È questo il testo, rivisto e solo un po’ ampliato ma conservato nella forma allocutoria, della presentazione che ho tenuto, presso la prestigiosa sede dell’Isi Florence, a Palazzo Rucellai in Firenze, alle ore 17 del 28 giugno 2018, delle Lezioni americane, volume collettaneo di studi sul rapporto fra Bassani e gli Stati Uniti.
Il libro curato da Valerio Cappozzo, pubblicato da quel benemerito degli studi bassaniani che è l’editore Pozzi, in una collana diretta da un a me caro amico, Antonello Perli docente di letteratura italiana all’università di Nice Sophia Antipolis (pure lui bassaniano di ferro e che non vorrei che dimenticassimo questo pomeriggio), non si esaurisce attorno all’episodio del bimestre passato da Bassani come visiting professor all’Università dell’Indiana, credo che lo abbiate già capito da chi mi ha preceduto[1]. È un libro su Bassani e l’America, a tutto campo, un libro che, attraverso capitoli che nascono distinti ma poi diventano convergenti, interpreta le sintonie fra il grande scrittore ferrarese e la letteratura americana e forse, prima ancora, fra Bassani e lo spirito di quel paese o meglio, come meglio dirò, con una delle particolari declinazioni spirituali di quel paese. Il titolo voluto da Cappozzo, Lezioni americane, allude sornionamente a Calvino ma voglio sùbito affermare che la bussola americana di Bassani segna un altro nord rispetto a quella dello scrittore di Palomar. Le famose categorie del moderno – le ricorderete, magari: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, coerenza – che Calvino scandiva nelle sue Lezioni americane (lezioni che anche lui, come Bassani, aveva preparato perché fossero tenute in una università degli Stati Uniti, a Harvard nel suo caso, ma che la morte dello scrittore di Marcovaldo lasciò sulla carta: invece, delle lezioni di Bassani abbiamo purtroppo solo la restituzione di un’aura, solo testimonianze riassuntive; speriamo che un giorno saltino fuori gli appunti almeno degli studenti dell’epoca) sono categorie di slancio verso il futuro (Prospettive per un nuovo millennio era il sottotitolo del volumetto postumo di Calvino) e in fondo riflettono, con quelle loro definizioni quasi di danza, l’ottimismo prospettico del mito americano della frontiera. Direte forse che nelle due presenze esplicite dell’America dentro l’opera narrativa di Bassani è proprio quel mito che all’ingrosso agisce: infatti, come accortamente sottolinea Alessandro Giardino[2] all’inizio del suo saggio contenuto nel libro che oggi presentiamo, il David di Lida Mantovani sogna l’America per evadere snobisticamente, almeno a chiacchiere, dalla provincia che lo asfissia, mentre in America è proprio fuggito dal fascismo, facendo carriera universitaria, il Bruno Lattes degli Ultimi anni di Clelia Trotti. David è un seduttore e in fondo, come mi è capitato di scrivere in passato[3], anche Bruno, nei confronti di Clelia, per vie traverse lo è. E Giardino suggerisce di leggere in quelle due fughe – l’una sognata, quella di David, l’altra realizzata, quella di Bruno – una fuoriuscita dal materno, dall’uterino, un’emancipazione dalla palude pre-edipica, che poi è da sempre la dialettica fra America e Vecchio Continente. Tuttavia, nel tempo che mi è concesso vorrei mostrare che il rapporto tra Bassani e gli States pare, rispetto a Calvino, più sostanzialmente orientato verso quella che, a parafrasare Leavis, diremmo la «grande tradizione» della letteratura americana e verso temi che, nella gelosa difesa di un individualità irriducibile, tengono piuttosto della disobbedienza civile: insomma l’inclinazione è più verso valori della permanenza e dei principi che verso i valori del cambiamento e di una esaltante fugacità.
