Stampa questa pagina
Mercoledì, 12 Aprile 2017 19:05

“Abbiammo lasciato una Storia”. Autobiografia e racconto in Vincenzo Rabito

Scritto da Chiara Briganti
Vincenzo Rabito Vincenzo Rabito

Nonostante la maggiore attenzione sia stata catalizzata dalla veste linguistica, non si è tardato a riconoscere al lavoro di Vincenzo Rabito[1] anche un notevole valore stilistico, data l’indubbia letterarietà delle soluzioni narrative adoperate e dell’assetto complessivo dell’opera.

Generale è l’accordo[2] sui modelli di riferimento, anche per gli accenni[3] che lo stesso Rabito fa alle proprie (sparute e accidentate) frequentazioni letterarie e culturali, ossia l’Opera dei Pupi, le avventure del Guerrin Meschino e il Conte di Montecristo.

In questa sede, pertanto, partendo dal dato ormai acquisito di una forte dipendenza da questi modelli, si cercherà di dimostrare che l’attitudine narrativa di Rabito non si esplica tanto nel momento esecutorio (orale o scritto che sia) ma coinvolge e informa i processi della costruzione identitaria, sia nei termini di rielaborazione del vissuto che di legittimazione di sé all’interno della comunità. Si vuole altresì ridiscutere il grado di influenza della dizione orale nella fase della fissazione scritta, provando a ridimensionarlo, e mettere in risalto, di contro, una considerevole progettualità e abilità di declinazione dei mezzi espressivi.

Nell’attitudine al racconto di Rabito è possibile individuare due traiettorie convergenti, quella della ristrutturazione dell’esperienza privata e quella della riorganizzazione dell’esperienza comunitaria, entrambe tese a confermare la presenza del soggetto a sé e nella comunità d’appartenenza; si potrebbe dire, anzi, che Rabito si avverte realmente integrato solo quando può farsi narratore di e nel gruppo di riferimento, sia esso la famiglia, il popolo minuto e, come vedremo, il pubblico virtuale per il quale decide di mettersi a scrivere.

Come ha ben rilevato Evelina Santangelo[4], è evidente che ogni sforzo di Rabito, attraverso le avversità, sia stato profuso allo scopo di <possedere o farsi una casa […] realizzata con le proprie mani, il proprio talento, la propria irriducibilità> e come per “casa” si debba intendere un qualsiasi luogo ospitale, fisico o metaforico, che si presti ad un’abitabilità, permetta una sosta (anche emotiva) e dunque la riorganizzazione espressiva del vissuto pregresso.

Le tappe fondamentali della formazione di Rabito seguono uno schema ricorrente: il viaggio, o comunque l’allontanamento da casa; la necessità di affrontare delle prove e la conseguente acquisizione di una competenza (specialmente linguistica: in ogni esperienza Rabito guadagna a sé la complicità degli altri proponendosi come affabile conversatore); la conquista di un oggetto simbolo di avanzamento (la falce per mietere, il manuale per imparare a guidare il trattore, il certificato di licenza elementare, ecc.); un evento fortuito positivo; infine, sempre, un rovescio di sorte a ristabilire la condizione di generale mediocrità; il ritorno e il racconto.

Ed è proprio l’occasione del racconto dopo il viaggio a seguire un rituale codificato. Rappresenta un momento di festa (e si intenda festa in un’accezione antropologica, di interruzione del quotidiano), un’ansa temporale che esula dal consueto trascorrere cronologico e diventa laboratorio comunitario di elaborazione dell’esperienza, in cui costruire una narrazione che fonde insieme la fonte sociale e la fonte privata della memoria. Difatti, è questo il momento in cui la memoria si struttura: la selezione dei dati esperienziali che meritano la promozione a episodi di interesse collettivo avviene traslando gli elementi del vissuto del singolo in un codice sovrapersonale: quello, appunto, delle narrazioni condivise.

