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Sabato, 10 Giugno 2017 14:12

Simultaneità in scena. Il Furioso di Ronconi e Sanguineti

Scritto da Camilla Mauro

Il progetto Palchetti Laterali, curato da Maria Chiara Provenzano dell’Università del Salento, ha come scopo quello di favorire lo studio della storia del teatro. Il filo conduttore di quest’ultimo ciclo di incontri è stato la fortuna teatrale dell’Orlando Furioso – per quanto non siano mancate riflessioni su altri temi, dal romanzo storico di Manzoni alla poesia friulana di Pasolini. Gli studenti hanno incontrato attori e professionisti che, portando in aula tutta la loro esperienza maturata sul palcoscenico, hanno spiegato le scelte alla base delle loro reinterpretazioni teatrali dell’opera ariostesca. Durante l’ultimo appuntamento, che ha avuto luogo il 19 maggio presso il Cineporto di Lecce, Valter Leonardo Puccetti e Luca Bandirali hanno introdotto il lavoro di Ronconi e Sanguineti sul Furioso.

Se nella storia del teatro del secondo Novecento è possibile individuare uno spartiacque, una rappresentazione di cui si possa dire post quem e ante quem, questa riguarda indubbiamente il Furioso messo in scena nel 1969, in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto, nella chiesa sconsacrata di San Niccolò.

A cimentarsi nella riduzione dell’opera ariostesca furono, come è noto, Luca Ronconi ed Edoardo Sanguineti. Lo spettacolo fu rivoluzionario non solo per l'abbattimento dell’ideale barriera fra palco e platea (quindi attori e pubblico) ma anche e soprattutto per la scelta di mettere in scena simultaneamente più episodi del Furioso, dando agli spettatori la possibilità di scegliere quale seguire. Nel clangore generale, fra le voci degli attori che si sovrapponevano le une alle altre, con il consueto uso/abuso delle macchine teatrali proprio di Ronconi, il pubblico si muoveva – visibilmente spaesato – fra le varie scene. I due ideatori della rappresentazione vollero privilegiare il ruolo attivo dello spettatore, a cui venne chiesto di scegliere e di porsi dinamicamente rispetto ai contenuti teatrali. Si ricordi che Ronconi chiese di collaborare a Sanguineti dopo aver letto il suo Il giuoco dell’oca, pubblicato da Feltrinelli nel 1967. Il romanzo si presentava articolato in 111 brevissimi capitoli (indicavano, appunto, le 111 caselle del gioco dell’oca) che il lettore poteva leggere come voleva, procedendo avanti e indietro fra una casella e l’altra senza seguire alcun principio che non fosse quello della casualità e del piacere combinatorio.

Orlando Furioso, Ronconi

Tornando al Furioso, quello che Ronconi e Sanguineti sacrificarono in nome della simultaneità – soprattutto nel successivo adattamento televisivo – fu il magistrale intreccio fra gli episodi ordito da Ariosto. Egli, infatti, alternò continuamente le vicende narrate, interrompendone il racconto nel momento di massima suspense, creando così attesa circa le sorti di questo o quel personeggio e, soprattutto, variando la materia trattata affinché essa non risultasse molesta[1] e noiosa per il lettore:

 

far mi convien come fa il buon

sonator sopra il suo instrumento arguto,

che spesso muta corda, e varia suono,

ricercando ora il grave, ora l’acuto[2].

 

Il successo della rappresentazione teatrale fu tale che, come accennato, iniziarono i lavori per realizzarne un adattamento televisivo, sempre con riduzione e sceneggiatura a cura di Ronconi e Sanguineti, il quale però, pur collaborando al progetto, ne rimase fortemente deluso e considerò lo sceneggiato RAI un prodotto meno “eversivo” rispetto all’avanguardistico progetto del ’69.

In realtà, Ronconi propose di trasmettere in contemporanea due versioni diverse del Furioso – una sul primo e l’altra sul secondo canale –  in maniera che, attraverso quello che oggi è a tutti noto come zapping, lo spettatore avesse una possibilità di scelta simile a quella esercitata dal pubblico teatrale. La sua proposta fu, però, bocciata: oltre ad essere decisamente in anticipo rispetto ai tempi, presentava difficoltà di attuazione non indifferenti se si pensa che in quegli anni il segnale del secondo canale non copriva tutto il territorio nazionale e che la maggior parte dei televisori non aveva il telecomando.

