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Martedì, 13 Giugno 2017 11:19

La redenzione impossibile nell’ultimo romanzo di Walter Siti: "Bruciare tutto"

Scritto da Francesca Spinelli
W. Siti, "Bruciare tutto", Milano, Rizzoli, 2017 W. Siti, "Bruciare tutto", Milano, Rizzoli, 2017

L’ultima prova letteraria di Walter Siti, Bruciare tutto, si configura come un romanzo senza Dio, o meglio, come un romanzo che prova più volte a interrogare Dio senza ricevere aiuto. È questo il punto focale dell’intera vita interiore del trentatreenne Leo Bassoli, il protagonista del libro. Sacerdote presso una parrocchia della Milano moderna e benestante, don Leo divide le proprie giornate tra impegni eucaristici, doposcuola e opere di beneficenza. In mezzo si collocano le “manovre” per ottenere fondi e donazioni dai facoltosi frequentatori della Chiesa e l’osservazione, da lontano e dall’esterno, di una storia d’amore tanto intensa e segreta quanto pura, ossia quella tra la perpetua Adua e il sacerdote Fermo.

Leo dialoga spesso con Dio, ha la mania di scrivere lunghe omelie da leggere ai fedeli durante la Messa, ha l’abitudine di ricreare con l’immaginazione le scene bibliche più significative ma, soprattutto, in preda a ossessioni inconfessabili e proibite, sente spesso il bisogno di autoflagellarsi con frusta o cilicio.

Ogni personaggio del romanzo potrebbe affermare con certezza che quella di Leo sia un’esistenza tranquilla e misurata e, per certi versi, è proprio così. Tuttavia nel profondo del suo animo si annidano traumi pregressi e tormenti che via via affioreranno dalla sua coscienza (e le tendenze pedofile costituiscono non il culmine ma una cicatrice sotto traccia del passato). La narrazione che Siti distende sulle pagine, infatti, è piuttosto esile e scontata dal punto di vista della trama, ma è molto più densa e intricata sul piano psicologico. Agli squarci dedicati al racconto della vita sacerdotale e delle relazioni che ruotano attorno a Leo si alternano, con salti vertiginosi ma perfettamente integrati nel tessuto del testo, tormentati e rabbiosi dialoghi con la divinità, sempre ardentemente invocata con paura o dolore, molto spesso bestemmiata. Ciò che vuol essere il nocciolo della storia, ossia la pedofilia di Leo, stenta a palesarsi e infatti si mostra con maggiore chiarezza solo a partire dal quinto capitolo, se si escludono brevi avvertimenti precedentemente disseminati dall’autore.

La “malattia” del giovane uomo di Chiesa, maturata a partire dagli anni della pubertà, viene vissuta da lui stesso come la testimonianza più lampante del fatto che Dio abbia voluto metterlo alla prova, facendogli sperimentare, diabolicamente, delle attrazioni insane. Ecco che, innanzitutto, si nota come il Bene sia inevitabilmente associato al Male e che tra le due entità non vi sia una distinzione manichea, in quanto si completano e compenetrano a vicenda. In secondo luogo, continuando a leggere il romanzo, ci si imbatte in una delle rabbiose apostrofi di Leo al Divino («tu Dio m’hai messo in questa difficoltà e io ti sfido correndoti tra le braccia»[1]) che racchiude il senso dell’intera impalcatura narrativa. La scelta di indossare l’abito talare, dunque, è una risposta provocatoria ad una più grande provocazione messa in atto dalla divinità stessa. Si comprende quindi come la vita del protagonista non sia frutto di una vocazione puramente sentita e perciò non potrà mai essere accettata con gioia e serenità.

Tra l’altro, la beffa di Dio non viene scongiurata, poiché Leo, in parrocchia, si ritrova ad aver a che fare per molto tempo con i ragazzini, considerato anche il suo impegno nel doposcuola («“Lo so, mio Signore, che me li hai affidati per beffa”»[2]); egli, dunque, non trova in nessun caso il modo per “guarire”, nonostante, durante tutta la sua attività sacerdotale, i suoi desideri non si siano mai tradotti in atti.