È in questo modo che gli eventi più traumatici trovano accoglimento e ragion d’essere nella storia collettiva e, di pari passo, anche i riti di passaggio e di crescita sono sanzionati e riconosciuti come prove d’accesso al mondo adulto. Per esempio, la prima esperienza lavorativa che Rabito dodicenne effettua lontano da casa (pagg. 8-13) ha uno scioglimento da romanzo d’avventura:

 

<Così io penzava alla fuca. […] Così, una notte, io fece finta di dormire, ma doppo che passareno 2 ore, mi alzo piano piano e escio della porta che c’era nella stalla dove noi usciammo con li bestie […] Mi sono vestito di coraggio […] escio fuore piano piano e parto a Dio e alla fortuna. […] Così finarmente ho passato il fiume, pacienza che ponte non ci n’era e dovette passare con tutte li scarpe […] Camminava come un desperato a passo di bersagliere.>

 

e si conclude, al solito, con il ricongiungimento al nucleo familiare, il pasto consumato insieme e il racconto dell’intera vicenda.

Allo stesso modo, le grandi narrazioni della Storia ufficiale e i relativi modelli ideologici e sociali convenzionali sono rosi dall’interno e dissolti nel fluire molto più composito e opaco dei fatti minimi; la storia sarà guardata dalla prospettiva di quella che converrà chiamare microstoria, le categorie generali del diritto, della fede politica, dei rapporti economici e della suddivisione sociale subiscono un prepotente ridimensionamento.

L’esposizione iperdettagliata degli orrori della Grande Guerra combattuta in trincea (che proprio perché tanto corredata di particolari minuti reca inequivocabilmente la marca di una lunga riproposizione orale) non serve solo a metabolizzarne la crudeltà, ma soprattutto a giustificare la violenza di cui i soldati, guidati da ordini impartiti dall’alto, dovettero macchiarsi:

 

<Impochi ciorne sparava e ammazzava come uno brecante, no io solo, ma erimo tutte li ragazze del 99, che avemmo revato piancento, perché avemmo il cuore di picole, ma, con questa carnifecina che ci ha stato, deventammo tutte macellaie di carne umana> (pag. 55)

 

<Tutte erimo redotte senza penziero, erimo tutte inreconoscibile, erimo tutte abandonate del monto> (ibidem)

 

<E penzava che erimo tutte povere descraziate, picole soldate che non dormemmo mai sopra il letto e sempre dormiammo fuore, e butate piede piede, e tutte strapate e tutte piene di fanco e piene di priucchie, e specialmente d’inverno, che faceva molto freddo, e tanta fame che avemmo.> (pag. 391)

 

Medesima matrice hanno gli affondi ironici contro la retorica bellicista, la pietà e comprensione che si tributano ai nemici sconfitti o ormai innocui, coi quali ci si trova accomunati nelle secche di un destino non scelto:

 

<Così, qualcuno magare moreva per la “crantezza della nostra Padria!”, che “la Padria ancora aveva bisogno di noie!”. E quinte, “se se moreva per la Padrie, non zi moreva! E che moreva per la Patria moreva di un bravo soldato”. Quinte, erino belle parole “morire di aroie”, ma erino parole che facevino compiare li coglione […]> (pag. 135)

 

<E io me ricordo che ci diceva: “Vannuzzu, hai raggione, ma quelle sono state comantate per fare la querra come fommo comantate noie!”> (pag. 97)

 

Come pure è sospeso ogni giudizio sulle scelte politiche compiute per necessità e <perché, per campare, bisogna di fare rofianate>. Rabito viene da una famiglia di tradizione socialista, ma non esita ad aderire formalmente alla fazione maggioritaria, sottoscrivendo dapprima una tessera fascista (dal momento che <quelle che non zi volevino fare fasciste si facevino prentere per forza mezzo litro di oglio di ricino>, pag. 162), poi brigando e raccogliendo voti, di volta in volta, per il sindaco socialista che gli ha assicurato <umposto>, e infine facendo campagna elettorale per entrambi i figli, uno militante della DC, l’altro del Msi.

