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Martedì, 14 Febbraio 2017 16:08

“Andare per minuscole”: Primo Levi e il linguaggio

Scritto da Chiara Briganti

Tentare di isolare nell’opera di Primo Levi i momenti dedicati alla riflessione linguistica è impresa disagevole e destinata ad una realizzazione mutila, o quantomeno incerta. Difatti bisognerebbe operare una scelta di metodo, decidendo se privilegiare le circoscritte ma disseminate digressioni etimologiche o più genericamente filologiche, o esaminare, in un’ottica più larga, i fenomeni micro e macrostrutturali che rientrano nel dominio del linguaggio inteso nell’accezione più ampia e traversale di complesso di segni e simboli.
In questa sede si intende rilevare come per Levi il linguaggio riproduca i moduli d’acquisizione dell’esperienza (nei termini di tracciabilità, capitalizzazione e riconversione) e come il linguaggio si determini a sua volta come esperienza paritaria e comunitaria.

 

Nella tesi di laurea discussa il 12 giugno del 1941, Primo Levi prende in esame il fenomeno dell’inversione di Walden (o chiralità) che aveva messo in crisi le indagini della stereochimica (quel ramo della chimica cioè che studiava le molecole in quanto oggetto, dotato di una forma). Quelle indagini si erano rivelate “adatte a dedurre per via geometrica il numero dei possibili isomeri di determinati composti” ma non parevano più altrettanto utili “all’interpretazione di fenomeni dinamici […] per cui non si può escludere una perturbazione anche profonda dell’edificio molecolare”. La scoperta della chiralità mostrava che esistevano terne di molecole con la medesima struttura e proprietà, salvo una: quella riprodotta in sintesi in laboratorio non ruotava il piano della luce polarizzata, le altre due, presenti in natura, lo ruotavano uno a destra e uno a sinistra. Ciò significava che a un’infallibile struttura simmetrica creata in laboratorio non corrispondevano i modelli destrogiro e levogiro presenti in natura, a tutti gli effetti dei doppi asimmetrici[1].
Il tema della “vitale asimmetria”[2] da cogliere sperimentalmente accompagnerà sempre Levi, persuadendolo della necessità di diffidare dei modelli ragionativi deduttivi e sovraestesi, privilegiando un itinerario di pensiero teso a marcare i confini, a definire lo spazio d’estensione dell’esperienza, procedendo “per minuscole”, scegliendo cioè i referenti simbolici nel campo delle scienze pragmatiche, caratterizzate da rapporti su scala ridotta, rendicontabili a ogni passo.

 

Difatti, più che una generica vocazione all’esattezza, converrebbe rilevare in Levi una costante strategia di separazione, di eliminazione del similare-ma-non-identico, per dirla con Mengaldo, una serie di “manovr[e] d’accerchiamento di una sensazione difficile da catturare”, tese a “completare l’approssimazione a un concetto troppo lontano dalla comune esperienza”. Ed è in questo senso che vanno viste le terne aggettivali in cui la prima coppia costituisce una climax di senso affine e il terzo occorre, con stacco ossimorico, a correggere, a sporcare l’omogeneità di una descrizione che, pretendendo d’esser veridica, non può non accogliere le discromie di una realtà, appunto, asimmetrica.
Un altro meccanismo di inclusione della molteplicità è l’utilizzo del pastiche che inserisce nel tessuto al minimo grado di connotazione del “basso continuo” il lessico dei sottocodici specialistici che ha il fine di una descrizione ricca ed esatta, ma soprattutto va ad incrementare la rete simbolica che unisce, in un sistema  costante di inferenze, il mondo umano, quello animale e della materia organica e inorganica. Come ha ben rilevato Pellizzi[3], per Levi la chimica è una scienza semiologica, il suo codice si presta a ricalcare le relazioni di altri sistemi complessi e, per converso, in un contesto di fenomenologia sovrapponibile, può essere riconvertita negli altri codici. È un meccanismo di costruzione del senso che, come ha individuato Cases[4], ha le radici in una concezione ilozoistica del reale e che si manifesta attraverso similitudini e metafore in cui l’elemento chimico, animale o cosmico si scambiano di volta in volta reciprocamente il ruolo di comparante e comparato. Gli esempi sono davvero numerosissimi e non se ne possono citare se non di cursori:

 

Era un personaggio mirabilmente armato. Emanava intelligenza e astuzia come il radio emana energia: con la stessa silenziosa e penetrante continuità, senza sforzo, senza sosta, senza segni di esaurimento, in tutte le direzioni a un tempo.  (La tregua)

 

Del resto, è noto ai dotti che tutte le secrezioni sono nocive o tossiche: ora, in condizioni patologiche non è raro che la carta, secreto aziendale, venga riassorbita in misura eccessiva, e addormenti, paralizzi, o addirittura uccida l’organismo da cui è stata essudata. (Il sistema periodico)

 

Non è che l’acido cloridrico sia propriamente tossico: è uno di quei nemici franchi che ti vengono addosso gridando da lontano, e di cui quindi è facile guardarsi. (Il sistema periodico)

 

Come la matrona esemplare dell’antichità [la femmina dell’insetto] domum servavit, lanam fecit: visse in casa filando la lana; nel nostro caso, essudando resina. (L’altrui mestiere).

