Domenica, 20 Maggio 2018 16:44

Un’irata sensazione di peggioramento: "Ostia! Romanzo di una periferia"

Scritto da Chiara Briganti
Monumento a Pier Paolo Pasolini, Ostia Monumento a Pier Paolo Pasolini, Ostia

1) Il 12 maggio 2017 il Venerdì di Repubblica inseriva nella rubrica “In poche parole”, dedicata alla telegrafica presentazione delle novità editoriali d’interesse, anche Ostia! Romanzo di una periferia (Red Star Press), presentandolo come

«dodici storie di altrettanti autori con uno scopo ben preciso: far raccontare Ostia, il quartiere di Roma sul mare, da chi ci è nato o ha deciso di viverci. Storie di trenini, occupazioni, surf, lamette, palazzi, musica, eroina e ovviamente di cinema, da Pasolini a Caligari».

Per quanto conforme alle clausole di brevità imposte dalla rubrica, la descrizione, con il caleidoscopico elenco di contesti borderline, rischiava di destinare il libro al novero, nutrito, dei racconti della banlieu, cioè a quel consolidato modulo narrativo che, tra espressivismo e iperrealismo, si propone di costruire un’epica della marginalità urbana e dell’asprezza delle sue condizioni di vita. Ciò che però sembrava deporre a favore di una fisionomia letteraria diversa, più interessante e singolare, era che i racconti fossero delle testimonianze dirette, raccolte e curate da “Territorio Narrante” che, dopo una rapida ricerca, ho scoperto essere un collettivo attivo nella periferia romana ormai da tre anni, impegnato nell’organizzazione di iniziative comunitarie e, come scritto nella breve presentazione disponibile sul sito Internet dell’associazione, di «narrazioni pubbliche ed eventi capaci di risvegliare l’identità popolare».

 

Come sempre accade quando si sceglie un libro, il momento della lettura costituisce l’incontro e il confronto tra due orizzonti d’attesa, quello del lettore che attende di veder soddisfatte alcune aspettative e previsioni, e quello pensato dall’autore o, in questo caso, dagli autori che scrivono tenendo presente un uditorio virtuale e ideale. Innegabilmente, un retroterra comune facilita l’intesa tra chi legge e chi scrive, così come, altrettanto spesso, la distanza tra le esperienze e le conoscenze di riferimento produce uno scarto di comprensione, una distorsione che richiede d’essere corretta con delle informazioni supplementari. Probabilmente era per questo motivo che una prima lettura mi restituiva una sensazione d’ambivalenza: se da una parte avevo colto chiaramente il messaggio sotteso a quelle narrazioni, la matrice politica e l’istanza civile che le ispirava, dall’altra quell’irriducibile elemento esperienziale, che restava inattingibile e opaco, mi dava a intendere che una comprensione reale e piena avrebbe presupposto una conoscenza diretta di quei luoghi e di quei testimoni.

 

Il racconto di un territorio è saldamente vincolato alle coordinate dello spazio e del tempo, alla concretezza delle distanze e della durata dei tragitti necessari a percorrerle e non può ignorare come queste variabili influenzino le relazioni personali. Se al principio avevo immaginato che Ostia non si discostasse molto da altre realtà periferiche di cui avevo avuto esperienza, mi trovavo ora a valutare la natura peculiare di questo posto, periferia se considerato negativamente e per sottrazione rispetto all’Urbe, municipalità autonoma dotata a sua volta di un sobborgo e di un’identità propri se guardato nella sua singolarità. A ciò si aggiungeva un altro elemento non trascurabile, cioè il flusso ondivago di spostamenti, migrazioni e dislocamenti forzati che da sempre regola i rapporti tra Roma e questa parte del suo circondario, con modalità diverse a seconda del periodo che si prende in esame.