Walter Siti, narratore come sempre onnisciente ma stavolta anche extradiegetico ed estraneo alla fictio da lui stesso messa in piedi, compare come personaggio della storia in sole tre righe, come lui stesso ha rivelato nella postfazione. La volontà di superare l’autofiction è prepotente e, per argomentare il tutto, chi scrive preferisce lasciare qui la parola all’autore stesso che, in seguito al caso mediatico scoppiato in occasione dell’uscita del libro, ha ritenuto opportuno scrivere delle righe “autoesegetiche” sul Corriere della Sera. L’autofiction, scrive Siti, è una specie di

 

autobiografia «aumentata» che pretende di superare l’inefficacia del romanzo con un’iniezione di verità, e di dare forma (quindi senso) a quella cosa informe che è la vita. Ma standoci troppo tempo immersi a bagnomaria (questo almeno è successo a me) si impara che l’autobiografia, aumentata o meno, è un ostacolo all’espressione delle verità profonde di sé. Perché le verità profonde sono inconsce, e se l’Io è la guida allora laggiù, nei territori dell’Es, fatica ad arrivarci. Non solo: più dell’inconscio personale conta l’inconscio sociale, ciò che la società non vuole sapere di se stessa, e non è detto che l’autore empirico (con la sua vita generalmente banale) sia la migliore antenna per percepire la sismicità diffusa. [...] Don Leo è stato per me una di queste antenne, lo ringrazio e gli chiedo perdono se non sono riuscito a rendergli piena giustizia. Il suo lavoro di pastore d’anime mi ha aiutato a riflettere (narrativamente) sulle varie tipologie di desiderio e sui limiti della carità[3]

 

Si tratta, in concreto, di allontanarsi dalla narrazione per focalizzarla meglio e per focalizzare con più esattezza la propria personale interiorità, da riflettere poi nello scritto. Don Leo, per Siti, è lo strumento per interrogare Dio, con la differenza che Leo riesce a instaurare almeno una parvenza di dialogo, mentre l’autore non riceve risposte.

Inoltre, l’edificio dell’opera è stato eretto mediante l’espediente della mimesi, in quanto è composto da macrosezioni e microsezioni strutturate sotto forma di dialogo tra due o più personaggi. Tali strutture sono poi circondate da varie ambientazioni e sono inframmezzate con leitmotiv biblici, citazioni di poesie e frammenti della turbolenta vita interiore di Leo, dalla cui frantumazione ha origine anche una deflagrazione meccanica del linguaggio: il protagonista soffre infatti di balbuzie, che si presenta in particolar modo quando è spaventato o agitato. È a questo punto naturale evidenziare come la scissione psicologica e linguistica si ripercuota puntualmente sullo stile della scrittura che, grazie all’abbondante presenza di discorsi indiretti liberi, flussi di coscienza e monologhi interiori, si presenta spesso come un fiume che straripa con ritmo forsennato.

Continuando a seguire la trama, la situazione precipita quando giunge dal protagonista un ragazzo di ventisette anni, Massimo Fioretti, con cui Leo entrò in intimità quando Massimo era bambino e che rappresenta l’unico caso in cui le pulsioni erotiche del protagonista abbiano avuto un esito concreto. L’arrivo di Massimo sconvolge sensibilmente la vita ordinaria del “pastore d’anime” e innesca quel domino che precipiterà poi velocemente verso il finale della storia. Il giovane, infatti, pur non portando cicatrici (né reali né metaforiche) dell’accaduto e pur provando sincero affetto per il prete, costringe Leo a ripercorrere la propria esistenza e a riportare a galla i sensi di colpa e la rabbia mai del tutto sopiti, tanto da sfociare nella più violenta «misopedia» («Pazzia rovesciata sul mondo, pedofilia che si trasforma in furibonda, vorticosa, incolmabile “misopedia”, odio puro per ciò che cresce [...]»[4]). L’autoflagellazione vuole essere un tentativo di purificazione di un essere umano corrotto tanto interiormente quanto esteriormente; negli spazi assegnati ai suoi interventi in prima persona, ossia le note a piè di pagina, l’autore avverte infatti che, considerata la gravità della colpa di Leo e il giudizio su di essa della società, i suoi tratti fisici sono stati volutamente sfigurati e resi grotteschi.