La prenderò un po’ larga. Nel suo saggio[4], Cappozzo commenta in modo suggestivo, io trovo, una bella lettera di Bassani, alla sua segretaria, inviata da Bloomington, dal campus dell’Indiana University, una lettera in cui Bassani descriveva le ore che gli sembravano lentissime a passare in quella che lui chiamava la «cittadina-accampamento» e in cui rilevava il contrasto fra la noia «immensa», come diceva, e il perpetuo, appassionante cambiamento del clima. Cappozzo, con acute formule, osserva che è da quella «pace irrequieta», da quella «sensazione appicicaticcia di immobilità», da quello stato ossimorico insomma, che è uscita la poesia dell’ultima raccolta bassaniana, in buona parte composta in America o nel ricordo di essa. Tutto, direi, può avvenire perché tutto sembra così calmo e uguale e per ciò stesso può aprirsi, d’improvviso, a ogni squarcio di oltremondo in questo mondo. Trovo notevole, del resto, come diverse poesie bassaniane di In gran segreto, sia quelle “americane”, per così dire, sia le altre, proiettino immagini (spesso oniriche, spesso estrapolate da un sogno) di strade perdute, di bivi che conducono al nulla, fili interrotti o fiumi carsici della memoria: sono road poems che rappresentano il negativo del movimento, serviti del resto da una sintassi ipotattica, estremamente complessa, labirintica, che si smarrisce in se stessa, in sapienti anacoluti e sospensioni, che sono altrettanti sentieri interrotti che specchiano quelli del racconto poetico. Ancora Cappozzo ha ragione nel dire che tutta la poesia di Bassani sembra stretta fra due viaggi, quelli in treno che ritmano la prima raccolta giovanile, Storie dei poveri amanti, e quelli in aereo verso l’America e dall’America, in In gran segreto. Ma la metafora medievale e cristiana dell’homo viator, dell’uomo viaggiatore su questa terra, se in Bassani mantiene densità impegnativa e drammatica, perde però la sua linearità concludente, diventa simbolo del groviglio inestricabile dei sentimenti e dei giudizi, quel guazzabuglio del cuore umano, del cuore che ha sempre qualcosa da dire anche quando non sa nulla di quel che sarà e di cui parla Manzoni, in un famoso brano dell’ottavo capitolo dei Promessi che Bassani volle in esergo al Romanzo di Ferrara. Bloomington-Ferrara o Ferrara-Bloomington è in effetti il microcosmo della visione del mondo, della visione poetica di Bassani, è il nodo che lega lo scrittore al grande ottocento narrativo americano che lui quasi idolatrava (della Lettera scarlatta disse, in un’intervista del 1959, che non poteva riavvicinarsi a quel capolavoro senza, ogni volta, sentirsi sorgere le lacrime agli occhi[5]).
In passato mi sono occupato[6] di quanto di Hawthorne sia in Bassani e, dentro il libro curato da Cappozzo, in un saggio pregevole il già citato Alessandro Giardino sviluppa la mia analisi e la estende sagacemente a Melville. Da parte sua, Sergio Parussa[7] si dedica ai rapporti di Bassani con Henry James muovendo, come avevo fatto io stesso in passato[8], dalla citazione dai Taccuini jamesiani in epigrafe alla Passeggiata prima di cena. Per Poe e per la Dickinson, invece, il primo centralmente citato in Una notte del ’43, l’altra nel Giardino dei Finzi Contini, si attendono volontari in futuro per uno studio organico, e direi che ci vorrebbe anche uno studio per le motivazioni di scelta dei tre soli americani pubblicati da Bassani editor presso Feltrinelli, e cioè la Wharton, O. Henry e Crane[9], tutti autori per lo più ancora corazzati da una poetica scontrosamente ottocentesca. Io credo che la corrente che