Sabato, 15 Luglio 2023 18:44

Contestare stravolgere calpestare. Ovvero smascherare le proprie incoerenze con Roversi (Parte seconda)

Scritto da Emanuele Rochira

Questa guerra per bande che è la poesia

 

Con l’arrivo del Sessantotto e la nascita di un movimento che reciterà un ruolo non secondario nella società italiana almeno fino alla fine degli anni Settanta, Roversi espliciterà la sua vicinanza ai gruppi studenteschi e giovanili per i quali diventerà un punto di riferimento culturale.

La sua fu un’adesione non superficiale, ma interna. Tuttavia, non totale. Come nota giustamente Moliterni nel suo lavoro, Roversi fu sempre esplicitamente critico rispetto ad uno dei nodi del movimento, l’utilizzo della violenza come strumento di lotta politica:

 

Non credo più all’efficacia politica della violenza […]; non perché la violenza per sé sia priva di efficacia, ma perché a me pare che essa, oggi, sia codificata dal sistema, che il sistema sia sempre (e sappia essere sempre) più violento dei suoi contestatori: insomma che la violenza sia un modo tradizionale di aggressione della realtà…[1]

 

In questa presa di posizione, impopolare all’interno della costellazione movimentista, c’è tutta la lucidità e la capacità di interpretare e semmai anticipare le grandi questioni del presente nel momento stesso in cui si stanno dispiegando (il volume da cui è estratta la dichiarazione sopra citata è del 1973), che è un’altra delle cifre di Roversi. Libero da sovrastrutture ideologiche, affronta la questione da un punto di vista pragmatico, intravedendone in anticipo i risvolti: la violenza come strumento di lotta può ottenere in risposta solo la violenza; il sistema, che risponde, sarà sempre più violento di chi lo contesta (per capacità economica, per statuto istituzionale, per istinto di sopravvivenza), e pertanto, sul campo della lotta armata, sarà destinato a vincere. Come sappiamo, quella violenza, che negli anni della presa di posizione di Roversi era ancora essenzialmente violenza di piazza, si sarebbe effettivamente trasformata in lotta armata, dando vita alla stagione del terrorismo, e alla fine stessa del movimento.

In ogni modo quegli anni saranno anni di partecipazione, di rinnovato impegno e di ricerca di nuovi canali di distribuzione della pratica letteraria. Questa ricerca lo porterà a sperimentare nuovi generi e a percorrere nuove strade espressive, in collaborazione con figure e gruppi interni al movimento (come nel caso del teatro) o esterni (come nel caso della canzone).

Il teatro era uno dei generi nei quali Roversi si era già cimentato, trovando in esso una modalità di estensione del suo lavoro di sperimentazione sul linguaggio letterario, in continuità con la fertile elaborazione delle Descrizioni in atto. Il suo primo lavoro drammatico, Unterdenlinden, scritto proprio all’epoca della produzione delle liriche delle Descrizioni, e pubblicato con Rizzoli nel 1965, metteva in scena un surreale ritorno di Hitler nella Germania industriale degli anni Sessanta, nella quale il dittatore, in una sorta di allucinato e visionario ripetersi della storia, da capitano di industria arrivava a conquistare la guida del paese grazie alla ripresa puntuale dei metodi e dei modi che lo avevano effettivamente consegnato alla storia del Novecento. L’opera aveva il chiaro intento di riflettere sulla riproducibilità del male, denunciando le condizioni presenti come tutt’altro che immuni al rischio di ricadere negli errori del passato, ed era un’opera che – per quanto nella forma di piéce – era prima di tutto destinata alla pubblicazione in volume, e quindi alla lettura, e solo secondariamente alla messa in scena (l’opera verrà portata sul palco solo nel 1967 al Piccolo di Milano).

 

 

Durante gli anni del movimento l’atteggiamento nei confronti del teatro muterà profondamente. Roversi aveva intuito che portare un testo sul palcoscenico poteva costituire una via privilegiata ad una diffusione della letteratura diretta e non mediata da questioni di pubblicazione e distribuzione proprie dell’industria culturale. In quegli anni lavora all’approfondimento della pratica teatrale come laboratorio politico, come mezzo di comunicazione a diretta partecipazione del pubblico. Per conseguire questa assenza di mediazione tra messaggio e pubblico propone un teatro che non cerchi consenso, ma un pubblico libero, attraverso il quale generare, semmai, dissenso. Una proposta concreta che fungesse da laboratorio popolare, libero di darsi direttamente nelle strade e nelle piazze, e da queste lasciarsi riempire di significato.

