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Giovedì, 19 Gennaio 2023 19:23

Su "La vita adulta" di Andrea Inglese

Scritto da Fabio Moliterni

A cinque anni di distanza dall’uscita di Parigi è un desiderio, Inglese torna con il suo nuovo romanzo a sperimentare attraverso le forme narrative l’ipotesi di un congegno testuale che un tempo si sarebbe potuto definire “opera mondo”. La struttura della Vita adulta appare a prima vista più salda e convenzionale rispetto a quella volutamente sconnessa e funambolica del romanzo precedente, in quanto qui Inglese sceglie di impiegare la terza persona insieme alla tecnica del montaggio alternato nel dipanare dall’esterno il racconto delle vicende dei due protagonisti del romanzo, Tommaso e Nina. Ma è invece simmetrico e speculare il progetto di scombinare, mescolare e sovrapporre registri e direzioni delle trame, ben al di là di ogni concessione al “romanzo ben fatto” premiato o premiabile in termini di mercato: Inglese oggi è uno dei migliori scrittori in Italia capace di intrecciare il racconto del vissuto individuale con l’astrazione del pensiero critico, e dà vita, come in Parigi è un desiderio, a una forma di narrazione aperta, digressiva e centrifuga che ha l’ambizione di restituire, attraverso le forme letterarie, la totalità della nostra esperienza del mondo, la cifra del nostro contemporaneo. Le due parti nelle quali è diviso il romanzo, ad esempio, sono consacrate agli estremi temporali che cadenzano lo sviluppo dei percorsi esistenziali di Nina e Tommaso, e partono dalla primavera del 2013 per arrivare all’autunno del 2015, fino all’epilogo occupato dallo scambio epistolare tra i due protagonisti; ma questo continuum lineare è solo apparente, perché viene smentito non solo dagli andirivieni, dalle frequenti analessi e retroversioni della trama, ma anche dai titoli (riuscitissimi) dei paragrafi, sovraccarichi di massime o motti (pseudo)filosofici, stranianti ed ellittici, ambigui e allusivi, che ricordano il romanzo-saggio, umoristico e allegorico-morale del modernismo europeo o il filone picaresco con i suoi spericolati epigoni novecenteschi come il Gombrowicz di Ferdydurke (citato in epigrafe).

Speculari e simmetrici sono anche i due personaggi al centro del romanzo, che prima di conoscersi e avvicinarsi nello spazio della finzione letteraria fluttueranno senza mai incontrarsi in una geografia globale le cui coordinate sono legate, da un lato, al nomadismo tortuoso e senza meta di Nina, performer trentenne in cerca di sé stessa dopo aver sfiorato (e rifiutato) l’integrazione e il successo nell’industria dell’arte contemporanea, tra Berlino, Amsterdam e un passato a New York; e dall’altro alla stanzialità nella periferia milanese di Tommaso, critico d’arte alla soglia dei cinquanta, padre e marito tardivo e rappresentante tipico del ceto medio culturale, con tutti i corollari malcelati di bovarismo e frustrazione che sottopelle circolano nelle esistenze della cosiddetta classe creativa, nelle vite della piccola borghesia riflessiva e del precariato intellettuale dell’Occidente mondializzato. Eppure queste due figure, nelle direzioni potenzialmente infinite delle rispettive esistenze, tra vie di fuga e slanci vitali, cadute e fantasticherie, non tarderanno a riconoscersi l’uno nell’altra e finiranno con il comporre una coppia non di fatto ma accomunata da una sorta di pratica della libertà e di resistenza che ricorda il concetto foucaultiano di “tecnologia del sé”. Scoprendo alla fine che l’approdo della “vita adulta” altro non è che una “strana infanzia” ritrovata (“A me sembra di dover riscoprire tutto, ma non più dentro una foschia di aspettative e di paure”), e consiste nello sperimentare nuove e inedite forme della soggettività in contrasto con le relazioni di potere e con i rapporti di forza – che fatalmente regolano insieme al ritmo del vissuto esistenziale anche le leggi non scritte del mondo dell’arte e del lavoro culturale: “Non sarà sufficiente, forse, a cambiare il mondo, ma qualcuno deve continuare a rivoltare i sassi, a scomporre il decoro inerte del paesaggio, a salvare dall’oblio o dalla furia saccente delle nuove generazioni quanto rimane a lato, ai margini, nelle pieghe poco visibili della stessa contemporaneità”. 

La “vocazione” o la “sindrome saggistica” di Inglese (come Giancarlo Mazzacurati scriveva a proposito della linea umoristica della letteratura occidentale, da Sterne a Pirandello), viene qui alla luce in tutta la sua carica potenzialmente performativa e politica: di fronte alle logiche della competitività e della mercificazione dell’arte e della vita, alla “intelligenza del tutto, del cervellone sociale, anonimo ma furbo, anonimo ma scellerato”, Nina e Tommaso contrappongono il rispettivo vissuto “scontornat[o]” e un pensiero “difforme” e “sfasato”, eslege e stravagante. E il fatto che questi umori filosofici, antropologici o politici ad altissima intensità corrispondano nel romanzo a uno scandaglio analitico (che molto sarebbe piaciuto a Mark Fisher) sul “realismo capitalista” dei nostri tempi, e che soprattutto siano immessi quasi sempre con successo nel ritmo incalzante e divagante della narrazione, contribuendo al piacere e al divertimento del lettore, è il segno, a un tempo, della resistenza e del futuro che attendono le forme letterarie eccentriche e non allineate, come quelle sperimentate nella Vita adulta, oltre che dell’ormai indiscutibile talento del suo autore.

 

[Questa recensione è uscita in “l’immaginazione”, n. 299, marzo-aprile 2022]

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