 

I dodici capitoli di Ostia! attraversano un arco di tempo che va all’incirca dalla fine degli anni Settanta ai giorni nostri e aiutano a gettare luce proprio sulla dialettica tra Roma Capitale e le sue frazioni, sulle politiche di integrazione e il loro insuccesso, sul dialogo intermittente tra enti amministrativi e associazioni cittadine. Sono, soprattutto, la testimonianza della ricerca di forme di socialità proficua, della creazione di legami solidali in un contesto difficile che raramente guadagna l’attenzione della stampa se non per fatti di cronaca che esorbitano dallo stretto giro della quotidianità locale, non foss’altro perché colti e diffusi dalle reti nazionali. In una realtà in cui la testata sferrata ad un giornalista è solo la manifestazione estrema e più eclatante della convivenza sofferta tra forze antagoniste per storia, valori e finalità, l’attività portata avanti dal collettivo cittadino di Territorio Narrante si configura come un tentativo di resistere all’alienazione, di porre un argine alle tendenze apolitiche, al disimpegno, alla rassegnazione.

 

Come dicevo, avevo capito che per comprendere seriamente questo lavoro “narrante” avrei dovuto conoscere di persona gli uomini e le donne che giornalmente ne animano le attività, vederli all’opera e ascoltarli discutere, visitare Ostia e apprezzarne materialmente gli spazi urbani, percorrerne le tratte coperte dai mezzi pubblici e tentare, per quanto possibile, di ricavarne un’impressione generale coerente. L’occasione si è presentata lo scorso 2 febbraio, quando il collettivo ha indetto un incontro pubblico per ridiscutere l’evento di Castelporziano, il famigerato Festival della poesia che per tre giorni, dal 28 al 30 giugno del 1979, vide quella frazione del lido ostiense occupata da un’orda di spettatori, nella stragrande maggioranza giovani, venuti da tutta Italia, e non solo, per ascoltare i poeti nazionali e stranieri declamare personalmente le proprie poesie. Il titolo dell’evento, “Ostia dei poeti?”, riproponeva in forma interrogativa quello del film che Andrea Andermann realizzò riprendendo senza sosta quanto avvenne in quei giorni, un’ora e quarantanove minuti di girato che costituisce ad oggi l’unica testimonianza documentaria dell’evento.

 

La tesi sostenuta da Territorio Narrante è sostanzialmente questa: il Festival di Castelporziano non fu, a dispetto delle intenzioni degli organizzatori, un’occasione per rendere Ostia protagonista di un’iniziativa culturale, ma finì con l’essere un’invasione subita passivamente dagli abitanti del Lido che non solo non compresero quanto si stesse svolgendo su quel palco, ma dovettero anche affrontare un ulteriore flusso di gente esterna, che si aggiungeva a quello già copioso dei villeggianti abituali. La parola che rimbalza più di frequente è “tradimento”, messa in relazione con l’idea di abuso e prevaricazione, quelli che si sarebbero consumati ai danni di una comunità ignara, defraudata di un pezzo della propria storia che, in seguito, sarebbe stato oggetto di una narrazione estranea, “borghese” e dunque tendenziosa e dispotica.

La diffidenza verso tutto quanto minacci d’essere “borghese” è una nota componente del corredo ideologico cui, per tradizione, si rifà il mondo dei centri sociali e delle altre organizzazioni eredi della dottrina della sinistra extraparlamentare, e non è una novità. Tuttavia, in questo caso, come emerge anche dalla lettura del libro, è sintomatico di qualcosa di più profondo e cioè del rifiuto di categorie identitarie allotrie, importate; quello che si contesta, durante il dibattito e in generale nei discorsi del collettivo, è la tendenza ufficiale a narrare le borgate e la loro popolazione senza ascoltarne la viva voce, avvalendosi degli stereotipi della vulgata sociologica. Questo genere di interpretazioni non avrebbe fatto altro che incrementare il mito della marginalità, costruito per contrasto rispetto a tutto ciò si ritiene manchi a una periferia, senza però guardare a quanto di genuinamente spontaneo e peculiare caratterizza queste comunità: in breve, la loro soggettività.