Le cinque puntate dello sceneggiato furono organizzate in blocchi tematici portati avanti fino alla conclusione del filone narrativo in essi sviluppato. Sono messi in scena i motivi principali dell’poema di Ariosto: quello epico della guerra fra i cristiani di Carlo Magno e i mori di Agramante; quello cavalleresco, che segue i personaggi al di fuori del campo di combattimento, nelle loro quête, amorose e non, per selve, isole e persino sulla luna; quello encomiastico che ha come esito il matrimonio fra Ruggiero e Bradamante, da cui discenderanno poi gli Este. Estrema è anche la fedeltà nei confronti dell’ottava ariostesca –Sanguineti d’altronde cercò di compiere interventi minimi, perlopiù passando dalla III alla I persona.

Singolare e straniante risulta la recitazione totalmente antirealistica richiesta agli attori da Ronconi: se da una parte la preziosissima scenografia di Pierluigi Pizzi e la bellezza degli interni in cui è girato lo sceneggiato sembrano voler stimolare e supportare la fantasia dello spettatore, dall’altra il modo di muoversi e parlare dei personaggi – per quanto talvolta ondoso e ipnotico– svela che si tratta di una finzione, quasi a ricreare l’ironia e il distacco d’Ariosto nei confronti della materia del suo poema. Il racconto ronconiano più che narrativo punta ad essere pittorico: si pensi, ad esempio, ad Astolfo-mirto sull’isola di Alcina, ad Orlando che, nudo e inginocchiato, guarda verso l’alto in un coesistere tipicamente caravaggesco di luci e ombre, al corpo morto di Brandimarte portato in braccio da Orlando e simile a quello del Cristo deposto dalla croce. Soprattutto nei momenti di maggiore pathos, Ronconi chiede ai suoi attori di muoversi con movimenti e pose che secoli di tradizione pittorica hanno cristallizzato e, di conseguenza, lo spettatore si sente dentro un quadro o in una sorta di grande presepe vivente. Talvolta sembra di essere di fronte alle tele di Piero della Francesca, si pensi al matrimonio fra Ruggiero e Bradamante, tal altra davanti ad un Caravaggio, ma spessissimo le atmosfere ricordano quelle dell’ultimo Tiziano – emblematica è in questo senso la fuga di Bireno che si trascina dietro la figlia del re dei Frisi ancora mezza addormentata. Il fatto che lo sceneggiato dialoghi così bene con la tradizione pittorica pare un ulteriore omaggio ad Ariosto, considerando che grande era l’importanza nella Ferrara cinquecentesca di personaggi come Dosso Dossi, Cosmè Tura e Francesco del Cossa.

È poi dai dettagli che si coglie la sintonia dell’adattamento televisivo con la matrice profonda del poema ariostesco: si prenda l’episodio conclusivo, lo scontro fra Ruggiero e Rodomonte. Ronconi e Sanguineti lo hanno rappresentato nella maniera corale che gli è propria facendo recitare un’ottava contemporaneamente a più personaggi. Questa scelta rende perfettamente il percorso compiuto da tutti i paladini che, dopo tante imprese erotico-cavalleresche tipiche del ciclo bretone, si reimmettono nella dimensione comunitario-religiosa del ciclo carolingio, in cui invece mancava completamente il tema amoroso e il gusto per quête e avventure individuali.

Il progetto di Ronconi è figlio di una televisione che dava molto più spazio al teatro e che, senza la concorrenza al ribasso delle tv private, investiva per diventare strumento di cultura. Ottime anche le competenze della troupe (con Storaro alla fotografia) che fu in grado di confrontarsi con il formato quadrato della tv, pensando ad una composizione ascensionale, con gli eroi proiettati verso le volte dei castelli e delle chiese, e gestendo abilmente le riprese dei movimenti di massa, con un perfetto equilibrio fra messa in scena e messa in quadro.

Per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi, soltanto Angelica (Ottavia Piccolo) risulta sottotono rispetto all’originale: se ne enfatizza la condizione di demoiselle en détresse non dando giusto spazio alle abilità manipolatorie della donna. Magistrale l’interpretazione lenta e sillabata di Mariangela Melato (Olimpia), a tratti rapita dal suo stesso fascino, vittima del suo stesso incanto.

L’Orlando Furioso del 1975, insomma, tradisce e traduce il poema nella sua essenza più profonda e sempre attuale – si pensi anche alle riletture e alla passione ariostesca di Italo Calvino. Eroi ed eroine ricercano senza conoscere i motivi del loro ricercare, soffrono per lo scarto fra ideale e reale, non sempre riescono a distinguere ciò che è vero da ciò che è artificioso inganno dei sensi, non diversamente da noi, spettatori e comparse nell’era della videosfera.

 

[1] L. Ariosto, Orlando Furioso, a cura di L. Carretti, Einaudi, Torino, 1992, XIII, 136.

[2] L. Ariosto, Orlando Furioso, cit., VIII, 29.

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