passa fra i padri fondatori della letteratura americana, Hawthorne in particolar modo, e l’universo poetico-narrativo bassaniano sia nella dimensione della provincia, con la sua autarchia: un universo concentrazionario che per saturazione morale o moralistica a un certo momento esplode o implode e crea, magari per un solo istante memorabile, un’apertura fantastico-immaginativa. La situazione-tipo, nei racconti, nella narrativa bassaniana, è quella di un’emarginazione da parte della comunità e di un non riconoscimento da parte del personaggio: di una ribellione, magari sorda e magari resa enigmatica più o meno a bella posta, in nome del diritto, offeso, alla propria individualità insopprimibile. Bassani si è espresso più volte, in intervista, contro una lettura psicologistica delle sue storie e dei suoi personaggi: l’io profondo è ineffabile, ha ripetuto più volte, e appellandosi al nume tutelare Croce ha sempre voluto scoraggiare interpretazioni facilmente causali di qualche azione dei suoi piccoli eroi, che lui aveva voluto fatale e apparentemente gratuita (nel senso dell’atto gratuito di Gide, per intendersi). Il fatto è che Bassani ha voluto proporci forme pure (e qui è il suo discendere dal suo grande maestro degli anni universitari, Roberto Longhi), ha voluto proporci forme-eventi puri che non postulassero spiegazioni, vere/veri di una loro coerenza chiusa ma evidente, inespugnabile all’interpretazione oppure che ne suscitasse così tante, di interpretazioni, da renderle vane: ad esempio, in Una lapide in via Mazzini, il famoso schiaffo di Geo Josz e la decisione da parte di quel fantasma di reduce di girare per strada vestito degli stracci coi quali era uscito dal campo di concentramento e poi di sparire di nuovo nel nulla. Un teorico della novella quale il formalista russo Ejchenbaum ha detto che essa si fonda su un’eccezione, su una non coincidenza, su un contrasto irrisolubile, e un grande medievista come Jean Frappier, trattando dell’origine romanza del genere, ha detto parimenti che la novella è il regno dell’eccezionale, della sfida alla norma. Ma questo scatto irrazionale, nel modo di una gelosa rivendicazione della proprie ragioni profonde, ragioni così sacre da non arrischiarle alla luce o da far vista di mostrarle scandalosamente e al contempo, con lo stesso atto, sottrarle nel senso al coro della comunità, la quale spoglia e impoverisce col giudizio e anche solo con lo sguardo: questo scatto, dicevo, non è la stessa falsariga dei racconti di Hawthorne o di tanto James, non è la formula di Bartleby, che nel Giardino dei Finzi Contini è usato da Micòl a chiave della decifrazione del protagonista e che da Alessandro Giardino, nel libro che presentiamo stasera, è ritorto a decifrare Micòl stessa[10]? Nella pagina di taccuino di Henry James da cui Bassani estraeva, come ho già detto, la primitiva epigrafe alla Passeggiata prima di cena, il grande scrittore attribuiva al volto di Medusa della vita, come lui dice magnificamente, il (cito testualmente) «riconoscimento, il silenzio, la stranezza, la pietà e la sacralità e il terrore». Riconoscimento, silenzio, stranezza, pietà, sacralità, terrore: non c’è uno solo di questi annessi che non faccia anche parte del mondo poetico di Bassani, che non sia stigma dei suoi protagonisti. E il cimitero, presso la tomba della sorella, da cui scriveva James in quegli inizi di Novecento è lo stesso luogo dei segreti di tante pagine bassaniane, il luogo da cui, come da un ventre materno, scaturisce il racconto dei Finzi-Contini così come quello di Clelia Trotti.