Con questo obiettivo scrive La macchina da guerra più formidabile (1971) e Enzo Re (1974). Entrambe le opere circoleranno in edizioni semiclandestine, e soltanto la prima verrà messa in scena in quegli anni, in un contesto libero e popolare, come immaginava l’autore. Sulla scorta della pulsione a sperimentare nuove forme espressive che lo inducono, oltre che a scrivere per il teatro, ad interessarsi al lavoro di artisti che con il teatro erano fortemente imparentati come Giorgio Gaber, sulla cui cifra espressiva, comunemente definita “teatro-canzone”, si era già favorevolmente pronunciato, il poeta opera in quegli stessi anni una riflessione sul potenziale comunicativo della canzone d’autore.

 

 

È in questo contesto che avviene l’incontro con uno dei più promettenti giovani cantautori bolognesi dell’epoca: Lucio Dalla. Da questo incontro nasceranno tre dischi: Il giorno aveva cinque teste (1973), Anidride solforosa (1975) e Automobili (1976). In tutti e tre i dischi il genio compositivo di Dalla – uno dei pochi veri talenti musicali della canzone pop italiana di quegli anni – si fonde con le liriche di Roversi. Il primo, Il giorno aveva cinque teste, è fortemente concentrato sulla tematica operaia. Dall’iniziale Un’auto targata TO alla fondamentale L’operaio Gerolamo, il disco è intriso di un clima cupo e conduce, attraverso una galleria di situazioni e personaggi, una denuncia senza ambiguità sulla subalternità e lo sfruttamento della condizione operaia nell’Italia dell’industrialismo forzato:

 

S’alza il sole sui monti

e sono ferito a morte, ferito al petto e condannato

povero operaio, povero pastore, povero contadino

s’alza il sole sui monti

e sono già morto e sotterrato

 

S’alza il sole sui monti

e un altro al posto mio è già arrivato. 

 

(L’operaio Gerolamo)

 

Il secondo album, Anidride solforosa, riprende invece il tema, da sempre caro a Roversi, della devastazione ecologica e ambientale che si sta operando nel paese. Anche qui le atmosfere sono gravi e musicalmente impegnate e l’interpretazione di Dalla, a tratti debordante per capacità canore ed espressive, rende l’LP un autentico capolavoro aperto al futuro:

 

Gli elaboratori hanno per sorte

di aiutare l’uomo a vincere la morte.

 

Infatti se il vento dell’inquinamento

tende a salire lo aiutano a morire.

 

E aiutano anche l’amministrazione

patrimonio forestale in distruzione.

 

(Anidride solforosa)

 

 

Il terzo disco, Automobili, è un concept-album dedicato alla macchina come emblema di disumanizzazione e alienazione dell’uomo e contiene brani leggendari come Mille miglia, Nuvolari e Il motore del Duemila. Notevole è anche l’Intervista con l’Avvocato, nella quale Dalla interpreta Gianni Agnelli usando una sorta di grammelot in preudo-inglese cantato in scat, con l’effetto di rendere incomprensibili e ridicole le risposte del magnate torinese al giornalista inglese che lo incalza circa il futuro della Fiat:

 

Buon giorno, grazie avvocato,

sono del Manchester Guardian,

non le farò perdere tempo.

Questa è la prima domanda:

 

Come concilia il proposito

del taylorismo superato

poi vuotare Mirafiori

e riempire di nuovo

il treno dell’immigrato

e prendere l’occasione

di decentrare la produzione?

 

(Intervista con l’Avvocato)

 

In effetti il disco è il più politico, nonché il più travagliato dei tre. Proprio per la sua carica politica, l’opera verrà pesantemente ridimensionata dalla casa discografica Rca, preoccupata di possibili risvolti negativi. Tale operazione è di fatto avallata da Dalla, e porta alla rottura tra i due, che durerà per molti anni. Roversi deciderà così di ritirare la propria firma dal disco, sostituendola con lo pseudonimo di Norisso. La sperimentazione nell’ambito della canzone non si esaurirà qui: Roversi continuerà a scrivere testi per musica, tra i quali va ricordata Chiedi chi erano i Beatles, portata al successo dagli Stadio.