 

2) Per il nostro discorso il Festival di Castelporziano costituisce un riferimento temporale importante e  non unicamente riguardo al contesto italiano. Non fu solo, come molti interventi anche recenti hanno rilevato[1], la celebrazione rituale della crisi definitiva della poesia e del ruolo del poeta, ma, in accordo con la trasformazione profonda della temperie culturale dell’Occidente, segna il compimento di un’epoca e l’inizio di un’altra, una frattura che proprio in quell’anno ottiene sanzione formale nel saggio di Lyotard che alla nuova epoca darà un nome e una definizione a tutti nota[2].

 

Castelporziano è l’atto finale delle manifestazioni di massa della controcultura giovanile, quella corrente  protestataria e innovativa di matrice internazionale che affonda le sue radici negli anni Sessanta, nel movimento di contestazione che ha nei nei beat americani e nei provos olandesi  i suoi capostipiti[3]. Si può dire, anzi, che a Castelporziano la vecchia guardia esce sconfitta e lascia il posto alla nuova: le culture politiche fino ad allora vigenti (sia che fossero accolte come punto di riferimento, sia  che  fossero rigettate come modello da sovvertire) hanno perduto il proprio ascendente; i giovani non avvertono più la necessità di aggregarsi e costruire un gruppo e, al contrario, manifestano una vera e propria sofferenza per la socialità e gli impegni che comporta. È la fase aurorale dell’individualismo e della fuga centrifuga che trionferanno negli anni Ottanta. Persino la presenza sul palco di  una figura simbolo come Evtušenko che declama, in un italiano stentato ma chiaro, versi come «vorrei rinascere in un’unica fotografia, quella del comandante Che Guevara», risulta dissonante con il contesto, ebbro, scomposto e frenetico. Esemplificazione concreta dell’emergere del protagonismo egoistico e irruente del corpo e delle sue istanze  è la presenza stabile e testarda della “ragazza-cioè”, cifotica, aggrottata e alterata dalle droghe, che strappa il microfono dalle mani dei poeti, pretende di prendere in continuazione la parola per comunicare le sue «vibrazioni», quasi aggredisce Amelia Rosselli perché vuole capire come fa «a sentire le cose così, la comunicazione l’espressione la comunicazione la parola la comunicazione di tutto»[4].

 

Quei tre giorni, nelle intenzioni del giovane assessore alla Cultura dell’amministrazione Argan, Renato Nicolini, e degli organizzatori della rassegna, ex componenti del gruppo teatrale d’avanguardia Beat 72, avrebbero dovuto essere l’adempimento degli obiettivi che, da due anni, ispiravano l’Estate Romana e il suo programma di integrazione cittadina. Nata nel tragico 1977 di piombo come tentativo di rompere lo stato d’assedio in cui i cittadini si sentivano reclusi, l’Estate Romana aveva previsto l’apertura totale degli spazi urbani e la loro trasformazione in teatri e cinema all’aperto e aveva favorito l’afflusso degli abitanti delle borgate verso il centro, la fruizione condivisa degli spettacoli, gli scambi interpersonali. La missione della “cultura in ogni dove”, perseguita già da anni dai diversi gruppi d’avanguardia in molte città d’Italia, aveva fatto sì che quel magma carsico di ribellione creativa nato negli anni Sessanta uscisse letteralmente fuori dalle cantine e dalle sedi decentrate dove si stampavano i ciclostile e esondasse nelle strade, nei luoghi pubblici, portando l’arte davvero ovunque, tranne che nei luoghi deputati.

