Tutti i poeti semplici si somigliano, ogni poeta oscuro è oscuro a modo suo: perciò chiunque si studi, per attitudine o per formazione, di riportare le immagini della poesia a una nuda serie di concetti – lettori impazienti e campioni della parafrasi – troverà filo da torcere nei versi di Temeraria gioia (Ladolfi, 2017), opera della giovane salernitana Eleonora Rimolo. Il titolo è tratto, anzi divinato per bibliomanzia, [1] dalla versione italiana di Mandruzzato d'una callida iunctura di Orazio; il quale, del resto, ha ben presente la possibilità – non solo novecentesca – d'adottare soluzioni stilistiche più ardue e involute, quando dichiara nell'Epistula ad Pisones che «la poesia è come la tela d'un pittore: l'una t'incanterà di più se più le stai da presso, l'altra se più ne prendi le distanze.» Sembra che Rimolo gli faccia eco dall'altra parte dei secoli: «È un bozzetto questo che / sfugge a chi è abituato al polittico del sogno.» (p. 54). Sulla pagina di Temeraria gioia la sua penna calca, in effetti, anse tortuose, sbocca in lampi iconici e sciarade; si rinnova di continuo, in una lingua piena d'inarcature, uno spettacolo di frammenti, che in certi casi prende l'abbrivo da situazioni quotidiane, ma solo per ribaltarle con gesto espressionistico.
La sezione iniziale è attraversata in lungo e in largo da terze plurali, figure minaci che s'esibiscono nella parte d'angeli neri, Erinni mitologiche e Aurore senza carro, ratificando un'arcana alleanza tra alto e basso. La realtà ruba la scena alla poesia: chi dice «io» in questi versi è una Cassandra che inanella oracoli mancati, appesa alle parole come a «una carcassa di stoltezze / pronunciate con sillabe / di vaticinio.» (p. 16), oppure contratta ed esposta in una richiesta d'amore; al suo cospetto il 'tu' si staglia come idolo vittorioso, àncora piantata nella realtà e insieme volto nascosto della luna (p. 18), ma soprattutto perno d'una comunicazione interrotta: è lecito indovinare, in filigrana, un'analogia tra carne e parola, laddove la prima kafkianamente «sbatte contro se stessa» (p. 21), la seconda – lungi dal facilitare le cose – diviene «nodo» (p. 23) e causa d'impaccio. Ammesso che un dislivello sussista fra chi partecipa della parola poetica e chi ne è escluso (p. 29), di rado ciò sembra risolversi in un beneficio per l'io; che anzi è assediato dall'epifania del prosaico (p. 21) e, più avanti nella raccolta, dallo scadimento in 'parità' del tentativo di rimanere congiunti: «si cerca solo / di uscirne indivisi // da quel lavorìo intenso dalla masticazione / povere e poche settimane di digiuno, / uno spegnersi banale // la parità.» (p. 62)
Appuntamenti falliti, conti non saldati, attese e guerre di logoramento scandiscono le tappe d'una storia relazionale agitata da un'irrisolta corrente libidica. «Questo indefinito radicale» (p. 22), palleggiato e ritratto da prospettive variabili, sembra il centro geometrico di Temeraria gioia: un carico da scontare nell'esperienza contingente o da proiettare sullo schermo dei millenni, nell'effigie d'una madre archetipica, compromessa con il buio e l'ipogeo (pp. 22, 33, 61, 74); una corrente anche questa – anzi un gran fiume, una pianura gangetica – che, nella sua urgenza espressiva, feconda alcune delle immagini più felici del libro: litanie da transumanze e trasumanazioni, ombre d'eventi epocali, moti da leggersi a ritroso sulla superficie polverizzata delle cose.
