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Giovedì, 01 Febbraio 2018 07:00

Storia di un genio in fuga. Su «Andrea Pazienza e l'arte del fuggiasco» di Stefano Cristante

Scritto da Carolina Tundo

Dopo la pubblicazione di un volume sul Corto Maltese di Hugo Pratt, Stefano Cristante è tornato a occuparsi di paraletteratura e, in particolare, di graphic novel con il libro Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco. La sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento (Mimesis, 2017). Il Paz di Cristante, il «genio» del fumetto italiano è, pertanto, un «fuggiasco». Eppure non evade dalla realtà per scappare dai problemi: la abbandona perché ne è saturo. Le ragioni di questa considerazione, con cui il volume si apre (basta leggere i cubitali in copertina) e si chiude (nel settimo e ultimo capitolo), vengono esplicitate dall’autore sul finale, ma al riguardo – come egli stesso avverte – sono stati disseminati numerosi indizi, nel corso della narrazione. Cristante guida il lettore lungo l’intenso iter artistico di Pazienza – dall’esordio con Pentothal fino ad Astarte, l’«incompiuto forzato» (p. 143) – conducendo un’analisi che è insieme «sociologica, artistica e storica» (T. Platzer, Pazienza, la leggenda non tramonta: un libro indaga il lato sociologico, in «La Stampa», 12/10/2017), e usando una strategia vincente, deliberatamente ‘iconoclasta’, affidandosi solo a una descrizione scritta, senza l’ausilio delle immagini. Scelta condivisibile sia per chi non ha mai letto né visto l’arte di Andrea Pazienza, perché dovrebbe stimolarne la curiosità, sia per chi Paz lo conosce bene, perché invoglia a tornare sulle sue opere e a rileggerle alla luce di quanto Cristante ha raccontato.

L’autore ripercorre la Paz(za) corsa per tappe, che coincidono con alcuni momenti cruciali del percorso artistico di Andrea Pazienza, soffermandosi, di volta in volta, a esaminare la poetica, i modelli (artistici e letterari) e l’uso della lingua, le tematiche e le caratterizzazioni dei personaggi presenti nelle sue opere. Si parte con Pentothal, serie senza «serialità narrativa» (p. 29) di enorme successo, uscita su «alter alter» per quattro anni a partire dal 1977: è il debutto di Paz su una testata nazionale, e l’unione vincente tra «equilibrio grafico ed eclettismo stilistico» (ibidem) lo consacra al grande pubblico; ma Pentothal non è solo l’opera prima di Pazienza, è anche il suo «Zibaldone» (p. 31). La città che ospita le «Avventure di Pentothal» è Bologna, con la sua quotidianità artistico-universitaria (Andrea vi frequentava il Dams) e fedelmente rappresentativa di un cruciale momento storico-politico, quello degli ultimi anni Settanta, delle occupazioni universitarie, delle estremizzazioni comuniste, dell’incendio del capoluogo emiliano. Pentothal, protagonista dell’omonima serie, è un «doppio dell’artista su carta» (p. 28), è un «partecipe isolato» (p. 28) e si sente un estraneo nella realtà storica in cui è costretto a muoversi: ecco la prima traccia di quella «tendenza alla fuga» alla luce della quale, secondo Cristante, si dovrebbe interpretare l’intera produzione di Pazienza. Anche il celebre «Pippo sballato» (p. 38) è un ‘fuggitivo’ che si trova costretto a un «ruolo spettacolare, che non gli piace, da cui rifugge» (p. 39); lo stesso si dica del Francesco Stella protagonista di Aficionados – una «docufiction a fumetti» (p. 39) –, che ambisce a conquistare una indifferenza nei confronti del mondo esterno, «ondata su ciò che Oscar Giloti definisce «il desiderio di fuga di una generazione assediata, logorata, esausta di tutto e di tutti» (pp. 48-49).