 

Anche la figurazione per immagini, dunque, è un induttivo resoconto esperienziale; d’altra parte Levi conosce i rischi dei ragionamenti geometrici e dell’abuso delle analogie e da buon antropologo per vocazione e traduttore di Lévi-Strauss, sa che spesso, lì dove parrebbe di poter tracciare rapporti di filiazione diretta, bisognerebbe piuttosto parlare di remota cuginanza con una paternità incerta: insomma, saltare delle tappe, seguire “vie traverse” e modelli troppo concilianti, può essere fuorviante (“Io gli ho detto, a conclusione che con le similitudini bisogna stare attenti, perché magari sono poetiche ma dimostrano poco […] Alla larga dalle analogie: hanno corrotto la medicina per millenni, e forse è colpa loro se oggi i sistemi pedagogici sono così numerosi… - La chiave a stella).
Illuminante a tal proposito è un capitolo dell’Altrui mestiere, Il pugno di Renzo: l’immagine di Renzo Tramaglino che, assediato dalla folla, corre col pugno stretto in aria, sembra un’“istantanea mal inventata”, una maldestra retrocessione dell’immaginazione, dacché questa e altre scene del romanzo “fanno pensare a un processo mentale indiretto, come se l’autore, di fronte a un atteggiamento del corpo umano, si sforzasse di costruirne una illustrazione nel gusto dell’epoca, e successivamente, nel testo scritto, cercasse di illustrare l’illustrazione stessa in luogo del dato visivo immediato”. Conseguentemente anche l’interpretazione del codice simbolico dei dati naturali non deve avvenire per comparazioni approssimative e dunque fuorvianti; si veda, sempre nell’Altrui mestiere, il capitolo Le più liete creature del mondo, in cui si discute del dubbio contenuto di gaiezza del canto degli uccelli, che non è (come azzardava, seppur in poesia, Leopardi) assimilabile al riso umano, ma va ascritto al più generico campo semantico delle demarcazioni territoriali e degli avvertimenti ai rivali. 

 

Del resto, parlare di esperienza, in termini linguistici, significa incontrare l’eziologia, dal momento che la ricostruzione di un etimo non è altro che il recupero degli stadi progressivi di formazione della semantica di un lemma, di un’espressione. E sarebbe superfluo andare a cercare nell’opera di Levi gli esempi migliori di questa sua autentica passione, che coinvolge i cognomi, i toponimi, i termini della chimica delle origini, quella “solitaria, inerme e appiedata”, la fraseologia e i modi di dire dialettali. Più consono ai fini del nostro discorso, invece, è l’accenno all’interesse di Levi (una vera e propria compiaciuta preferenza) per la paretimologia, che non è solo la contemplazione empatica del dotto per lo sforzo di comprensione da parte degli incolti, ma una reale ammirazione per la capacità di ricostruire un significato rimandandolo ai dati esperienziali dotati o depositari di senso:

 

Il forzato utente cerca inconsciamente di aggiustare [le parole che gli giungono nuove]: si comporta insomma come l’ostrica, che, inseminata con un granello di sabbia a spigoli aguzzi, non lo tollera e lo espelle, oppure lo rigira, lo cova, lo liscia, e a poco a poco ne fa una perla. (AM)

 

L’etimologia popolare testimonia di un’operazione combinatoria, svolta attingendo al sostrato comune degli elementi già noti. Ed infatti, la vera tensione creativa per Levi si misura non tanto in un trionfo di nominazione, sorto dal nulla, quanto nella ricombinazione sapiente e motivata di quanto già c’è e si conosce: è una capitalizzazione dell’esperienza[5]. A livello di microstrutture, del resto, la prosa leviana è ricca di prefissati, suffissati, risemantizzazioni, lemmi traslati da un sottocodice a un altro e dunque specializzati, grecismi costruiti per parodiare i tecnicismi pretenziosi, ecc. In quest’ottica andrà vista anche la predilezione accordata a Rabelais e Queneau, meritevoli d’aver potenziato al massimo grado i dispositivi d’inclusione del reale: il primo tenendosi lontano dallo “scrupolo geometrico” e rappresentando così l’umanità tutta, in quanto “cerca, pecca, gode e conosce”; il secondo, in grado di accogliere nella Cosmogonia la poesia insita “nel ranuncolo, nella luna in primavera, ma anche nei vulcani, nel Calcio e nella funzione fenolo”.[6]

 

