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«Dentro i ferocissimi mali del mondo». Sulla poesia di Andrea Inglese – Parte II

Scritto da Fabio Moliterni

La distrazione[1] è da considerarsi il secondo libro compiuto di Inglese, frutto di una ricerca avviata con la raccolta Inventari (2001), e proseguita con alcune plaquette che qui si offrono in una sistemazione inedita, a disegnare il diagramma di una scrittura che, tra versi prose traduzioni e saggistica, rappresenta uno dei riferimenti più significativi e meritevoli di attenzione nel panorama letterario contemporaneo.
La poesia di Inglese dialoga produttivamente, nel suo stesso farsi, con gli orizzonti fondanti della tradizione lirica moderna, collocando al centro delle ragioni dell’espressione poetica l’interrogazione sui nessi (o le lacerazioni) che tengono insieme la memoria e gli oggetti dell’esperienza, la narrabilità e la costruzione biografica dell’io, la consistenza del soggetto e la dimensione collettiva del reale. E la peculiare angolatura formale che assume il suo linguaggio in versi – sospeso tra liricità tagliente e plasticità antiretorica – suggerisce da subito di collocare questa esperienza di scrittura nel novero delle pratiche letterarie che ancora scommettono sul valore conoscitivo del discorso poetico, nell’attestarsi proprio sul terreno insidioso del lirismo (delle possibilità di espressione individuale attraverso il codice poetico). Da qui, la (auto)rappresentazione di un io mobile e «concavo», «poroso» e mutabile: si tratta di un soggetto implicato negli ingranaggi «meccanici» di uno spazio e di un tempo senza scampo («[il] regno / tetro della necessità», p. 14); coinvolto nella macchina massificata della violenza del reale («il mio inconfondibile tocco / nella macelleria del mondo», p. 16), eppure vitale e prensile, ostinato indagatore di «angoli» e margini, i varchi e le ombre che circondano le relazioni quotidiane e gli oggetti consueti.
All’interno di quelle coordinate intercorrelate, veri e propri cardini statici variamente modulati, che disegnano lo spettro dell’inchiesta in versi – l’attenzione per gli oggetti (infra)ordinari e il rovello conoscitivo che ne consegue; un fortiniano senso di responsabilità nei confronti dell’esperienza biografica e verso il «vissuto di tutti i viventi» –, agisce insomma un’energia del pensiero che non cede ad alcuna valorizzazione del negativo né all’«invasione» dell’io (disidentificato o sconfitto). È una forza, piuttosto, che ricorda da vicino quella «sorpresa» di cui parlava Giovanni Raboni, in un saggio del 1963, nell’indicare, per il farsi della scrittura poetica, la direzione vitale di un «rapporto in vista con gli oggetti colpiti dall’esperienza del poeta e con i diversi strati della sua biografia».
Il dato negativo della cognizione del reale s’incastona nello spessore riflessivo o icastico del discorso, di stampo quasi montaliano o comunque «modernista» («Da sempre dentro un’antica meccanica / che non dà tregua e colma il tempo», p. 59; «la necessità è più forte di tutto / il sapere», p. 15); si palesa nelle chiuse gelide e impietose (tra Cattafi e Fortini), così come nella nervosa 3 attitudine all’enumerazione (gli inventari) di eventi gremiti, nell’attestazione della loro sostanziale estraneità. Allo stesso tempo, quella mancanza di familiarità con il reale può tramutarsi in una pietà fraterna, soprattutto quando indica la strada residua di un approccio etico (o politico, civile) dello sguardo sul mondo.
Qui Inglese riprende le riflessioni (il metodo) di Georges Perec, ma complica quella attitudine fenomenologica in direzione di una partecipazione integrale del soggetto al destino dell’esistente: «La mia “sociologia” della quotidianità non è un’analisi ma soltanto un tentativo di descrizione e, più precisamente, descrizione di ciò che non si guarda mai perché vi si è, o si crede di esservi, troppo abituati e per il quale non esiste abitualmente discorso […]. Si tratta di un decondizionamento: tentare di cogliere non ciò che i discorsi ufficiali (istituzionali) chiamano l’evento, l’importante, ma ciò che è al di sotto, l’infraordinario, il rumore di fondo che costituisce ogni istante della nostra quotidianità» (G. Perec, Conversazione con Jean-Marie Le Sidaner, 1979). Senza nessuna tensione metafisica e identitaria, la ricerca in re di Inglese si orienta nel ricavare, di quel montaliano scialo di eventi, la vita seconda fatta di «varchi», «fondi» e «fondali», «margini» e «vuoti»: «il lato interno / di quello che fuori è pura traccia, / puro ritardo, // perdita, // documento. Anagrafe» (p. 10).
S’intende che in questa radicale mobilità dello sguardo, come verifica delle potenzialità conoscitive affidate al linguaggio lirico, sono coinvolti tanto quelli che l’autore ha definito altrove i «relitti della Storia» (i «vinti», gli oppressi calpestati dall’indifferenza generale), quanto le «ferite della psiche», le scosse del vissuto biografico che infieriscono sullo statuto del soggetto – fino a percorrere la strada impervia di una peculiare poesia erotica, nello scandagliare limiti e margini del rapporto tra corpo e linguaggio e della sua significatività. L’attitudine conoscitiva della sua poesia, insomma, è di natura etica e comunitaria nella misura in cui tenta di restituire in versi le tracce dell’esperienza, di figure anonime e di relazioni difficoltose («dentro i ferocissimi mali / del mondo», p. 102), poste fraternamente sullo stesso piano di una perimetrazione del «quasi organico» e dell’inorganico – il regno senza luce della natura e degli animali, le pietre e i «viventi»; la metropoli «assiepante» così come i dettagli invisibili, preesistenti allo sguardo:

 

Vedi che la pietra

apparente del reale, la città nostra

filmata, contiene una segreta lotta

di viventi, fatiche per stringere l’entrata

della luce, ferimenti per aprire (p. 48).

 

È dunque una spinta escatologica, sofferta e problematica, che sorregge questo impegno conoscitivo. L’allegorismo della poesia di Inglese emerge nitidamente nei momenti in cui l’apertura ad una dimensione incerta (utopica) si accompagna e anzi si intreccia con la rappresentazione del «crollo», della «ferita» o del «ferimento» che è necessario attraversare per stringere insieme la promessa di futuro:

 

Riconosceremo la fratellanza di un unico

errore. D’abitudine, nei giorni

di felice presente,

si piange divisi, in abitacoli

bui o dietro porte

di pubblici bagni,

schivandosi sempre. Ma nel crollo,

prime a piegarsi come carta

sono le paratie, le mura

divisorie (pp. 103-104).

 

Per concludere, come annotazione in fieri che vale solo in quanto registrazione provvisoria di un possibile sviluppo della sua poesia, si vuole sottolineare il dato di una maggiore mobilità formale rispetto alle precedenti raccolte, che testimonia, anche sul piano strutturale e sintattico, della vitalità di questa scrittura. Ad esempio, con l’assorbire la tendenza all’accumulo e all’elenco dei realia, vera e propria cifra stilistica del linguaggio di Inglese (con la conseguente e a tratti parossistica disposizione paratattica, asindetica), nella distensione narrativa e dialogica di certi passaggi. Sono parabole o frammenti di senso che sfuggono ai rischi de-realizzanti del «catalogo», riportando la tecnica dell’enumerazione alla sua funzione profondamente etica ed ermeneutica. Come voleva Perec:

In ogni enumerazione ci sono due tentazioni contraddittorie: la prima è quella di censire tutto, la seconda di dimenticare comunque qualcosa; la prima vorrebbe chiudere definitivamente la questione, la seconda lasciarla aperta; tra l’esaustivo e l’incompiuto, l’enumerazione mi sembra che sia, prima di ogni pensiero (e prima di ogni classificazione), il segno indiscutibile di questo bisogno di nominare e riunire, senza il quale il mondo (“la vita”) rimarrebbe per tutti noi privo di “storia” (G. Perec, Pensare/Classificare, 1985).

 

[1] Roma, Luca Sossella, 2008 (si indicherà solo il numero di pagina tra parentesi).


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Questo articolo è stato pubblicato in: Fabio Moliterni, Il vero che è passato. Scrittori e storia nel Novecento italiano (Milella, Lecce, 2011).

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