In quegli anni di fertile e febbrile sperimentazione e partecipazione Roversi tornerà alla narrativa con I diecimila cavalli, un romanzo “dentro il movimento”, come è stato definito, sia nell’intreccio (frantumato e caotico, apparentemente disinteressato allo svolgersi di una trama classica, orientato a dare conto del fermento e del caos militante e partecipativo di quegli anni), sia nella scelta editoriale. Il volume uscirà nel 1976 e segnerà un ritorno di Roversi all’editoria “classica”: pubblicato dagli Editori Riuniti, testimonia di una scelta dichiaratamente politica, di vicinanza al PCI, visto come punto di riferimento “istituzionale” delle istanze del movimento, e successivamente pragmatica e strumentale, in coerenza con una valutazione dell’esperienza del ciclostile sostanzialmente inadeguata al momento storico, e forse anche al genere narrativo.

 

 

Dagli anni Ottanta, e fino alla fine, Roversi lavorerà alla sua opera testamentaria, il lungo poema L’Italia sepolta sotto la neve, costituito da migliaia di versi, frutto del lavoro di oltre trenta anni. Come è facile immaginare l’iter compositivo del testo è lungo e stratificato, e costituisce – in coerenza con il suo progetto poematico – un work in progress del quale diversi frammenti vedono la luce nel corso del lavoro di gestazione dell’opera, in riviste e fogli militanti.

A discapito del titolo, che richiama palesemente l’immagine di un paese seppellito sotto una coltre fredda e pesante fatta di compromessi, lotte politiche, terrorismo, catastrofe ambientale, criminalità e segreti di stato, nel poema è presente un atteggiamento di rinnovata fiducia nella parola poetica, che sembra essere l’unica possibilità rimasta di riscatto e di recupero di senso. Come scrive Marco Giovenale nel suo contributo al citato Non isolarsi ma ascoltare, ad introduzione della selezione di versi tratti proprio dall’Italia sepolta sotto la neve, Roversi “arriva agli anni Ottanta con un carico di disillusioni che tuttavia non gli impedisce di affidare a un lungo dissonante poema, fitto di immagini accese, la ricapitolazione in senso non distruttivo, non pessimistico, di una storia collettiva e personale”:

 

Vorrei ritornare bambino per-

ché soffro l’estate e gradisco l’inverno

camminare all’inferno con

un’armatura che richiede pazienza

camminare all’inferno

lasciare alle spalle l’inverno.

 

(L’Italia sepolta sotto la neve, premessa)

 

Dentro l’opera è dispiegata in maniera piena e definita la cifra stilistica e poematica di Roversi: l’interpolazione continua e fortemente ritmata di piani temporali e spaziali, di paesaggi e personaggi, luoghi e vicende che pescano dalla storia e dalla cronaca, dalla letteratura, dalla musica, dalla filosofia, conseguita attraverso una ricerca lessicale quanto mai avvertita e una partitura multiforme e caleidoscopica di immagini e figure. Ancora una volta il poeta bolognese dà forma e sostanza ad una poesia fino in fondo antilirica, semantica e narrativa, la cui vocazione epica e civile viene ribadita in coerente continuità con il suo intero percorso letterario:

 

Enea cammina in short per strade e sentieri

lascia il padre Anchise a lamentarsi sotto un ontano

entra nelle agenzie

cerca terreni in vendita se il prezzo conviene

per alzare città dai vasti destini e ora

ruine frastuoni di gatti pietre tamburi campane.

 

(L’Italia sepolta sotto la neve, parte quarta, Trenta miserie d’Italia)

 

L’opera, come detto una sorta di poema-mondo-testamento, uscirà nella sua forma definitiva nel 2010, due anni prima della morte del poeta, per le Edizioni AER, acronimo che sembra celare le iniziali del poeta stesso, della moglie e del figlio.