A questo punto bisogna ribadire il ruolo di Rabito in rapporto alla collettività: egli aspira a farsene il narratore designato, tenendo a mente gli episodi portanti della storia recente e stilizzandoli in aneddoti, facendo della propria persona il punto di raccordo delle traiettorie biografiche dei suoi compagni di sorte, della loro mentalità, dei loro desideri e ragioni.

Si può dire, anzi, che la reale ammirazione di Rabito a contatto con le forme di rappresentazione del teatro e del racconto popolare sia suscitata non tanto, o non solo, dalle figure eroiche in cui potersi identificare[5], quanto dalla loro collocazione nell’ordito, dal loro gradiente di narrabilità.

Le sezioni artisticamente più felici sono proprio quelle che rievocano con intensità tragica alcuni momenti di condivisione e solitamente sono descrizioni ambientali particolarmente vivide:

 

<Mentre si vedevino li raggie del sole e si cominciava a fare ciorno. Che erimo state tutte come quelle antinate, che per raloggio conoscevino li stelle. E così erimo noi, perché avemmo fatto tante notte fuore. Perché noi erimo deventate tante boscaiole che vanno arrobare la ligna di notte. Solo che ora che se stava fanno ciorno si vedeva qualche aucidazzo, che potevino essere li cuorbe che volavino. Poi che a Roncegne querra non ci n’aveva stato, e per questo li armale volante c’erino, perché nei monte dove ci avevino stato bombardamente, io, in 18 mesi, non aveva visto una mosca volare> (pag. 117)

<E così io, alla notte, teneva questa cantela acesa e liggeva questo romanzo di Monte Cristo, e la notata pasava presto […] Così io con quella luce che ho fatto li altre ammalate, tante, si l’hanno fatta la stessa luce. E così, di notte, la nostra baracca, con tante botiglie di nafta adumate, pareva un cimitero nella ciornata dei morte.> (pag. 211)

 

Interessante poi è come spesso Rabito ami rappresentarsi o immaginarsi nei discorsi altrui, confermando l’idea per cui il senso d’appartenenza e d'integrazione richieda di poter essere oggetto di narrazione all’interno del gruppo:

 

<E certo che tutte quelle che mi conoscevino, che il paese è picolo, dicevino: “Chi era questo? Quello che nello olive ci avevino restato tante solde? Che era questo? Quello che aveva venuto di l’Africa che aveva tante solde? Chi era questo? Quello che aveva fatto un ricco matrimonio? Ecco che si trova con noi ed ave li stesse solde che avemmo noi…”> (pag. 247)

[Convince degli amici a raccontare di lui ogni sorta di nefandezza, al fine di incutere nella suocera il timore sufficiente a tenerla alla larga da casa sua]: <e queste amice miei si sono avvicenate […] e reprentenno il descorsso che gli avevo detto io, dicentoci: “Donna Anna, voi, con Vincenzo, fosse meglio che vi allontanassivo, perché quanto ci prentino li nervve, non arragiona. E voi ancora Donna Anna, non lo conoscite che cosa ene Vincenzo. Perché ave poco che lo conoscite, ma noi, che fecimo la querra inziemme, lo conosciemmo mieglio di voi. Vincenzo ene uno traditore. State atente!> (pag. 249)

 

Sullo stesso piano vanno viste le ricapitolazioni che Rabito tesse nella propria mente a conclusione di un ciclo di esperienze:

 

<E come era sopra la nave disse: “Addio Africa, doppo 33 mese di sacrafizie, di essere bruciate del sole e, nel principio, con poco acqua per bere. Sono sicuro che non ci potiammo vedere più. Avemmo stato immienzo alli animale, avemmo manciato pasta mogata e fracita […] E poi doppo 8 mese di lavoro, per forza certe cornute mi avevino arrimpatriare, che mi avevino fatto un raporto come ante fascista, perché ho detto la veretà […] Ma l’hanno schiacciata fracita la noce, che io mi ne sono antato nel covernature e, invece di antarece io, all’Etalia ci sono antate loro”> (pag. 218)

 

È opportuno a questo punto tentare di suffragare la seconda ipotesi che si vuole dimostrare in questo intervento, quella per cui la forma scritta costituisce l’entelechia espressiva di Rabito, come cioè sia l’approdo naturale e definitivo del suo apprendistato di narratore.

