Stampa questa pagina
Martedì, 28 Febbraio 2017 13:08

Un pensiero meridiano e illuminista. Su Carlo Levi e la sua idea di Sud

Scritto da Filippo La Porta

Levi e Pasolini

Su un punto Carlo Levi e Pasolini – che si conoscevano e amavano molto – si trovano perfettamente in sintonia. Per loro il mondo che si presume arretrato, o arcaico, o appena sfiorato dalla modernità, non è un mondo da redimere, da correggere, ma contiene una sua verità preziosa, che getta un dubbio su qualsiasi magnifica sorte progressiva. Il sottoproletariato delle borgate romane contiene, accanto al degrado obiettivo, una “alterità” che mette in discussione tutti i valori dell’allora boom industriale e modernizzazione (imperfetta) del nostro paese. E così la Lucania significa per Carlo Levi, intellettuale ebreo torinese di formazione illuministica, la civiltà contadina, che conosce nell’esperienza concreta del confino e non in qualche libro di storia o di antropologia. E, in ciò più radicale dell’etnologo napoletano Ernesto de Martino (che scrivendo nel ’48 il Mondo magico ne venne influenzato), scorgeva nella civiltà lucana – arcaica, preistorica, magica, fiabesca – non solo e non tanto un mondo da emancipare, da restituire al progresso quanto un modello alternativo di civiltà, e cioè una alternativa all’homo oeconomicus della civiltà borghese, urbano-industriale, al culto della Storia. Il punto è che questa alterità esprime una critica radicale alla nostra idea di  progresso. Colgo l’occasione per sottolineare l’assoluto rilievo di Carlo Levi nella cultura italiana  della seconda metà del ‘900, non abbastanza studiato. Soltanto due nomi: Calvino e il già citato Pasolini. Il primo dialogherà incessantemente con Levi, da un  rispettoso ma severo intervento del ’46 in cui, quasi da “custode” dell’ideologia, ne stigmatizza la “cultura irrazionalista mistico-barbarica” ad una recensione del ’79 a Quaderni a cancelli, in cui  rievoca con ammirazione una pagina sulle lumache e sui diversi punti di vista degli animali, certo non estranea allo spirito di  Palomar. Riguardo invece a Pasolini basterebbe leggere la recensione ad una mostra mantovana del 1975, in cui l’autore di Ragazzi di vita  parla della affascinante drammaticità dei quadri di Levi, data dal fatto che in essi non tutto si risolve in “pura pittura”.  

 

Per una modernità che non cancelli il passato

Ma torniamo alla scoperta leviana di una alterità antropologica. Può darsi che il sottoproletariato di Pasolini e la Lucania di Levi siano solo dei miti (proprio Pasolini negli ultimissimi tempi volle ricredersi, almeno in parte), ma certamente quei miti hanno un fondamento nella esperienza personale dei due autori. Levi, più di de Martino ma anche di Cesare Pavese, si immerge nella realtà  di quei paesi e si espone interamente al contagio perturbante di quella cultura. Per lui è impensabile una modernità che non sia fatta anche dei valori della civiltà contadina, di quella particolarissima visione della vita e della morte. In ciò, mi pare, anticipa non solo le pagine che Levi Strauss  scriverà dieci anni dopo sui Tristi tropici, ma anche le analisi più recenti di economisti come Serge Latouche, che si pongono il problema di “sopravvivere allo sviluppo”. Proprio l’economista francese osserva che gli allevatori di bestiame del Burkina Faso, che producono la carne migliore del mondo, hanno rifiutato la proposta fatta da tecnici occidentali di ampliare l’allevamento in funzione della crescita della domanda mondiale. La loro motivazione è stata: “Che ci dobbiamo fare con tutti quei soldi?”. Una risposta che avrebbero potuto dare, in condizioni analoghe, anche gli abitanti di Aliano. Qualche tempo fa si è poi soffermata su alcune pagine leviane anche  la  grande scrittrice indiana Anita Desai. In particolare su un bozzetto del 1955 che rievoca l’incontro con la madre di Salvatore Carnevale, il sindacalista ucciso dalla mafia. La Desai è colpita da come Levi connetta la tragedia della donna agli spettacoli dei pupi siciliani, la sua stessa figura in lutto a Santa Barbara, “santa tellurica ed etnea”, e da come abbia celebrato in tutta la sua opera e biografia (quadri, libri, militanza politica) lo “spirito ellenistico” del Sud, che si esprime come comprensione della “bellezza della vita come opera d’arte”. La civiltà contadina italiana, di cui Matera era la capitale simbolica, con  il suo patrimonio di credenze, favole, leggende, miti, ballate, con le sue streghe e i suoi monachicchi, con la sua miseria e arretratezza ma anche con il suo “senso elementare di giustizia” (che può sfociare nel brigantaggio), con il suo “senso naturale del diritto”, con la sua percezione della misteriosa duplicità di ogni cosa (“tutti i santi sono demoni” dirà allo scrittore, appena arrivato a Matera, un vecchio contadino con il mantello nero e i grandi baffi bianchi) è scomparsa per sempre, ridotta tutt’al più a folklore, a memoria inerte e pittoresca. Se ne possono ritrovare alcune tracce ad altre e più esotiche latitudini, e proprio nell’India di Anita Desai.  Eppure i quadri di Levi ci ricordano, tra l’altro, che ne abbiamo ancora bisogno, che quella celebrazione antica e umile della “bellezza” della vita non può essere esclusa dal nostro  civilissimo, tecnologico orizzonte. La “lezione” di Levi, studiata nelle scuole, citata in ogni discorso sul Sud o  sulla cultura contadina, variamente celebrata nel nostro paese, rischia un eccesso di monumentalizzazione. E resta così totalmente inerte.

