi madre e amante; il padre è un Anchise stanco che il figlio tiene in vita a cucchiai di miele:
«Adesso usciamo, ti farà bene l’aria. Ti porto io, ti appoggi a me. Potrei portarti in braccio per come sei ridotto. Come Anchise, sì, papà, me lo ricordo. Magari sulle spalle, allora, come Enea[15]» e un Giovanni il Battista, «colui che dà il nome alle cose. Che le conosce, e sa cosa significano[16]».
Le api sono l’animale totemico centrale del dispositivo mitico, piano messo in luce già nell’esergo della Dickinson: Come sono spietati i gentili - / come sono crudeli i miti.
È la storia antropomorfa dell’ape regina ad essere il fulcro dinamico della trama simbolica:
«[le api operaie] stanno tutte attorno a quella larva, a ingozzarla di pappa reale, a farla vivere anni e non giorni [...] Viene accudito, vezzeggiato, amato. Quel corpo di regina prigioniera, schiava del suo stesso privilegio, coperta di attenzioni, senza possibilità di dire no a niente, la bocca spalancata come un’oca da ingrassare, le ali rattrappite, i sensi inerti, il cervello più piccolo[17]».
Complementare a quella dei maschi che si accoppiano e muoiono:
«Inerti, inutilmente affaccendati, pretenziosi, scandalosamente oziosi, rumorosi, golosi, grossolani, sudici, insaziabili, enormi [...] mille maschi inutili, se non fosse che alla fine servono alla regina, a fecondarla una volta nella vita[18]»
dove il maschio che resiste da solo nell’inseguire la regina in mezzo al cielo alla fine
«è dentro di lei, le viene dentro, e improvvisamente sente il suo ventre che si lacera, che si stacca, trascinando con sé la massa dei visceri. Cade girando su se stesso, svuotato del proprio peso e della vita[19]».
Per tutto il romanzo si è spinti a cercare il legame tra Aristeo e le api che cura e ha ereditato dal padre. Non sembra mai, però, il dio che le guida o le protegge; piuttosto fa la parte metaforica del fuco che esiste solo in funzione della sua ape regina, la quale è ora padre ora donna amata. Aristeo infatti da una parte riversa il suo racconto di vita sul genitore, svuotato di intelligenza e mobilità, come un’ape regina, obbligato a ingozzarsi fino al volo finale; dall’altra ha come unico mandato l’inseguimento di Nina fino allo strenuo delle forze. Lei, infatti, costringe Aristeo a continue cacce di senso: lui non capisce cosa vogliano dire le sue poesie e non decifra lei, che resta la sua meta e la sua distruzione. Come un fuco combatte per entrarle dentro e lasciarla feconda, fino alla morte.
Nelle api risiede il perno che ribalta il narrato dal piano del reale (che emerge sempre solo nella lente del narrante e che è così trasfigurato in senso tragico) a quello puramente mitico-simbolico. Nel mito soltanto, nell’immagine delle api che fanno il loro regno nella casa ormai vuota di Aristeo, grazie al cadavere del padre immolato, sta l’unica possibile redenzione di chi narra.
Il racconto porta il mito in primo piano e solo lì si permette ad Aristeo una soluzione – che resta tragica e solo parzialmente edificante.
Parzialmente: perché il mito è l’unico spazio in cui la confessione sembra risolversi, ma lo fa indicando soltanto una vaga prospettiva di riscatto, un ronzio.
[1] Byron J. Good, Medicine, Rationality and Experience: an Anthropological Perspective, Cambridge University Press, Cambridge, 1994, [trad. it. Narrare la malattia: lo sguardo antropo-logico sul rapporto medico-paziente, Einaudi, Torino, 2006].
[2] Cheryl Mattingly, Healing Dramas and Clinical Plots: The Narrative Structure of Experience, Cambridge University Press, Cambridge Studies in «Medical Anthropology» 7, 1998.
[3] Gian Luca Barbieri, Tra testo e inconscio, strategie della parola nella costruzione dell’identità, FrancoAngeli, Milano, 2007; Arthur Kleinman, The Illness Narratives. Suffering, Healing, and the Human Condition, Basic Books, Inc., 1988; Cheryl Mattingly, Healing Dramas and Clinical Plots: The Narrative Structure of Experience, Cambridge University Press, Cambridge Studies in «Medical Anthropology» 7, 1998.
[4] Duccio Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore, 1996; Stefano Verrari, Scrittura come riparazione. Saggio su letteratura e psicoanalisi, Laterza, Bari, 1994.
[5] Caterina Serra, Padreterno, Einaudi, Torino, 2015, p. 6.
[6] Ivi, p. 21.
[7] Ivi, p. 22.
[8] Ivi, p. 26.
[9] Ivi, p. 188.
[10] Ivi, p. 73-74.
[11] Ivi, p. 142.
[12] Ivi, p. 163.
[13] Ivi, p. 188.
[14] Ivi, p. 123.
[15] Ivi, p. 183.
[16] Ivi, p. 150.
[17] Ivi, p. 31.
[18] Ivi, p. 173.
[19] Ivi, p. 175.