Il concetto di indifferenza ritorna anche nel finale di Pertini, opera incentrata interamente sull’allora Presidente della Repubblica, iniziata nel ’79, e costruita seguendo la linea «slapstick» (p. 57), che privilegia gag semplici ed efficaci, in cui Pazienza sembrerebbe sentirsi direttamente coinvolto (si scaglia senza mezzi termini contro il sistema politico italiano, difende apertamente Pertini). Il condizionale è d’obbligo perché, come spesso accade con le storie di Paz, ci si ritrova di fronte a un’improvvisa ‘sovversione’ della prospettiva, a un suo repentino ribaltamento: subito prima della parola «FINE», infatti, campeggia una frase che recita, ribadendolo più volte, «Indifferenti a tutto», una sorta di mantra che Paz sembra ripetere a se stesso e tramite cui ribadisce «un disinteresse sostanziale» (p. 59) nei confronti della realtà che lo circonda. Se questa dimensione individualista emerge in Pertini e spicca nel Partigiano, essa trova la sua acutizzazione nelle storie di Zanardi, il «contro-eroe» (p. 75) lucidamente deviato e gelidamente cinico, lo scaltro stratega eroinomane che ha subìto un «raffreddamento pulsionale» (p. 72), che non coltiva sentimenti di vera amicizia, bensì di conveniente complicità (si pensi alla storia Verde matematico, del 1982), e che è sempre pronto a organizzare un raggiro o una beffa e a usare la brillante razionalità di cui è dotato per raggiungere i propri disdicevoli scopi.

La tappa successiva di questa ‘fuga’ è l’opera considerata «uno dei capolavori di Pazienza, forse il maggiore», il graphic novel Gli ultimi giorni di Pompeo. Il protagonista – Pompeo, appunto – è un tossicodipendente che provoca a se stesso un’overdose, cui seguono un prevedibile collasso e un soccorso ben riuscito, ma indesiderato; Pompeo, infatti, vuole darsi la morte ed è determinato nel farlo, riuscendo, alla fine, a compiere l’agognato suicidio. La morte – evocata sin dall’inizio, ma elusa graficamente nelle scene finali – è il modo più giusto di fuggire, è la sola, vera, sovversione, l’unica «protesta verso il disporsi elusivo delle interazioni umane, verso la mancanza di interesse strategico per l’altro, che implica l’assenza di amore» (p. 117). Anche in Astarte – l’incompiuto intriso di tensione epica, a cui Pazienza stava lavorando prima di morire, nel 1988, e che ha come protagonista un cucciolo di molosso – tra i poli tematici attorno a cui ruota la narrazione ritroviamo la morte, cui si aggiunge, stavolta, l’«ansia di vita guerriera del cane» (p. 146), che sfocia in «una nuova emozione, imprevista e umiliante: la paura» (ibidem).

La corsa di Paz si è forzatamente arrestata nel 1988; ma da cosa fuggiva Andrea Pazienza? «Dal conformismo e dall’alienazione produttiva, dall’autorità costituita, dall’idolatria professionale» (p. 196) – risponde Cristante – e usava come mezzo di trasporto «la tavola a fumetti» (p. 195). Anche l’eroina – 'la lenta', in gergo, fedele compagna di Pentothal, Pompeo e Zanardi –, lungi dall’assumere la configurazione di simbolo generazionale (cfr. p. 69), rappresenta piuttosto una valida alternativa al mondo esterno, perché «riempie l’assenza di significato di tutte le cose» (p. 104) e perché solo lo stato «oppiato» consente di «riconnettersi alla […] esistenza più autentica». Quest’ultima, secondo Cristante, ha carattere letterario, tant’è che – come accade in Gli ultimi giorni di Pompeo – sono proprio i «pensieri drogati» (p. 105) a essere espressi tramite citazioni di scrittori contemporanei e attraverso un linguaggio raffinato e disciplinato, in una costruzione che richiama la prosa d’arte.

Sono ben note e da tempo apprezzate le doti grafiche di Andrea Pazienza, ma la questione della letterarietà di cui le sue opere sono imbevute è un aspetto che meriterebbe un ulteriore approfondimento. Cristante, in questo studio, ne fornisce un assaggio. Concentriamoci, innanzitutto, sull’uso della lingua da parte di Paz: agli inizi, con la propria versione di Pippo e Topolino, che parlano rispettivamente una lingua «simil-terrona, con echi foggiani» (p. 38) e un italiano standard, l’artista crea un riuscito contrasto linguistico, strettamente funzionale alla caratterizzazione dei personaggi; poi, con Pertini, si assiste a un «divertissement» (p. 55) linguistico che include anglismi, dialettalismi (esistenti e non), clamorosi errori ortografici, «abbreviazioni forzate, giochi di parole e rimestii in rima», uso di “k” al posto di “c”, etc., tutti elementi che danno vita a un particolarissimo gramelot linguistico. Con Zanardi, poi, scompaiono gli errori ortografici e sintattici, in favore di un italiano «contenente slang giovanile, […] ma sostanzialmente pulito» (p. 81), ma è con Gli ultimi giorni di Pompeo che Pazienza dimostra di sapersi muovere con disinvoltura nel terreno franoso della prosa poetica, attingendo al «lirismo sperimentale delle grandi voci del Novecento» (p. 95) e abbinandolo alle «dinamiche relazionali del piccolo spaccio» (ibidem), e ottiene così, ancora una volta per contrasto, un gustosissimo effetto di «grottesco iperrealismo» (ibidem). Per quanto riguarda le fonti letterarie – già dichiarate, insieme a quelle artistiche e cinematografiche, in un componimento giovanile (una poesia-elenco o viceversa?, si chiede Cristante) –, l’intera opera di Pazienza ne è costellata; tuttavia, in Pompeo si intensifica il ricorso ad esse: da Eliot a Hemingway, da Dafne Du Maurier a Pasternak, da Dumas a Lord Byron, Pazienza si serve delle loro parole con consapevole sapienza, anche quando sfocia in un «citazionismo caotico e scanzonato» (p. 109).