 

In Italia questo movimento aveva assunto dei connotati caratteristici, perché non era stato un fenomeno confinato nelle grandi città, ma aveva coinvolto anche le piccole realtà provinciali, mantenendo vivo quel continuum urbano-rurale che aveva collegato giovani di ogni estrazione, spinti dalla volontà di socializzazione a spostarsi in lungo e in largo per la penisola. Mai come allora era sembrata possibile la costruzione di un’identità generazionale sovralocale, ultraregionale, individuata unicamente da valori culturali e politici condivisi.

 

L’estate del 1979, però, accoglieva stancamente i residui di quelle energie innovative. Il delitto Moro, il fallimento del progetto di solidarietà nazionale e il conseguente esaurimento del ruolo dei gruppi extraparlamentari, avevano fatto cadere anche gli ultimi baluardi ideologici. L’orda caotica che si era riversata a Castelporziano risentiva della stessa schizofrenica irrequietezza che si era registrata tre anni prima nell’ultimo e fallimentare Festival del proletariato giovanile[5].

  

3) Il luogo in cui si stava consumando uno degli ultimi grandi riti collettivi d’una generazione non era una comune frazione d’agro metropolitano, bensì il risultato di quasi un secolo di colonizzazioni, migrazioni, riassetti. Durante tutta la sua storia aveva recepito l’eco dei mutamenti della capitale in una dimensione più contenuta e attutita, come sempre avviene ai margini, dove le novità giungono in ritardo ma lasciano un’impronta più profonda e duratura. Il lido, che per quel singolare reading aveva accolto oltre ventimila visitatori, non era che il lembo estremo di un agglomerato abitativo che reca al proprio interno le stratificazioni e le sovrapposizioni di interventi urbanistici diversamente collocati nel tempo.

 

L’origine di Ostia risale alla fine dell’Ottocento, quando sotto il governo Depretis e per iniziativa del socialista Andrea Costa la palude ostiense venne fatta bonificare e in seguito abitare da colonie di braccianti ravennati rimasti senza lavoro a causa della crisi delle risaie. Negli anni Venti, il fascismo ne iniziò l’edificazione, con il progetto di rendere il lido la destinazione estiva dei romani abbienti.  Nel secondo dopoguerra, parallelamente all’ingrandimento dell’abitato dell’Agro romano, anche Ostia fu oggetto di alcune campagne d’edificazione; le case che si possono vedere scendendo alla Stazione di Stella Polare, per esempio, risalgono alla fase d’erogazione di fondi prevista dal Piano Fanfani. Il periodo successivo non vide l’emanazione di politiche territoriali concrete, e l’abitato ostiense si estese pressoché autonomamente, i quartierini residenziali sul mare facevano da sfondo alle vacanze della Roma del boom e al finale di 8 e 1/2 di Federico Fellini, mentre l’Agro romano continuava a ingrossarsi, così come stava accadendo all’allora XIII Circoscrizione, di cui Ostia rappresentava la parte più discosta rispetto all’Urbe. Intanto, anche le borgate che perimetravano la capitale erano al collasso e i baraccati iniziavano a essere guardati dall’amministrazione cittadina come una minaccia al decoro della città. Fu allora che da sobborghi come Acquedotto Felice, Borghetto Prenestino, Mandrione e Quarticciolo iniziarono le dislocazioni forzate nel territorio di Ostia, dove, per l’accoglienza degli sfollati, furono costruiti gli alloggi popolari di cui Piazza Gasparri costituisce il fulcro.

 

Quando la si visita, Piazza Gasparri non sembra molto di più che un’enorme colata di cemento tra palazzine scrostate dalla salsedine che guardano al litorale. Leggendo la testimonianza di Tina Ragucci, che ci arriva al seguito dei genitori nel 1972, non si fatica a intendere che, per gli ex borgatari, la nuova sistemazione, con le abitazioni separate l’una dall’altra, rischiava di diventare un ulteriore motivo di isolamento e alienazione.