 

 

 

Fondi burroni. Crepe. Mari improvvisi

 

Fin qui si è tentato – in maniera certamente non approfondita e parziale – di dare conto dei principali eventi biografici e intellettuali della vicenda roversiana, cercando in qualche modo di fare emergere i motivi per i quali essa sia da ritenersi necessariamente singolare nell’ambito del panorama letterario – e segnatamente poetico – del secondo Novecento italiano.

Essi sono motivi che trovano a mio avviso origine nell’esperienza della guerra e della lotta partigiana, vicende che, come ho tentato di evidenziare, aprono in Roversi una lacerazione che diventa un solco permanente, al di là del quale possono esistere soltanto un prima e un dopo. Prima c’è il fascismo, il novecentismo, una schiera di maestri e insegnamenti dogmaticamente ereditati, quando non imposti; dopo c’è la crisi del marxismo, il boom economico, il tradimento di un potenziale rivoluzionario che avrebbe potuto cambiare le sorti del paese, la modernità incalzante, a qualunque costo. Un prima e un dopo non solo personali, ma collettivi. Un prima e un dopo che – all’indomani della fine della guerra, vero nucleo magmatico di questa spaccatura – la comunità intellettuale e politica, la classe dirigente, e con essa il paese, non hanno mai realmente affrontato. Nel mezzo resta dunque una grande frattura che Roversi non riuscirà mai a ricomporre, e che – come un gorgo – attira e inghiotte ogni tentativo di elaborazione critica: sulla guerra, la liberazione, l’antifascismo, la letteratura, il progresso, Bologna e l’Italia, l’industria e la campagna, i partiti e i movimenti. Come in un mäelstrom, rischia di sparire tutto il discorso critico, il dibattito su ciò che dovrebbe unire come un ponte il prima e il dopo, tentando di saldarne dialetticamente i fronti, e che finisce invece per nutrire nel profondo la ferita, infettandola, gonfiandola e riempiendola; in tale calderone rischia di liquefarsi il presente. È in questo gorgo, costantemente in tensione attrattiva, che il poeta affonda le mani con coraggio, a rischio di esserne inghiottito, e dal quale – in un dispiegamento di forze ostinatamente, pervicacemente opposto a quello interno a ogni rotta prestabilita – cerca di sottrarre all’oblio del disordine e della semplificazione, vicende, fatti, eventi e storie della contemporaneità. Per tentare di farne appunto ponti di senso tra una storia personale e quella collettiva che rischia di rimanere orfana di un momento di sintesi tra passato e futuro, e per questo esposta ad un dispiegamento di segno profondamente reazionario.

 

Perché cambiare il mondo?

 

Entrare in contatto con tale figura, poteva essere per me un’esperienza entusiasmante. E in parte lo è stata. Eppure, ciò che ha maggiormente caratterizzato la mia scoperta di Roversi è stata una sensazione di smascheramento. Di tarlo nella coscienza. “Perché cambiare il mondo?”. Scoprire un autore che ha sempre assunto una postura antagonista rispetto alla storia e al presente: ecco cosa mi ha messo con le spalle al muro. Leggere versi che testimoniano resistenza e fedeltà a un’idea di cambiamento che – per quanto non realizzata – deve rimanere possibile. Volontà ad ogni costo: volontà di ragione, volontà di conoscenza, volontà di verità, di testimonianza. Versi intenzionalmente sottratti alla lettura superficiale. Versi che avrebbero potuto dare fama e riconoscimenti, guadagni e gratificazioni. E che invece sono dati alla clandestinità, alla gratuità, alla libera distribuzione, unicamente in cambio di un reale interesse a leggerli.

D’altra parte, non c’è alcuna ambizione estetica in essi (“l’ambizione che è una spuma del cuore”): il loro unico scopo è raccontare il presente, dare conto di ciò che rischia di essere travisato, non compreso, non visto. La schiacciante limpidezza della coerenza. Una deliberata insensibilità alle sirene di vanità, ambizione, approvazione a tutti i costi: liberato dalla schiavitù dell’io. Immune all’attrazione del primo piano. Ne sono testimonianza le scelte: stilistiche innanzitutto, e poi editoriali, comunicative – vorrei dire, politiche. Scelte suicide, s’è detto. Ma come può uccidere sé stesso chi è liberato del proprio ego?