Proprio in un cimitero, come potrete leggere nel ricordo di Edoardo Lèbano[11], il docente che invitò Bassani a tenere lezioni alla Indiana University, si situa l’aneddoto rivelatore da cui vorrei trarre infine partito. Bassani, quando invitò Lèbano a Ferrara, volle portarlo al cimitero ebraico: entrando gli chiese di indossare lo yarmulke o kippah che dir si voglia (sapete, il copricapo ebraico). Lèbano lo fece ma chiese poi a Bassani perché lui non lo stesse facendo. «Perché non tollero imposizioni!», fu la risposta. Ecco, da italiano devo dire che non è una risposta molto italiana (e aggiungerei: ahimè!). Da puro dilettante di Americhe, direi però che è una risposta molto americana. In effetti in Europa, in certa visione critica degli Stati Uniti, che non fu mai quella di Bassani a onor del vero, noi siamo soliti rifarci a Toqueville (e stavolta aggiungerei: per finire con Adorno): il dispotismo della maggioranza, la macchina dei conformismi, lo standard schiacciasassi e manipolatore, si sa… Quel che dimentichiamo spesso, in Europa, è che la civiltà americana contiene i suoi nobili correttivi, i suoi potenti antidoti alle derive e ai rischi, certo reali, che primo segnalò Toqueville. E il primo degli antidoti è quell’incrollabile religione della libertà di cui Bassani molte volte si dichiarò debitore a Benedetto Croce. Preferisco di no: non è forse la sigla implicita della maggior parte dei protagonisti bassaniani? Non sono dei disubbidienti, dei refrattari di fronte a quel grigio coro ferrarese, che nelle opere bassaniane si esprime attraverso un derisorio discorso indiretto libero? E il Bassani attivista e poi presidente di Italia Nostra (il Thoreau che era in lui, starei per dire…), in tempi in cui l’ecologia era ironizzata come battaglia donchisciottesca, il Bassani spesso sconfitto ma mai domo dinanzi alle collusioni fra politica e speculazione industriale o palazzinara che stavano devastando il paesaggio italiano negli anni del boom e che si spacciavano al servizio delle magnifiche sorti e progressive, quel Bassani non parlava la stessa lingua? È qui, che la malinconica resistenza sopra un passato che non passa nella narrativa di Bassani, quel suo tenere fermo all’anno 1938, l’anno delle leggi razziali che fa da linea di displuvio alle sue storie, è qui che il disperato «io sono quello che sono», a voler citare ancora Gide, dei suoi personaggi si muta in futuro ed è qui, dunque, che le lezioni americane di Calvino si possono finalmente intrecciare con la lezione americana che ci dà Bassani. Mi chiedo infatti, ancora da dilettante di Americhe, se la protesta di individualità offesa, se il rinvio a una profondità ingiudicabile che è nella grande letteratura americana ottocentesca e che Bassani sposa e rinverdisce, non sia che l’altra faccia, quella più pensosa e dolente, del mito di frontiera, della religione stavolta dell’avvenire: la fuga è infatti sempre da una comunità, per una nuova e più grande accoglienza, dove le ferite siano rimarginate o glorificate.
[1] Prima della mia presentazione aveva introdotto l’incontro il direttore dell’Isi Florence, Stefano Baldassarri.
[2] Cfr. Alessandro Giardino, Giorgio Bassani, Hermann Melville e Nathaniel Hawthorne, in Lezioni americane di Giorgio Bassani, a cura di Valerio Cappozzo, Ravenna, Pozzi, 2018 (pp. 41-66), p. 42.
[3] Cfr. Valter Leonardo Puccetti, L’«aprosdóketon» nel racconto bassaniano, in Poscritto a Giorgio Bassani. Saggi in memoria del decimo anniversario della morte, a cura di Roberta Antognini e Rodica Diaconescu Blumenfeld, Milano, LED, 2013 (pp. 143-162), pp. 152-154.
[4] Valerio Cappozzo, Il viaggio in America di Giorgio Bassani tra poesia e insegnamento, in Lezioni americane cit. (pp. 15-39), p. 32.
[5] Cfr. Giorgio Bassani, Opere, Milano, Mondadori, 2004 (1998), p. 1173.
[6] Valter Leonardo Puccetti, Bassani e Hawthorne, in Giorgio Bassani: la poesia del romanzo, il romanzo del poeta, a cura di Antonello Perli, Ravenna, Pozzi, 2011, pp. 33-56.
[7] Sergio Parussa, L’odore della poesia. Giorgio Bassani e Henry James, in Lezioni americane cit. pp. 67-87.
[8] Valter Leonardo Puccetti, L’«aprosdóketon» nel racconto bassaniano cit., pp. 149-150.
[9] Cfr. Edith Wharton, L’età dell’innocenza, Milano, Feltrinelli, 1960; O. Henry, Memorie di un cane giallo e altri racconti, Milano, Feltrinelli, 1962; Stephen Crane, Romanzi brevi e racconti, Milano, Feltrinelli, 1963.
[10] Alessandro Giardino, Giorgio Bassani, Hermann Melville e Nathaniel Hawthorne cit., pp. 55-56 e 60-61.
[11] Edoardo Lèbano, Giorgio Bassani a Indiana University, in Lezioni americane cit. (pp. 11-13), p. 13.