L’edilizia moderna, che era il vanto dell’amministrazione romana, calata in un contesto in cui erano totalmente assenti servizi basilari come i trasporti e le scuole, minacciava di resecare i legami umani che, seppur nel degrado, avevano animato la solidarietà delle borgate. Scrive Tina Ragucci in Ostia! Romanzo di una periferia:

 

«Al senso di frustrazione e di isolamento si reagiva con atti di solidarietà attiva. Ci si dava una mano l’un l’altro, anche aiutando chi viveva di microcriminalità: se stava scappando dalla polizia noi gli coprivamo la fuga. Era un atto inconsapevole di ribellione. Nel bene e nel male appartenevamo alla stessa comunità. […]

In Piazza [Gasparri] io ci ho conosciuto il mondo. Essendo una zona popolare si riusciva a trovare casa a basso costo e perciò presto iniziò a testimoniare molti flussi migratori […]. Qui, più che in altri luoghi di Ostia, abbiamo conosciuto l’Altro e l’Altrove. E infatti non sono pochi i figli di Piazza Gasparri, frutto di un incontro fra popolazioni diverse.» (pag.58)

 

Mentre tramontava la grande e luminosa stagione della mobilitazione giovanile generale, le periferie continuavano a utilizzare proficuamente i linguaggi e i metodi di contestazione propri dell’associazionismo. Ad ereditare lo spirito della vita comunitaria e delle iniziative pubbliche sono i centri sociali, che diventano, tra gli anni Ottanta e Novanta, presidi attivi dislocati nelle zone più problematiche e isolate, nei grandi hinterland che gravitano attorno a popolose metropoli così come nei piccoli paesi di provincia. La loro azione è volta alla tutela di diritti fondamentali come quello all’alloggio, alla cittadinanza integrata, all’assistenza; diventano, in definitiva, filtro e megafono delle questioni sociali più urgenti.

Gli anni Ottanta, infatti, sono gli anni delle droghe pesanti e letali, dell’eroina, delle morti per overdose e dell’AIDS. Scrive sempre Ragucci:

 

«Quando arrivò l’eroina, invece, fu uno tsunami devastante. Silente e mortifera, non uccise soltanto i corpi di molti, ma aggredì il senso di comunità che prima c’era, seppure fragile e un po’ precario. […]

La paura crebbe e ci isolammo per non vedere negli altri ciò che saremmo potuti diventare anche noi. La droga ci paralizzò, le illusioni di spazio e di libertà senza limiti s’infransero. Ci avevano rinchiuso in una gabbia a forma di siringa.» (pag.58)

 

È in questo momento che a Ostia approda il regista milanese Claudio Caligari, ed è con i veri tossici che gira il suo film più noto, Amore tossico (1983). La protagonista, Michela Mioni, ricorda bene il momento in cui avvenne la frattura tra il comitato di giovani comunisti presente e attivo sul territorio e il gruppo di cui lei faceva parte:

 

«Con il passare del tempo si inasprì sempre di più il conflitto fra la coscienza politica e la nostra condizione di tossicodipendenti. Era una situazione molto dolorosa […] L’apice dell’umiliazione lo raggiungemmo quando ci ritrovammo a essere emarginati da alcune azioni di lotta: in quanto tossici i compagni duri e puri ci consideravano inaffidabili.» (pag.12)

 

A questo punto, la piccola comunità di Ostia si dimostra ancora capace di fare fronte comune alla minaccia di dispersione. Il SERT locale mette a disposizione dei tossicodipendenti una stanza per la pubblicazione di un giornale, stanza che verrà poi occupata senza limiti d’orario e utilizzata come quartier generale, punto d’incontro, bivacco, sede per le riunioni. L’esperienza editoriale del Muro avrà vita breve, ma sarà sufficiente a guadagnare l’attenzione di uno dei sociologi più avvertiti e controcorrente dell’epoca, Guido Blumir, già nel ’68 fondatore a Milano del SIMA, organismo impegnato nella difesa medico-legale dei tossici e degli omosessuali e soprattutto laboratorio di produzione artistico-psichedelica, legata alla sperimentazione di droghe e al pensiero orientale.  