 

Azionismo libertario e no-global

Eppure si tratta di una “lezione” ancora vibrante e dal carattere spesso profetico. Ricordo come nel 1958, quindici anni prima del celebre “scritto corsaro” di Pasolini sulla scomparsa delle lucciole, Carlo Levi scrive uno splendido articolo sulla scomparsa delle mosche – “ricordi dell’infanzia del mondo” – sterminate dal neocapitalismo e dal socialismo, ruderi di tempi anteriori al diluvio: “si sono rifugiate, insieme alle malattie di altri secoli, nei paesi sottosviluppati, in certe parti del Sud e dell’Oriente”. Nel mondo borghese senza mosche i bambini, divenuti subito adulti, non distinguono più tra il gioco e una “realtà precoce, non assimilata”. Non credo sia una forzatura accostare il suo pensiero “azionista” alle riflessioni più radicali del movimento no-global, soprattutto in relazione  all’idea di “autonomia” (che significa nella sua accezione autogoverno). Da un parte la sua è una critica – anticipata – a modi e ai contenuti di questa globalizzazione, priva di regole (cioè di politica), del tutto subordinata all’economia e dall’altra è prefigurazione di una politica diversa,    che non coincide con quella di partiti e leader, e anzi la rifiuta, riaffermando la sua prossimità ad una concreta dimensione civica e a un impegno etico individuale. Si pensi a Naomi Klein, che, nel novembre 2002 a partire dall’esempio dei movimenti sociali che in America Latina hanno bloccato le privatizzazioni (“comunità di nonni e bambini e non solo la classe lavoratrice della retorica marxista”) valorizza la politica locale e l’esperienza concreta della democrazia partecipativa: in questa chiave l’azione politica viene definita come un’azione reale che avrà un effetto reale. Levi, intellettuale critico e mai del tutto “organico” (anche se ha militato nel Partito d’Azione e poi fu eletto indipendente di sinistra nelle fila del PCI), una volta ha parlato, molto propriamente, di una generazione che “ha vinto in sé il fascismo” (ricordiamoci di Giorgio Gaber: “Non mi preoccupa Berlusconi in sé ma Berlusconi in me...”). 

 

Farsi Sud

Insisto su un punto: secondo Levi i valori contadini (il comune rurale autonomo, la tradizione mitico-simbolica, la visione magica e millenarista, la “molteplicità fantasiosa del mondo popolare”, come scrisse Giovanni Russo) devono non solo essere conservati ma anche costituire un apporto  creativo alla modernità. Nel Quaderno a cancelli l’opposizione tra le due categorie metaforiche  Diabetici e Allergici (che integra la precedente, tra Luigini e Contadini, nel romanzo L’orologio), deve essere rimeditata. Chi salverà il mondo? Non gli Allergici, intolleranti, insofferenti verso qualsiasi alterità, inclini a immunizzare l’esistenza contro se stessa, ma i Diabetici, che si aprono  inermi, come Cristo, alla dolcezza del mondo, e che accettano la vita tutta intera, senza preclusioni e difese preventive. Levi è infinitamente distante da noi, ma è anche sorprendentemente vicino. Ha capito come il Sud – inteso come potente metafora di una modalità di esistenza, di una visione della vita e della morte – appartiene a ciascuno di noi. Il Sud non ha più confini precisi, non coincide più con latitudini definite. In una conferenza del 1950 a proposito dell’Orologio Levi scrive dell’ “altra civiltà” che gli è capitato di scoprire nel confino in Lucania, in quel mondo popolare subalterno: “Questo mondo non soltanto non ha dei confini così precisi, come il mitologico nome di Eboli starebbe a significare, non soltanto lo si ritrova vicino a noi in qualsiasi paese dove noi ci troviamo ad abitare, ma è dentro di noi, dentro a  ciascuno di noi, è un elemento della nostra stessa vita, della nostra persona, un elemento fondamentale non eliminabile” (in Un volto che ci somiglia).  Queste parole mi sembrano di una lucidità straordinaria e vanno perfino oltre la importante intuizione che ebbe Ignazio Silone di un immenso Sud del mondo che parla la stessa lingua (tanto che il suo  Fontamara poteva essere scambiato in Croazia per un una storia del folklore locale!). È vero, il Sud è anche una visione dell’esistenza, e probabilmente il personaggio del Chisciotte, celebrato in una statua di ferro nella strada principale dell’Avana, ne rappresenta l’incarnazione più fedele. Lo stesso Levi osservò una volta che “Cervantes è il grande poeta del mondo contadino, di un mondo di eroi e di braccianti, fuori della storia e del tempo” (Prima e dopo le parole). Però, seguendo proprio la suggestione di  Levi potremo ben dire che il Sud non coincide più con un’area del globo, con una geopolitica precisa. È migrante, come i suoi molti (e spesso disastrati) abitanti. A volte penso che oggi diventi molto più interessante chi "si fa" Sud (dovunque abiti, a qualunque latitudine appartenga), chi cioè sceglie consapevolmente una parte, chi procede verso una "periferia" (necessariamente mobile), verso l’Eboli immaginaria della sua esperienza, chi insomma intende rimeditare tutte le possibilità liquidate troppo in fretta dalla modernità vincente. E poi Levi, quasi irretito da quel mondo popolare e magico (“una felicità immensa, non mai provata, era in me...”) non si fa illusioni sulla pacifica, armoniosa coesistenza di civiltà così diverse. Il Sud arcaico  risveglia in lui, torinese e gobettiano di formazione laico-razionalista, una nostalgia del mito, del sacro, di tutto ciò che appunto la razionalità strumentale dell’Occidente ha voluto rimuovere o ignorare. Alla fine degli anni ’50 intende ribadire che la “civiltà contadina” – assunta sia nella sua verità storica che come mito poetico – non è limitata nel tempo e anzi costituisce un momento – un ricordo – insopprimibile nella “civiltà della ragione e della storia” (in Il volto che ci somiglia ). La sua Lucania assume confini ampi e sfumati e il suo Sud ci appare sempre più inquieto: ad esempio l’Irlanda potrebbe trovarsi più a Sud della Svizzera... Levi ci mostra infine come quella immensa tradizione, quella memoria di una civiltà quasi sepolta – con i suoi ritmi lenti, con il suo misto di fatalismo e millenarismo, con il suo senso di un tempo diverso da quello matematico e oggettivo scandito dall’orologio – può ancora parlare a noi e alle generazioni future.