L’apparizione in punta di piedi nel romanzo della figura di Andrea, un bambino di dieci anni introverso e troppo adulto per la sua età, sancisce infine la comparsa dell’unica possibilità di vera redenzione per don Leo, di cui ben presto il piccolo diviene allievo durante il doposcuola. Andrea ha un dono catartico per il sacerdote: quest’ultimo, infatti, nonostante il legame tra i due si rafforzi e si coroni di affetto puro, non prova attrazione per il bimbo: «Andrea è davvero una prova che il Signore m’ha mandato: è reattivo, sensibile, bisognoso, avrebbe tutto per essere desiderabile e invece... Leo non si è mai sentito così leggero e sicuro di sé mentre lo guida per le spalle attraverso la porta girevole: un adulto protettivo e anche un po’ burbero»[5]. Il bambino è ritratto come un alter ego dello stesso Leo (e forse è per questo che egli non lo desidera): entrambi hanno subìto un’infanzia difficile, lacerata da violenze fisiche e verbali, e “salvare” Andrea da se stesso e dal resto del mondo è la missione che Leo si prefigge come una sorta di riscatto per le proprie sofferenze infantili, fino a quando il bambino non si dichiara innamorato di lui. Immediato e inevitabile è dunque l’allontanamento dei due, fortemente voluto e attuato dal protagonista, che comunque a breve sarebbe partito per la Siria. In preda ai sentimenti indefinibili scaturiti dal rifiuto di Leo e capro espiatorio delle aggressioni tra i suoi genitori, il piccolo si toglie la vita, scrivendo, con il suo monologo interiore, la pagina più delicata e allo stesso tempo più straziante dell’opera, a cui fa da controcanto il monologo interiore del prete nella camera ardente del bambino. La morte del suo alter ego infantile fa precipitare verso la conclusione anche la vita di Leo che, spogliatosi con rabbia dei suoi abiti sacerdotali, voltate con disgusto e in modo definitivo le spalle a Dio, si dà fuoco in una zona sporca e malfamata di Roma. I suoi resti verranno poi rinvenuti la mattina di Natale.

Con la storia di Leo Bassoli, fenice non risorta dalle proprie ceneri, Siti ha composto un romanzo facile a leggersi dal punto di vista dello stile, ma arduo più che mai dal punto di vista dei contenuti, poiché ha voluto dimostrare al suo pubblico che ogni tipo di redenzione è impossibile.

In una conferenza durante il Salone del libro di Torino, lo scrittore ha parlato dei suoi ultimi tre romanzi pubblicati (Resistere non serve a niente, 2012; Exit strategy, 2014; Bruciare tutto, 2017) presentandoli come una trilogia: il primo sarebbe incentrato sul tema del narcisismo, il secondo sulla voglia di denaro e l’ultimo sulle pulsioni erotiche proibite. Si tratta, ha continuato Siti, di tre “assoluti diversi”, e il bisogno dell’assoluto è l’ossessione che percorre tutta la sua scrittura. Dopo aver affrontato diversi argomenti, come il denaro e l’egocentrismo, era arrivato per lui il momento di parlare dell’“assoluto per eccellenza”.

 

[1] W. SITI, Bruciare tutto, Milano, Rizzoli, 2017, p. 177.

 

[2] Ivi, p. 96.

 

[3] W. SITI, Walter Siti: il mio libro scandaloso. Don Leo e limpulso a distruggere, «Corriere della sera», 19 aprile 2017.

 

[4]Ivi, p. 19 8.

 

[5] Ivi, p. 314.

 

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