Scoprire Roversi oggi, nel 2023. Nell’epoca della tirannide dell’individuo, in cui la percezione del tempo e del presente sono personalizzate. Al tempo dell’atomizzazione social, in cui la parola è prima abusata e poi dimenticata a favore dell’immagine (possibilmente in 4k, ché l’occhio vuole la sua parte), in cui infuriano cruentissime, schermate battaglie virtuali, ma sembra diventato fuori moda incontrarsi, toccarsi e agire collettivamente per le strade. In un momento storico in cui uno dei prima roversiani, il fascismo, come categoria della cronaca, come provocazione, come nostalgia, come topic da click-baiting, tuttavia torna a fare capolino nel paese. In cui uno dei grandi dopo, che il poeta aveva tentato a più riprese di sottrarre dal gorgo dell’oblio e della semplificazione, la crisi ecologica del paese e del pianeta tutto, continua ad essere di fatto palesemente ignorato da una classe dirigente ancora oggi, come sessanta anni fa, sostanzialmente incapace (o non intenzionata) a cogliere e affrontare i nodi essenziali del presente.

 

Libreria Palmaverde, Bologna.

 

Scoprire Roversi oggi, nella mia esperienza, ha significato trovarsi con le spalle al muro. Senza scudo, di fronte alla propria interiorità. Di fronte allo scarto tra realtà e cambiamento. Di fronte alla domanda: che fare?

La risposta a tale interrogativo resta per me incommensurabile. Tuttavia, nella desolazione della mia coscienza, in questo tentativo di intrufolarmi tra i tarli di pagine antiche che ancora oggi parlano, credo di aver imparato alcune lezioni. La mia ammirazione per Roversi è partita da questa constatazione. Ed è nata quasi come invidia. Per una parola completamente impermeabile alla sterile soggettività lirica. Programmaticamente orientata ad un progetto collettivo. Scevra da indugi estetizzanti, da patetici slanci, da ambizioni di prestigio, di riconoscimento:

 

scivoliamo via dalla nostra sabbia,

lavoriamo per il mondo.

 

(Le descrizioni in atto, IV)

 

 

Non s’è spostato l’ago della bilancia (ma si sposterà):

attitudine ai ricatti, per una fotografia

sedere sulla poltrona di marca con la nuova cravatta,

il torpore, ahi magniloquenza, l’ambizione,

infine il burro rancido, la sciocca topografia

e sulla confusa esitazione stendere un panno di lana.

Ma ecco, basta un giorno e:

grammatica e futuro finiranno.

 

(Le descrizioni in atto, III)

 

Tutti prima o poi ci scontriamo con la rogna dell’egocentrismo. Con la pervasività di un sistema di pensiero egoriferito, per il quale siamo indotti a credere che l’individuo, per la sua unicità, per la sua capacità di pensiero, per un diritto sacrosanto all’autodeterminazione, venga prima della collettività. Da questo modo di pensare nasce quella sorta di cittadinanza disgregata sulla quale, il neocapitalismo prima e il tardo capitalismo poi, hanno apparecchiato un banchetto a base di omologazione comunicativa (prima analogica, poi digitale) e di spinta performativa alla competitività. Un pantagruelico ossimoro di serialità e unicità, un cortocircuito di appiattimento e aspirazione. In questo trogolo in cui si va ingozzando, l’ego si dilata fino ad esplodere in conati di narcisismo passivo-aggressivo. Cancellando qualsivoglia opportunità di collettivizzazione dell’esistenza, della sofferenza e della lotta, qualunque possibilità di autodeterminazione comune, di militanza per un cambiamento in senso progressista. Liberarsi da una tara simile è un percorso lungo e impegnativo. Occorrerebbe iniziare a praticare strategie di resistenza agli assedi di quel cavallo di Troia che è il nostro io: ad esempio – proprio questo sgorga copioso dai versi roversiani – combattere l’imperante tentazione di assolutizzare il proprio dolore, la propria sofferenza, cercando condivisione, consonanza, punti di contatto tra le proprie e le altrui ferite, provando a riconoscere le nostre negli altri, a cogliere un senso di pluralità che ci aiuti a spartire il peso e a superare la sterile autocommiserazione. In un percorso del genere la letteratura, specie quando ha un respiro epico e civile, come nel caso di Roversi, può diventare una mano tesa:

 

Poiché non c’è occasione per un solo grande dolore

assumo mille rimedi e medico le ferite della speranza

lascio cadere i miei occhi sulla brace

mi confronto con la spada del mondo.