Goccia a goccia, dentro
un transito diluito
del plasma, nel marzo
del desiderio scelsi
terre lontane per dire
campo, per dire fiume:
ancora sento la moneta
inestimabile sotto la lingua,
i perpetui canti
del primitivo elemento. (p. 61)
Volendo azzardare una semplificazione psicoanalitica, è questo stesso 'indefinito' che scava nell'esistenza individuale e collettiva un'idea di destino, consentanea all'ascendente deangelisiano. In un simile quadro la gioia si configura sia come il termine ipotetico della migrazione, sia come un tempo già esperito, ma non ancora integrato nella coscienza, com'è tipico d'una poesia che intercetta tutto – e specialmente il sentimento – per onde disturbate («un'inquietudine suggerisce / che ti ho perso e il cruccio / si fa delicatissimo», p. 43), ma non si rassegna al dato dell'esperienza; anzi – nella seconda sezione, pure percorsa da sintomi di cecità e paralisi – esplora vie di fuga e margini di reazione, tentando un'archeologia del profondo («Il vero s'interra / lasciando una duna», p. 58).
La gioia si spiega del pari come imperativo psicologico dopo una funebre traversata: nella sezione conclusiva, Pulvis et umbra (altro titolo di derivazione oraziana), il respiro dei componimenti si allarga, insieme con la vocazione epigrammatica:
All'occorrenza il tuo cranio diventa
una sfera colorata, maiolica con la frattura:
è quello il punto esatto in cui la debolezza
abdica e tutti i manifesti volano via
angeli di carta ci premono la nuca
sul bordo tagliente della gioia. (p. 71)
Palinodia e complemento delle occasionali figurazioni epico-tragiche della prima sezione, Pulvis et umbra libera finalmente la riflessione poetica in notturni lirici, gettando un ponte fra le epoche (p. 76) e parlando un'arte diversa, ove le tonalità della preghiera (p. 74) e il ricorso a una più classica imagerie navale (pp. 73, 75) e bellica (p. 77) sono funzionali a ricentrare la parola sull'esperienza del transeunte. Di quest'ultima ci portiamo in tasca, a lettura conclusa, una mirabile rappresentazione, come d'un corridoio infernale che si snodi tra rimasugli di vita, oscure epigrafi e amuleti di foggia egizia, custodi forse d'una palingenesi promessa:
Dalla fenditura, ad uno ad uno, monconi
di poeti, scarabei, iscrizioni in limine,
e sull'espressione il decrescente, il penoso
tuo sospetto, potremmo disertare adesso,
riporre il coltello nel fianco e ascendere
alla pozza infernale, eppure lentissimi
i cocci scansiamo, tranne uno, tranne uno. (p. 78)
*
Alcune poesie da Temeraria gioia:
Tu eri il tuo nodo,
le domande ti braccavano
morbose, ti parlavi
con una lingua di cenere,
intraducibili visioni
di un altrove che mai
raggiungeremo.
Ma siamo qui,
e me lo ricordi
senza equivoco.
Eppure dicono
che tendere il pensiero
risolva l'enigma:
mentre ti specchi
una schermaglia di volti
rovescia il tuo messaggio
e la cifra delle malinconie
si azzera
ai piedi della luna. (p. 23)
* * *
Un'inquietudine suggerisce
che ti ho perso e il cruccio
si fa delicatissimo:
indulgente si espande
la macchia di luce sulla camicia
che togli e riponi
affettuosamente
sopra il piano
sopra la nota grafica,
compilato il pentagramma. (p. 43)
* * *
Si va incontro alla dissolvenza
un venerdì di novembre con in tasca
quella sola chimera:
eppure si va ancora, perché
si deve, perché tutto va medicato
finché c'è terra da occupare
e cataclisma, col nostro secchio
di latte e vino, sempre dovuta,
sottintesa la notte. (p. 56)
* * *
Infine il regno si è espanso:
oramai possiede i mari
più vasti e le conche primitive
in cui si occultano
migliori malinconie
ma il porto è segreto
nessuno sa
dove salpare. (p. 65)
[1] «Ho aperto le Odi in un punto casuale e l’occhio è caduto su questo emistichio: "insolens laetitia", che Mandruzzato traduceva, appunto, con "temeraria gioia"». (fonte: http://www.dottorcardoso.com/temeraria-gioia-intervista-a-eleonora-rimolo/)