 

Nel corso degli anni, si intensificano le occupazioni dei grandi spazi abbandonati e gli esperimenti socio-abitativi. È questa la storia dell’occupazione dell’ex Colonia “Vittorio Emanuele”, uno dei primi posti a ricevere squatter italiani ed extracomunitari e che, nel tempo, ha ospitato il CIM e la biblioteca pubblica comunale, ancora attiva.

Altri spazi occupati hanno avuto una vita più breve, ma particolarmente intensa, rimasta nella memoria dei ragazzi che al loro interno sono cresciuti e hanno fatto esperienza del “privato che è politico” nel senso più concreto che questo slogan sessantottino propugnava. Si trovano nel libro le storie dei centri sociali “Spaziokamino”, “Molotov”, dei gruppi che li hanno animati e delle battaglie civili che hanno condotto, osteggiati apertamente dalle formazioni politiche avverse.

Già alla fine degli anni Ottanta Ostia ha dovuto fare i conti con i rigurgiti neofascisti, ed è interessante leggere e scoprire come situazioni passate riescano a riproporsi pressoché inalterate nel tempo. Anche allora la presenza di un attivo presidio comunitario aveva fatto da argine alle recrudescenze d’estrema destra. Ricordano gli Ostia Rioters:

 

«La risposta al neofascismo comunque, fu eterogenea come lo era il movimento ostiense. Alcuni compagni si dedicarono a organizzare occupazioni di tipo abitativo, mentre noi continuammo a insistere su azioni culturali […] E così i coattelli, coinvolti dai fascisti, si ritrovarono a vivere una situazione paradossale: le “zecche” [i ragazzi dei centri sociali] davano casa ai loro genitori; le “zecche” li facevano ballare. Furono proprio le nostre differenze a far accusare il colpo alla destra sociale. […] Andò a finire che gli stessi coatti cominciarono ad allontanare i provocatori.» (pagg. 36-37)

 

4) Da Piazza Gasparri, in macchina, si impiegano dieci minuti per arrivare all’Idroscalo. Ci vado con alcuni ragazzi del Teatro del Lido, un altro esito dell’occupazione di locali abbandonati. Il Teatro del Lido lavora principalmente con le scuole e può contare sulla strenua partecipazione degli insegnanti e l’entusiasmo degli alunni. Mi spiegano che non esiste un dato attendibile sulla dispersione scolastica locale, perché è difficile fare un censimento degli effettivi abitanti delle zone autocostruite dell’Idroscalo[6]. L’Idroscalo è, ad oggi, periferia di periferia. Accoglie dagli anni Settanta, in un flusso continuo, gli abusivi che non possono permettersi di pagare un affitto; è diventato una comunità molto unita, dove persino gli stranieri hanno trovato integrazione senza apparenti difficoltà. Come tutte le realtà endemicamente precarie, ha sviluppato una capacità d’adattamento e di autogestione che ha messo in difficoltà le autorità e le istituzioni pubbliche. Gli sgomberi e i trasferimenti forzati, infatti, più che regalare migliori condizioni di vita ai baraccati, hanno disgregato comunità consolidate e perfettamente autosufficienti. Si può notare con un certo sgomento che le rimostranze più energiche non riguardano la mancanza di intervento pubblico, quanto piuttosto l’inadeguatezza delle politiche dell’amministrazione centrale, colpevolmente ignara dell’effettiva organizzazione che questa collettività ai margini ha saputo darsi.