Tracciando una storia materiale delle tecniche comunicative di Rabito, in rapporto all’uditorio cui di volta in volta ha dovuto proporsi, si nota come abbia costantemente teso ad appropriarsi di quelle competenze che gli garantissero un ruolo preminente rispetto ai pari. Alcuni esempi, che non possono essere che cursori:

 

<Così io, quanto vedeva il libro di mia sorella che antava alla scuola, mi veneva la voglia di cominciare a fare “a, i, u” […] E così, piano piano, senza essere prodetto di nesuno, fra poche mese mi sono imparato a capire cosa col dire la scuola e conoscire li numira. E così leceva il ciornale e così cominciaie a capire quante soldate morevino nella querra, che più va, più aspra si faceva la querra> (pag. 15)

 

<Che queste lettere che mi mantava Francesca li faceva leggere a tante dei borchese di Gurizia […] e nel medesimo tempo prese tante belle amicizie con tante, e magare mi n’antava imparanto qualche cosa io, di slavenno.> (pag. 131)

 

<Mentre se sapeva parlare tedesco avesse fatto persino l’interprete e non avesse lavorato, ma secome, per mia sfortuna, non sapeva parlare neanche l’italiano […] E così disse tra me: “Se io resto assai allavorare inziemme con i tedesche e non muoro, alla fine della querra tanto devo fare che  mi devo imparare apparlare tedesco” […] Così io e mio fratello Paolo cercammo sempre di lavorare con i tedesche e camminare con i tedesche e comperarene un libro che era di linqua tidesca e di linqua italiana: però il primo volume, che era come quello delle picciridde della prima elimentare, che spiegava magare la prinonzia> (pag. 253)

 

<Così, quanto c’erino li allarme, ci n’antiammo dentra il recovero; lì ci sidiammo e tutta la notte io il mio piacere era questo: di contare tutte li cose che mi avevino incontrato in vita mia. E tutte li minciate che io sapeva, alla notte li raccontava. […] Lì dentra non pareva che era tempo di querra, ma pareva che c’era il teatro, perché si redeva sempre> (pag. 282)

 

<Io alla sera antava a Chiaramonte e senteva la radio e sapeva tutte li notizie. E amme tutte mi volevino bene propia per questo, che tutte li notizie li sapeva io. E tutte li massare di quei luoche quello che diceva io era tutto perfetto. Poi passava Mauciere con il camio, che vineva di Catania, e magare mi faceva portare il ciornale. E quinte io a tutte ci aveva dato prova di essere uno di quelle spertte. Così la vita mia, di ciorno e ciorno, antava miglioranto> (pag. 312)

 

Ecco dunque che il reale processo metabletico del Nostro avviene all’interno della lingua, questa sì unica vera “casa” la cui abitabilità si può solo perfezionare e incrementare.

La narrazione di sé, infatti, deve mutare man mano che il pubblico, e il relativo orizzonte d’attesa, cambiano; quando il passato smette di essere prossimo, ed è ai figli e alla famiglia che deve dimostrare chi è, ma soprattutto chi è stato Vincenzo Rabito, dalla trama inizia a rilevarsi il Rabito personaggio, che si connota di tutti i particolari e gli attributi che mettono al riparo la sua figura dalla spersonalizzazione e dall’appiattimento. Infatti, il Rabito personaggio è sì portatore dei valori di una comunità e colui che ne ha condiviso le sorti,  ma allo stesso tempo vive un’epopea personale caratterizzata da una malasorte irremeabile, da un ingegno non comune (infatti, riesce sempre a cavarsi d’impaccio grazie a una <buona penzata> e ad un atteggiamento <mastrise>, (furbo), dall’avvicendarsi di brevi momenti di gloria e dagli inevitabili ritorni alla mediocrità del quotidiano, perseguitato dallo stigma del nome proprio e dell’identità circoscritta:

 

<Così, mi socideva come la tartaruca, che stava arrevanto al traquardo e all’ultimo scalone cascavo> (pag. 156)

 

<Ma forse il Padre Eterno si avesse creduto che la mia razza avesse preso parte ammetterlo nella croce e per ventecarese non sapeva come ventecarese e si ha ventecato propia di questo Vincenzo Rabito, poveretto, che pene ni aveva visto più assaie del Mischino; e quanto uno nascie per bestimiare, bastimierà per tutta la sua vita…> (pag. 224)

 

Il passato è il suo capolavoro, e su questo sfondo Rabito incrementa sino al parossismo la tipizzazione dei ruoli, assegnando a se stesso il ruolo di bersaglio prescelto di un fato e di una Storia eternamente antagonisti.

Ma è col progressivo venir meno del gruppo d’appartenenza che il mezzo espressivo deve di nuovo, necessariamente, mutare. La famiglia va assottigliandosi, i figli non solo non avvertono il bisogno di un nucleo coeso, ma sono spinti da una forza centrifuga: cercano di andare a studiare in una sede quanto più lontana possibile (< Che razza di ebica ene questa, che i miei figlie non ci piace neanche Catania per studiare e io non potte antare neanche a Chiaramonte alla scuola!> pag.382) e il figlio minore, Giovanni, sceglie addirittura di vivere in una <rollotta>, tanto teme e rifugge la stabilità.

La narrazione di sé, dunque, per poter continuare ad assolvere ad una funzione fàtica, di mantenimento e attestazione della presenza, deve trovare un uditorio disposto all’ascolto, se non nell’immediato, quantomeno nel futuro. Ed è a questo punto che Vincenzo Rabito diventa scrittore, più che conscio delle proprie possibilità espressive, tanto da sapersi fare editore di se stesso[6], ritornando più volte sul proprio manoscritto (l’originale era intitolato Fontanazza ) e sottoponendolo a una doppia stesura.

Come un vero scrittore che non conosce direttamente il proprio pubblico, ma ne avverte le aspettative, sa che l’unico legame etico che può sottoscrivere a difesa delle proprie parole è un patto autobiografico con i lettori; è per questo che in più luoghi del manoscritto Rabito si preoccupa di sottolineare che tutto quello che racconta gli è realmente accaduto:

 

<uno è questo Rabito Vincenzo, che, per raccontare queste fatte, quello che scrivo non sono bucie, ma sono fatte vere.> (pag. 77)

 

<E io tuttu quello che scrivo, magare che si capisce poco, è tutta veretà, perché ci ho tante e tante prove.> (pag. 347)

 

Altra spia fondamentale che testimonia che Terra matta non può essere rubricato nella semplice memorialistica popolare né in nessun modo essere accostato al genere delle scritture private è che il canale comunicativo con l’esterno non subisce mai una devoluzione. Rabito fornisce sempre la chiave dei suoi riferimenti e non si ripiega mai su se stesso a riflettere, semmai si preoccupa di giustificare quanto pensa che possa essere oggetto di giudizio da parte degli altri. Allo stesso modo, sottolineare la natura magmatica e indomabile del racconto rischia di oscurare la traiettoria che pure si riscontra e che sottende all’intero progetto scrittorio di Rabito: dimostrare che, nel ciclo incorreggibile della malasorte, egli ha saputo ogni volta distinguersi. A tal proposito, probabilmente, non è sbagliato rilevare, a livello delle microstrutture, una regolare e costante avversativa forte che va ad interrompere una serie di eventi affastellati paratatticamente, e costituisce il vero punto di raccordo della sintassi del libro.