 

Il pensiero meridiano rivisitato

Certo, la cultura il mito del Sud implicano anche una zona grigia, o comunque più problematica. Pensiamo alla nascita del cosiddetto “pensiero meridiano”, alla metà degli anni ’90 – sulla scia di una pagina del Camus dell’ Uomo in rivolta – ovvero la proposta di una forma di civiltà mediterranea come antidoto al nichilismo dell’uomo occidentale (da Franco Cassano a Mario Alcaro e a Piero Bevilacqua). Giusto recuperare identità e saperi locali, ma in quel pensiero meridiano c’era anche un elemento estetizzante, che semplicemente rovesciava alcuni stereotipi sul meridione e i meridionali, mettendovi un segno positivo. Tanto che Cassano, nel più recente Tre modi di vedere il Sud, compie una parziale autocritica. La modernità infatti non gli appare più solo come razionalità astratta e macchina distruttiva ma anche “un’idea di fraternità più larga di quella della comunità”, e che soprattutto contenga al suo centro l’individuo. In Levi è sempre molto forte l’adesione ad un ideale di “individuo” (vedi il saggio su Sterne e sull’invenzione dell’io), che in seguito si travaserà in una politica azionista di tipo libertario, a ben vedere più eversiva di quella comunista dell’epoca, come pure una volta volle riconoscergli il comunista Aldo Natoli. In un certo senso lo scrittore incarna una sinistra insieme gobettiana (moralista) e “stendhaliana” (il mito dell’energia vitale e intellettuale), laica (penso a un suo commosso omaggio a Spallanzani e alla scienza settecentesca) e attratta dal sacro, venata di moderna inquietudine e innamorata di una “totalità” quasi panteistica.

 

Uno sguardo poetico sulle cose

E poi Levi ha insistito spesso sui limiti della letteratura stessa, della parola letteraria, che continuamente si sforza di nominare le cose, consapevole però che prima del linguaggio si schiude   un mondo sommerso, buio, che non potrà mai diventare del tutto trasparente. Quanta parte della realtà sfugge alle parole, al nostro linguaggio: il sottoproletariato cui ha dato voce il cinema di Pasolini, la civiltà immobile del Sud (o quella del Terzo Mondo), il residuo arcaico e magico di qualsiasi modernità possibile, “l’oscuro fondo vitale di ciascuno di noi”... Cose che possiamo esprimere forse solo in forma poetica. Ecco, Levi ci appare come un saggista quasi di tipo classico ma con uno sguardo luminosamente poetico sulla realtà, uno sguardo che – come  leggiamo in un suo scritto degli anni ’50 – possiedono tutte quelle persone da lui incontrate nella vita “che avevano delle cose vere dentro di sé”.

 

 

[Questo articolo è stato pubblicato in “Achab, scritture solide in transito”, volume 7, Il racconto del Sud, ed. Ad est dell'equatore, 2017]

Articoli correlati (da tag)