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Martedì, 30 Maggio 2017 19:47

Tra i cuti e le scrasce. Dietro le quinte de "La guerra dei cafoni"

Scritto da Marcello Aprile
"La guerra dei cafoni", regia di D. Barletti e L. Conte (2017), tratto dall'omonimo libro di C. D'Amicis "La guerra dei cafoni", regia di D. Barletti e L. Conte (2017), tratto dall'omonimo libro di C. D'Amicis

La guerra dei cafoni, film tratto dal bel libro di Carlo D’Amicis (Roma, Minimum fax), è il secondo film vero e proprio di Davide Barletti e Lorenzo Conte (i due hanno però all’attivo importanti docufiction come Italian sud est, per dirne una). Ne parliamo brevemente su Pens perché il film è, diciamo così, di area jonico-salentina, essendo girato in diversi luoghi marittimi delle province di Lecce e di Taranto, e anche per altri motivi, che hanno a fare con il cosiddetto make of, il dietro le quinte.

 

 

Come appare chiaro anche dal primo film di Barletti & Conte, Fine pena mai, un lavoro bellissimo dedicato alla storia della mafia salentina e alla vita del boss della Sacra corona unita Antonio Perrone, i due registi sono molto affezionati, e giustamente, alle grandi capacità recitative di Claudio Santamaria. L’attore romano aveva già ben dimostrato di saper fare con la geografia della lingua italiana, praticamente, quello che vuole: in Fine pena mai parlava l’italiano con accento salentino (per non dire del dialetto salentino) meglio di uno nato a Trepuzzi: sentirlo per credere. In La guerra dei cafoni Santamaria, che compare in un bellissimo cameo iniziale immaginato nella Terra d’Otranto medievale, una terra riarsa e dura, popolata da greci non meno che dai cuti  e dalle scrasce dei dintorni dell’area che va da Otranto a Santa Cesarea, affronta un dialogo in greco bizantino, lingua evidentemente non praticata da tutti noi tutti i giorni, oltre che estinta.

Davide Barletti mi telefona a luglio di due anni fa e mi chiede come fare a tradurre in greco bizantino la parte che già allora lui e Lorenzo Conte immaginavano cucita addosso a Santamaria. Probabilmente in altri tempi l’avrebbe chiesto a mio padre, ma il Padreterno se l’era portato via già un anno prima, quindi niente da fare; mi consolo pensando che sono stato nominato sul campo suo successore. Io a mia volta chiamo Francesco Giannachi, giovane e bravissimo collega che insegna Civiltà bizantina nel mio Dipartimento, e ci mettiamo al lavoro sul testo per mail. Francesco me lo manda tradotto, lo riadatto per esigenze di naturalità del parlato e soprattutto trasformo i caratteri greci in latini indicando direttamente la pronuncia (che cambia enormemente, rispetto a quella che si insegna al liceo classico), e alla fine lo rigiro a Davide, che lo manda a Santamaria.

 

 

Passa qualche mese e Davide mi chiede se voglio aiutare lo stesso Santamaria e gli altri tre partecipanti alla scena a perfezionare il dialogo. Io accetto di corsa (e quando mai mi ricapiterà di osservare come si fa un film con un attore di questo livello e, devo aggiungere, con due registi di questo livello…) e mi precipito con Debora, che fotografa l’evento perché ne resti traccia, a Santa Cesarea, dove trovo gli altri in un albergo.

Devo dire che è un pomeriggio indimenticabile, anche se il meglio deve ancora venire. Come tutte le persone veramente serie, Claudio (dopo un po’ riesco a chiamarlo così) studia tantissimo: un verbo che gli studenti di tutte le età hanno ormai allegramente messo da parte, sembra (io non ho quest’impressione, però devo avere torto io, visto che sono tutti convinti del contrario).

Primo passo: Claudio legge ad alta voce diverse volte tutte le battute.

Secondo, si fa spiegare esattamente che cosa vuol dire il testo, parola per parola, segnandosi la traduzione letterale con una penna sopra le parole, e lo rilegge facendo caso a non farsi condizionare dal testo italiano a fronte: vediamo già chiaramente che si sta immergendo nella parte di un crudele signorotto bizantino del Duecento.