Negli anni Novanta l’amministrazione e il sindaco Francesco Rutelli hanno autorizzato i lavori per la costruzione del porto turistico, che ha portato via una fascia consistente di litorale. Del lungo tratto che in Caro Diario (1993) Nanni Moretti percorre in Vespa sulle note del Concerto di Colonia di Keith Jarrett, rimane oggi solo una parte esigua. Alla costruzione del porto si affianca anche quella di una serie di esercizi commerciali che però non ha sortito gli effetti sperati tanto che il lungomare, fatto salvo il picco estivo di villeggianti, rimane deserto per gran parte dell’anno, così come vuoti sono i negozi e il portico che li ospita.

Gli abitanti di Ostia hanno vissuto questa ulteriore sottrazione di spazio (l’insenatura del porto e la cementificazione della piattaforma hanno decurtato di molti metri quadri la spiaggia libera) come un vero e proprio abuso.

Marco de Annuntiis, che proprio dell’Idroscalo ha deciso di scrivere, sceglie la forma del poemetto breve e, in un gioco metaletterario di citazioni manifeste e mimesi stilistica, unisce nel medesimo orizzonte di illeciti e violazioni le sorti del litorale e quelle del poeta che lì vide la propria fine :

 

«Io so! Io so che Pasolini è morto e come è morto:

  Io so chi ha rapito la salma di Mike Bongiorno,

  come so chi ha messo un albergo a via Carlo Avegno,

  io conosco i nomi dei mandanti di quello stupro chiamato “porto”.

  Io so perché sono un intellettuale, ma siccome

  sono un intellettuale io so, ma non ho le prove!» (pag. 69)

 

A poca distanza dal porto si trova il parco letterario “Pier Paolo Pasolini”, che ospita il memoriale dedicato al poeta. Se si vuole fare propria le lezione benjaminiana che prescrive di leggere la città come un palinsesto, e di decifrarne la dialettica interna in base all’interazione reciproca degli spazi e di chi li vive, allora non si può non pensare che quest’ansa verde in un panorama continuo di cemento e dune costituisca una cesura della sintassi, un punto fermo nel discorso sostanzialmente omogeneo che lega il litorale al suo prolungamento di lamiere e strade. Mario Rosati, l’architetto che ha progettato la stele in memoria del poeta, è uno dei dodici autori del libro. Leggere il suo resoconto significa apprendere una storia che ha del grottesco; il monumento, per quindici anni, è stato un austero  gruppo scultoreo in cemento armato eretto in mezzo alle sterpaglie, in una piana  abbandonata che ben presto era diventata una discarica. Tuttavia, «il 2 novembre di ogni anno, giorno della commemorazione, i vari rappresentati arrivavano puntuali a rinnovare le stesse vane promesse. E puntuali, terminata la cerimonia, sparivano velocemente dalla stele e dal quartiere» (pag. 62).

Quando poi, nel 1995, s’è deciso di recintare l’area e di renderla un parco, la condizione di estraneità del luogo rispetto allo spazio circostante non ha fatto che aumentare; i continui atti vandalici ai danni della stele hanno reso necessaria la chiusura permanente del cancello, con il risultato che per visitare il monumento bisogna avvalersi della presenza di uno dei ragazzi del collettivo.

 

La disaffezione, o meglio, l’indifferenza che gli abitanti dell’Idroscalo manifestano per il parco è un esempio chiaro di un fenomeno collaterale alla marginalizzazione, cioè la propensione all’autoesclusione. Come si è detto, l’Idroscalo è, oggi, nella geografia socioeconomica di Ostia, uno slum che patisce condizioni di discriminazione e isolamento particolarmente gravi. Come spesso accade, le comunità colpite da stigma sociale tendono a sviluppare per reazione tratti subculturali marcati, rivendicando con forza un senso d’appartenenza al gruppo di riferimento che si caratterizza per il rifiuto e addirittura il disprezzo per ciò che è estraneo al “ghetto”.