Colpisce, in particolare, una fonte, che è di per sé letteraria, ma che è stata assorbita dall’artista attraverso l’ascolto, non tramite la lettura; si tratta di Carmelo Bene che interpreta Majakovskij, e nella polifonia, nella variazione di tono di Bene – racconta Cristante – Paz si riconosceva, perché quella stessa polifonia poteva, come per la voce, essere applicata al tratto grafico e al ritmo dei testi. Il grado di letterarietà si eleva ulteriormente in Astarte, lavoro per cui, per la prima volta – sostiene Oscar Giloti (cfr. p. 144) – l’ispirazione non viene dalla strada, ma da letture e studi preliminari (è interessante segnalare, per esempio, che nel Manfred di Byron – portato in scena, alla fine degli anni Settanta da Carmelo Bene – compare, nella forma di fantasma della donna amata dal protagonista, proprio il personaggio di Astarte). Come già accennato, l’Astarte di Andrea Pazienza è un «incompiuto forzato», dovuto alla sua morte e non alla sua volontà.

Tuttavia, giunti al termine della corsa, non resta che trarre le somme. Alle tappe di questa ‘fuga’ corrispondono altrettante fasi della vita di Paz, il quale migra, da esperto «fuggiasco», dalla Bologna del punk-rock alla Milano di «Linus» e di «alter alter», per approdare nella Roma di «Tango», di «Cannibale» e de «Il Male». Come spiega Cristante, in queste città l’artista «coltiva la propria socialità», di esse e dei loro elementi più caratteristici si ciba e li risputa sulla pagina. Andrea Pazienza si muove in un contesto storico di grandi trasformazioni e di brutalità, di rivolte giovanili e di contestazioni politiche, ed è tangibile, nelle sue tavole, un potente senso di quello che nel 2005, su «Belfagor», Glenn W. Most ha definito «sublime metropolitano». Costretto ad agire in un mondo in cui si ritrova disorientato, il neo-cittadino occidentale può superare lo spaesamento solo attraverso un ferreo ed estremo esercizio della ratio umana; l’unica rappresentazione fedele di questo mondo è quella che riproduce un ossimorico disordine stabile e la rielaborazione emotiva è possibile solo attraverso un lavoro onirico. E in effetti, in apertura, lo stesso Cristante, facendo riferimento a Simmel e a Bauman, accenna alle conseguenze che le metropoli e i loro stimoli hanno sulla personalità di massa: tra questi, «rigidità comportamentale, indifferenza, cinismo, uso esasperato della razionalità» (p. 21). Most parlava di «sublime metropolitano» a proposito del romanzo popolare d’appendice, il feuilleton, caratterizzato dalla presenza di campionature sociologiche, agnizioni, flashback, ma è evidente che lo stesso concetto possa applicarsi ai lavori di Paz, tanto da suggerire l’idea che un confronto criticamente rigoroso tra forme diverse di paraletteratura potrebbe condurre a piacevoli scoperte.

Molto è stato scritto su Paz e sulla sua vita, ma – si sa – di fronte a un genio, il rischio è di sfociare in un quasi automatico processo di mitizzazione. Eppure, gli spunti contenuti nel saggio di Cristante incoraggiano a un approccio non solo più ‘scientifico’, ma anche interdisciplinare, nei confronti dell’arte di Pazienza, senza rinunciare all’accoramento inevitabile che il «genio» suscita in chi l’ha conosciuto (di persona o attraverso le sue tavole) – e che pure è palpabile nel libro, sin dalla Prefazione. Bisogna, pertanto, fare attenzione e tenere sempre a mente, come avvertiva lo stesso Paz, che «il vero genio non va monumentalizzato, ma va solo studiato» (p. 170).

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