Gli anni che vanno dal 1968 al 1975 sono con ogni probabilità quelli che Rabito dedica alla scrittura, battendo con la Lettera22, nella solitudine delle prime ore pomeridiane, le 1027 <pacene> del suo libro.

Una battaglia comunicativa in cui la voce cede definitivamente il posto agli echi della memoria.

Avendo tentato qui di dimostrare che essa costituisce l’approdo finale di un esercizio iniziato praticamente nell’infanzia, ci sembra che la più compiuta sintesi dell’opera di Vincenzo Rabito sia incisa sulla lapide che sormonta la sua sepoltura, nel cimitero di Chiaramonte Gulfi:

 

Rabito Vincenzo

31/03/1899 – 18/02/1981

Scrittore.

 

 

 

 

 

 

[1] V. Rabito, Terra matta, Einaudi, Torino, 2007.

[2] Si veda l’intervista di Enzo Fragapane alla curatrice dell’opera per l’edizione Einaudi 2007, consultabile al sito: http://diacritica.it/storia-dell-editoria/terra-matta-di-vincenzo-rabito-unintervista-a-evelina-santangelo.html; l’intervista filmata a Natalia Cangi, direttrice organizzativa dell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, https://www.youtube.com/watch?v=QYA14eSHekE ; e anche il ricordo del figlio di Rabito, Giovanni, sempre raccolto da Enzo Fragapane e consultabile presso http://diacritica.it/storia-dell-editoria/intervista-a-giovanni-rabito.html : “Io e i miei fratelli, per farti un esempio, fin da piccoli abbiamo conosciuto i personaggi del Conte di Montecristo, pur non avendo mai avuto il libro di Dumas in casa, perché mio padre, che lo aveva letto in Africa, ce lo raccontava continuamente. L’abate Faria o Cataurasso, come chiamava lui il sarto Caderousse, per me sono rimaste tra le figure archetipiche della narrativa universale!”

[3] Si vedano le pagg. 154; 181; 218 di Terra matta, Einaudi, 2007 (d’ora in poi si farà sempre riferimento a questa edizione).

[4] Si fa sempre riferimento all’intervista curata da E. Fragapane per Diacritica.

[5] Cosa che peraltro avviene, ovviamente, nel momento in cui Rabito si narra come personaggio. A tal proposito si veda S. Bonanzinga, Le forme del racconto. I generi narrativi di tradizione orale in Sicilia,in AA.VV. I sentieri dei narratori, a cura di R.Giambrone, Associazione Figli d’arte Cuticchio, Palermo 2004, che sottolinea come <L’andamento ciclico, la struttura “agonistica” del racconto e la forte caratterizzazione dei personaggi consentivano al pubblico –esclusivamente maschile- un altissimo grado di immedesimazione>.

[6] Si veda sempre l’intervista di Fragapane a Giovanni Rabito: <Nella seconda versione, invece, si è già scoperto scrittore. Ama scrivere e raccontare, e quindi cerca a modo suo di “romanzare” un poco di più la propria vita, aggiungendo dettagli o modificando addirittura dei fatti: tutto allo scopo di intrattenere o divertire un eventuale lettore. «Quel bugiardo innocente», insomma, di cui si parla in Mimesis di Auerbach a proposito di Omero, «che mente per dar piacere e con la sua vita saporosa e colorita allieta il lettore e ne cattura la simpatia». Un vero scrittore, per concludere, che arricchisce l’esperienza con i ricami e le giravolte tipiche del romanzesco. Un romanzesco, in questo caso, del tutto picaresco e primitivo, “cantastoriesco” e teatrale, infarcito dei sentimenti di base del popolo siciliano, quali la gelosia, la vendetta, l’invidia, l’odio per il sopruso dei potenti, ma anche la generosità e la solidarietà, la “fratanza”, la “comparata”, l’abbraccio col compaesano>

Articoli correlati (da tag)