Fondi burroni. Crepe. Mari improvvisi.

 

(L’Italia sepolta sotto la neve, premessa)

 

 

La parola roversiana è interamente e profondamente assoggettata a tale scopo. Anche questo spunto mi pare attualissimo. Mi pare che la parola stia perdendo la sua funzione euristica, per diventare puro strumento espressivo. Sostituita dall’immagine. Questione di immediatezza. Di velocità. Leggere, scrivere, avere a che fare con la parola per capire, è certamente un’esperienza più difficile di guardare un video. Le facoltà cognitive chiamate in causa sono differenti. Lo sforzo richiesto non è paragonabile. E poi, come in tutti i processi conoscitivi, spesso tocca fare i conti con la dissonanza cognitiva alla quale ci si espone nel momento in cui la nostra mappa mentale, le nostre conoscenze pregresse e radicate, si scontrano con evidenze controfattuali che contraddicono il nostro architrave intellettuale. È in questo momento di dissonanza che – in potenza – si innesca la comprensione. Un momento, tuttavia, che ormai preferiamo rimuovere. Rimuovendo con esso l’attitudine al dubbio, alla messa in discussione, all’opportunità di ristrutturarci per comprendere davvero.

 

Mi domando dove trovare il tempo per sapere negli anni

                                                                                  che durano un giorno

per continuare lo scavo dentro la terra di sassi e toccare

la buona radice del pioppo sovrano

tutto è livellato ormai piallato appiattito.

 

(L’Italia sepolta sotto la neve, parte quarta, Trenta miserie d’Italia)

 

Immersi come siamo nel frame tossico dell’entertainment, stiamo perdendo la capacità di connettere soggetti e predicati, di costruire sintagmi che spieghino la realtà, che consentano la formulazione autonoma di giudizi. Il racconto della nostra visione del mondo. Questa è forse la lezione più grande di Roversi. Leggere, scrivere, raccontare, denunciare, appuntare, riscrivere, serve a capire. Serve a rivestire di significato e di senso anche cose complesse, e apparentemente insensate. Una poesia. Una storia. Un paese.

 

Chi è sul carro o su un carro

deve buttarsi a terra e correre correre lontano

quando il traguardo è a portata di mano

e il carro è vincitore.

 

Non offrirti così non sarai comperato.

 

(Il libro paradiso)

 

Non ho elementi per affermarlo con certezza, ma sono convinto che, quando nel 1962 uscirono i primi ciclostile delle Descrizioni in atto, in molti – tra i colleghi di Roversi – avranno pensato che avesse perso la testa. Al di là delle ragioni politiche legate a quella scelta eso-editoriale, alle quali si è già accennato, ciò che vorrei mettere in rilievo è il fatto che tale decisione – che nega l'argomento secondo il quale per essere definito autore occorra stare nel mercato e vendere i propri libri – non ha tolto nulla (anzi!) al percorso poetico e intellettuale roversiano. Dimostrando, piuttosto, che la vera autodeterminazione avviene solo se si compie quell’affrancamento da sovrastrutture tossiche e omologanti che non fanno altro che vincolare ciascuno alle logiche della performance e del mercato. Certamente occorrono grande coraggio e una certa dose di rigore intellettuale. Qualità indubbiamente rare. Che hanno fatto di Roversi, nel tempo, il “monaco di clausura / diventato pazzo” ritratto da Pasolini. Un cammino fatto di dolore e ricerca, epica e lotta. Una postura che richiama l’amato Campanella, dedicatario di ogni sua opera, maestro di vita e di poetica. Li immagino entrambi, come due scogli tra i flutti.

 

 


 

[1] R. Roversi, Il mestiere di scrittore, Garzanti, Milano, 1973 (citato in F. Moliterni, Roberto Roversi. Un’idea di letteratura, Edizioni dal Sud, Bari, 2003).