Ed è esattamente questa tendenza che il collettivo Territorio Narrante, nella scelta dei mezzi espressivi e delle tipologie di racconto, ha inteso contrastare e sovvertire. Non si trovano rappresentazioni tipizzate della marginalità, non si tentano proposte d’analisi sociologica, né ci si sofferma sulla moltitudine delle difficoltà attuali. La dimensione che prevale è quella della rievocazione e del ricordo, della ricerca (che diventa inevitabilmente digressione e autobiografia) di una geografia emotiva per quanto più possibile comune e condivisa. Come è ben spiegato nel prologo, «non può esistere delazione su questa terra, c’è il rischio di impantanarsi continuamente nella narrazione, di mutarsi da narratore in narrato, di muovere dalla diegesi alla mimesi».

 

La cartografia delle interazioni sociali individuata da Territorio Narrante restituisce dunque un quadro di quasi perfetta autosufficienza, pressoché totale per quanto concerne le attività culturali e le iniziative di riqualificazione del territorio. Allo stesso modo, anche il progetto di costruire una memoria collettiva propria, e non subalterna alla storia dell’Urbe, testimonia della consapevolezza d’aver compiuto un percorso di definizione identitaria autonomo e della volontà di «risvegliare l’orgoglio sopito del popolo» (pag.80). Ciò che però aleggia in ogni racconto ed è, forse, l’ispirazione genuina del libro, è la coscienza, sofferta, di vivere uno stato di mobilitazione perenne, ed eternamente fermo alla vigilia:

 

« […] quando finì l’epoca del conflitto e noi avevamo conquistato finalmente il nostro spazio, è stato come se l’incombenza della quotidianità avesse riportato tante persone sulla loro strada a confrontarsi con i compromessi che servono per andare avanti. Tutto non poteva durare per sempre solo in quel posto, ci sarebbe dovuto essere un movimento di tanti Vittorio [l’occupazione dell’ex colonia “Vittorio Emanuele”] in tanti altri luoghi.» (pag.45)

 

E in effetti, guardando all’impegno quotidiano di Territorio Narrante, profuso nonostante i “compromessi che servono per andare avanti” e la consapevolezza che domani non molto sarà cambiato rispetto ad oggi, o a ieri, ci si può chiedere se a muoverli sia il senso d’oppressione, il rancore represso o l’insoddisfazione.

Probabilmente, per dirla con Ottieri e i CSI, è solo un’irata sensazione di peggioramento.

 

 

 

[1] Si veda il puntuale commento di Guido Mazzoni, Sulla storia sociale della poesia contemporanea in Italia, in «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», VIII (2017), pp. 1-26.

[2] J.F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981 (ed. or. 1979).

[3] Per questi riferimenti e in generale per un panorama della protesta giovanile a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta fondamentale è stata la lettura dell’accurato saggio di Silvia Casilio, Una generazione d’emergenza. L’Italia della controcultura (1965-1969), Le Monnier, Firenze 2013.

[4] Per informazioni sullo svolgimento del Festival di Castelporziano, si vedano a cura di Simone Carella, Paola Febbraro e Simona Barberini, Il romanzo di Castelporziano. Tre giorni di pace, amore e POESIA, Stampa Alternativa, Viterbo, 2015 e Franco Cordelli, Proprietà perduta, L’orma editore, Roma, 2016 (prima edizione Guanda editore, Parma, 1983).

[5] Mi riferisco all’ultimo grande raduno organizzato dagli animatori di Re Nudo, la rivista diretta da Andrea Valcarenghi. Il Festival del proletariato giovanile tenutosi a Parco Lambro, a Milano, nell’estate del 1976 fu la sesta e ultima edizione dell’evento e si caratterizzò per l’inconcludenza dei dibattiti, i disordini e gli energici interventi della polizia.

[6] Per la storia dell’Idroscalo e le sue condizioni abitative si veda il ricco contributo di Stefano Portelli, Dove l’acqua dolce incontra quella salata. Idroscalo, ultimo grande quartiere autocostruito di Roma. ANTROPOLOGIA, Volume IV, Numero 3, dicembre 2017.