Martedì, 12 Giugno 2018 07:00

«Segnavia e segnavita»: "Cairn" di Enrico Testa

Scritto da Lorenzo Antonazzo

Dell’ultima silloge di Enrico Testa, Cairn (Einaudi, 2018), comprendente testi scritti tra il 2012 e il 2017, salta subito all’occhio un evidente dato formale, ovvero come la maggior parte dei componimenti comincino con una minuscola e non trovino un punto fermo a sigillarne la conclusione, quasi a suggerire un discorso ininterrotto, senza soluzione di continuità. Un discorso che da subito si configura come un dialogo, sebbene non sia immediatamente chiara l’identità degli interlocutori; un dialogo che ben presto si rivela inevitabile.
A sostegno di questa prima ipotesi di lettura pare opportuno giustapporre la poesia d’apertura e quella conclusiva:

 

non ci diremo addio.
Non sappiamo come dirlo,
e non vale la pena di impararlo
«Non possiamo ricominciare ancora.
Soltanto possiamo ancora finire».
«Ma non abbiamo mai finito».
«Oh sì, non crederlo.
Abbiamo finito molte e molte volte.
Non una volta sola.
E ora possiamo finire di nuovo.
E ancora e ancora.
Senza un nuovo inizio»

 

Da una parte l’impossibilità di esprimere un commiato poiché esso in fondo tale non è; dall’altra, in una riscrittura di uno scambio tra due personaggi di Ceneri alle ceneri di Harold Pinter, come riferito dallo stesso autore in una nota al testo, l’irreversibilità di un percorso comune che può inopinatamente incontrare più volte la fine pur senza ricominciare mai. L’autore appare dunque a colloquio con presenze oramai lontane, dalle quali però non è o non si sente del tutto separato.

L’introduzione del virgolettato, che incornicia testi interi, materializza la voce di queste interferenze, la cui natura oltremondana risulta sempre più chiara. Se già nella quarta poesia, «quando entrò il lavacadaveri», l’io narrante parla della propria salma come di un oggetto reale e diverso da sé, in «sono pochi, non più di una decina» l’autore lascia ancor meno dubbi: nel descrivere due gruppi di persone che gli si fanno incontro, distingue il secondo dal primo dicendo «ma sono tanti, questi, e vivi». Tra le pagine di Cairn risuona dunque la voce dei morti, eppure una simile interpretazione rischia di essere riduttiva e necessita di un'ulteriore indagine.

Ancora una volta ci viene in soccorso l’analisi formale della silloge. Basta scorrere i nomi delle sezioni in cui è suddivisa per visualizzare un percorso che parte da Ora e qui per giungere Nonsisadove, un itinerario che non necessariamente indica una distanza lineare, né tantomeno spaziale. Emerge, inoltre, una struttura simmetrica che mette in risalto quanto già dà il titolo all’intera opera. Cairn è infatti il quinto testo dei nove che compongono l’omonima sezione, a sua volta incastonata al centro esatto della raccolta tra le quattro che la precedono e le quattro che la seguono.

Cairn, è bene a questo punto esplicitarlo, è una parola di origine gaelica con cui si individua ciò che sui cammini montuosi dell’Italia settentrionale è chiamato “ometto” ossia quei tumuli di sassi che oggi fungono da indicazioni per i viandanti e che in epoca preistorica rappresentavano dei monumenti sepolcrali. Insomma, «segnavia e segnavita» come icasticamente l’autore li descrive. È attorno a quest’immagine che si annodano le isotopie che attraversano la raccolta. Nella rappresentazione poetica, infatti, il cairn assurge a simbolo della saggezza tutta da decifrare, ereditata da chi ha già calcato in precedenza le strade del mondo, di una presenza che perdura pur in una distanza abissale nel tempo e nello spazio. Chi è passato prima non è poi così diverso da chi è trapassato: entrambi offrono «una parola / che dice ancora / quando non c’è più niente da dire» e possono quindi accompagnare l’uomo ramingo lungo i «remoti sentieri tormentosi» dell’esistenza.

Il Qui e ora dell’autore e il Nonsisadove di chi non c’è più sono due luoghi che spesso, all’interno della silloge, entrano in contatto attraverso la dimensione onirica, ma che da un punto di vista, per così dire, biologico, sembrano essere collegati da un «portale di fango». A esso è attribuita una condizione liminale («tu sei ormai di là / e sulla soglia io») in quanto essenza fondamentale dell’umano («sono fatto di fango, dentro e fuori»): il corpo sia dei morti che dei vivi è costituito di quella stessa «argilla grassa» che, privata del soffio vitale, diventa «carne putrefatta dello spirito».

Tuttavia, è soltanto «la forza delle parole» a spingere «nel pantano più umano dell’umano». L’unica strada per entrare in comunicazione con l’assente è la parola. Ai morti che gli chiedono perché continui a scrivere il poeta risponde:

 

Ne va dell’esistenza…
di un’esistenza muta:
mia, vostra, loro.

 

Così le interferenze che l’autore riporta e parte dei virgolettati sono anche testi altrui che egli reinterpreta, come le traduzioni da Thomas Hardy e Philip Larkin, la riscrittura del Salmo 73, nonché i versi ripresi da altre opere di cui dà notizia nella nota finale. Dare voce all’esistenza è anche indagarla assecondando le parole, che sia infatuarsi di paronomasie («tenue tenace», «cielo… liceo», «seduto… sedato»), scoprire etimologie («lieto… letame»), accostare rime insolite («tombino… bambino», «male e Natale») o seguire le diverse sfumature di significato in termini stranieri («hochzeit», «gorogoro»).

Di queste voci così come di echi indistinti (in Fading) s’intesse quindi il discorso ininterrotto del poeta, simile a quell’«ichetisfera» con cui con ingegnoso neologismo (al pari, per esempio, di «lontanosvanente» o «escalofonisti») si riferisce all’insieme delle preghiere che salgono verso il cielo, quasi appunto a formare un ulteriore strato dell’atmosfera. Una nuvola di suoni o un mucchio di versi simile a un mucchio di pietre. Un tumulo di poesie innalzato da un lato per segnare una tappa dell’itinerario esistenziale dell’autore (dal momento che «viviamo senza capirne niente») e, dall’altro, celebrare un sentimento di continuità («tu il ramo, io la foglia») con le proprie «ombre care», nonostante esse non abbiano in ogni caso il potere di guidarlo nel suo «sbandito vagare» o trarlo «fuori dal crepaccio del dolore».

Cairn, infatti, è un dialogo con l’assente intrattenuto attraverso lo strumento imperfetto del linguaggio. Questo non è più «dimora dell’essere» di heideggeriana memoria, ma è diventato «un ammasso di travi sterpi e spine» in cui è bene non inoltrarsi, coltivando piuttosto ai margini «tralci di parole». Solo così si potrà forse scorgere anche nel buio «qual è il sentiero irriconoscibile».

 

la luna e un pronome.
Di numero singolare
e di genere ancora indistinto.
Si profila nel sonno.
È solo – abolito ogni nome
proprio o comune – un pronome.
Pura tenue tenace
esistenza verbale.
Ora nel biancore più netto
ma sempre incerto nel genere.
Una persona forse
o un non si sa chi
seduto ai piedi della scala dell’amen.
Quando passa però,
nel calore notturno,
è rugiada che disseta
il ranuncolo giallo
e lucenta la raganella
nascosta tra i rami del limone.
Le ragnatele sono vuote