Terzo, si segna con cura dove sono i picchi di pronuncia, le sillabe su cui deve mettere enfasi, dove deve alzare la voce minacciosamente e dove deve usare un’ironia crudele, che mette i brividi, con un povero contadino, trattato da ladro per aver bevuto un po’ d’acqua da un pozzo.

Quarto, comincia a mandare a memoria il testo con l’andamento ritmico giusto, la pronuncia sistemata perfettamente e la gestualità che comincia a prendere forma.

Quinto, comincio ad avere l’impressione che se aspetto un altro quarto d’ora sarà lui a spiegare a me come si pronuncia il greco e non viceversa.

Sesto, il giorno dopo le sue battute le sa così bene che, gli dico, sembra nato nel Peloponneso: invece è del rione Prati di Roma.

 

 

E veniamo al giorno dopo, perché Davide ci fa il regalo di invitarci sul set. Dato che non abbiamo mai visto il set di un film, l’esperienza è esaltante già di per sé. Ho ricordi abbastanza sovrapposti, in realtà, e non saprei mai identificare il posto, un vero e proprio deserto di cuti e di scrasce battuto dal sole di una calda mattinata di settembre, ma eravamo nei dintorni di Santa Cesarea; da lì si vedeva il mare. Un vero luogo / non luogo che uno si immagina immobile da secoli, dove il giorno e la notte si alternano con le stagioni nella più totale e affascinante indifferenza della natura verso le vicende umane.

Mi danno delle fantastiche cuffie collegate con i microfoni degli attori che mi consentono di seguire perfettamente tutte le loro battute; vado e vengo da vicino e da lontano (la scena si svolge intorno a un pozzo) per osservare meglio e per controllare la qualità del greco. A un certo punto Davide mi chiede come si dice ‘fèrmati’ in greco, gli rispondo che si dice opa! (una parola che ho imparato da bambino e che mi piace moltissimo); preso dal panico, telefono a Francesco Giannachi per chiedergli se opa! si usava già nel XIII secolo e se posso farla aggiungere nel copione (se qualcuno va a vederlo, è la prima parola di tutto il film); Francesco mi dice che non abbiamo nessuna prova per dire che non esistesse già allora, allora cambiamo il copione in corsa sperando di non avere sbagliato e cominciamo davvero. Quel che è fatto è fatto, amen.

No, per Santamaria non c’è bisogno di controllare niente: si rivolge al povero contadino pelle e ossa (Fabrizio Saccomanno) sempre più da padrone infame, lo chiama γεοργέ, con la consonante gamma leggermente aspirata, proprio come si fa in Grecia, e con una bella e aperta, e soprattutto con un tono agghiacciante. Sì: Claudio Santamaria, un bravissimo ragazzo che non farebbe male a una mosca, può sembrare cattivo.

Sul set ci saranno trenta persone, ma quelle che lo spettatore vedrà sono solo quattro, più un cane. Più il vento, tra i cuti e le scrasce. Ci sono anche i cavalli di Claudio e del suo sgherro; uno a un certo punto si mette a orinare, e giurerei che ne fa dieci litri, una cosa mai vista. Una pozzanghera, in un campo su cui non pioveva da mesi.

Quando Davide e Lorenzo mi portano in una specie di cabina all’aperto in cui si segue tutto quello che riprendono le telecamere, chiedo loro a quanti minuti di film corrispondano le tre-quattro ore di lavoro loro, e divertimento mio, di quella mattina.

Un minuto e mezzo, mi dicono. Forse due. O tre, dice Lorenzo, ma non ci crede neanche lui. Alla fine, risaliamo tutti sui pulmini e torniamo a mangiare nella civiltà. Claudio Santamaria da allora il greco di quella scena se l’è sicuramente dimenticato, ma noi no: di certo la giornata sul set de La guerra dei cafoni, con l’eterna lotta tra i sommersi e i salvati, tra il lavoro e il padrone, ce la ricorderemo bene.

 

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