Finora abbiamo analizzato i processi della comunicabilità dell’esperienza. Sarà ora opportuno prendere in considerazione lo stesso atto comunicativo come esperienza a sua volta incrementabile, capitalizzabile, riconvertibile, all’interno di uno scambio comunitario e paritario. Infatti, per Levi, la comunicazione è l’atto principale che testimonia dell’etica della condivisione: è patrimonio comune e, in quanto sistema convenzionale, trova nella comunità una certificazione d’autenticità. Si veda a titolo d’esempio l’episodio della Tregua in cui  Levi, giunto col Greco a Cracovia, intende informarsi sulla collocazione della mensa dei poveri e pone la domanda a un prete incontrato per via:

 

Ora quel prete […] non intendeva né il francese né il tedesco; di conseguenza, per la prima e unica volta nella mia carriera postscolastica, trassi frutto dagli anni di studi classici[7] intavolando in latino la più stravagante ed arruffata delle conversazioni. Dalla iniziale richiesta di informazioni (<Pater optime, ubi est mensa pauperorum?>) venimmo a parlare di tutto, dell’essere io ebreo, del Lager (<castra>? Meglio Lager, purtroppo inteso da chiunque) […]

 

“Castra”? Si chiede Levi. E non sta solo tentando di tradurre un concetto (e sarebbe, come in effetti si dimostra, poco utile: non esiste un referente nel mondo latino con caratteristiche accostabili a quelle del campo di concentramento), ma sta producendo un atto linguistico ibrido, quello che tecnicamente potrebbe definirsi un esempio di interlingua d’apprendimento: reminiscenze delle versioni scolastiche dal latino, persino nella forma degli inserti dalle formule religiose di confessione (quel “Pater optime”). Un altro stralcio, sempre dalla Tregua, mostra questa tendenza al quadrato, in un contesto in cui le capacità combinatorie in campo non sono solo quelle di Cesare, protagonista dell’episodio, ma anche quelle richieste al lettore. Durante la movimentata contrattazione del prezzo della camicia sdrucita che tenta di vendere, Cesare così parla al malcapitato cliente:

 

- […]Te me dài tanto così- (e gli disegnò 150 col dito sul ventre)- te me dai Sto Pingisciu, e io te la mollo sulla groppa. Va bene? Il panzone bofonchiava e faceva di no col capo […]

- E dài! Caccia ‘ste pignonze!- incalzò Cesare […] Le pignonze (il termine polacco, dall’ostica grafia ma dall’assonanza così curiosamente nostrana, affascinava Cesare e me) furono infine cacciate e la camicia mollata…

 

È un esempio di vero e proprio mistilinguismo ludico, con il gioco di parole basato sull’identica realizzazione del numerale polacco ‘cento’, ‘sto’, e il dimostrativo ‘sto (e solo alla fine il lettore riesce a decifrare il misterioso “pingisciu” che si trova, isolato, qualche capoverso prima, a indicare la cifra di cinquanta zloty).
Il gusto di Levi per il pastiche e l’ironia che ne deriva non ha qui solo una finalità umoristica, ma denota la vocazione dello scrittore alla polifonia[8], laddove accogliere nel tessuto della prosa termini allotri significa restituire piena rotondità alla voce e all’ideologia di un personaggio, all’esperienza di cui è portatore. Ed è evidente il piacere visivo che lo scrittore ricava (e vuole suscitare nel lettore) dall’osservazione del portentoso dispiegarsi dell’ingegno pragmatico di Cesare che, insieme a Mordo Nahum, è uno dei grandi  maestri di Levi in quello che, dopo il Lager, è forse il  capitolo più importante del suo personale Bildungsroman.
L’esperienza, infatti, si acquisisce principalmente attraverso l’osservazione e la riproduzione mimetica dei rudimenti dell’azione (esattamente come avviene con gli elementi primari del linguaggio); celarsi allo sguardo dell’altro significa chiudergli ogni via di contatto e di scambio e, come nota bene Gordon, nell’universo concentrazionario descritto da Levi il primo segnale di disumanizzazione è “la negazione di un peculiare elemento dell’interazione fra esseri umani […] il rifiuto insistente di rispondere alle domande o anche solo di restituire lo sguardo al nuovo arrivato da parte delle SS, dei kapo, degli altri prigionieri, e di tutti in genere”[9].
Il “vizio di forma” più aberrante della follia geometrica del Lager è proprio questo: esso intende presentarsi come una copia simmetrica di un assetto militare, ma, di fatto ne è la grottesca parodia, dal momento che una compagine di individui si trova nell’obbligo di convivere e dividere il lavoro senza la possibilità di istituire uno scambio comunicativo, peggiorato  dalla babelica confusione delle lingue materne. Significativamente, in questa situazione, l’istinto di sopravvivenza spinge a tesaurizzare e investire di senso ogni segno che possa avere valore distintivo, a strappare, nel caos indistinto dei suoni, quegli elementi minimi che, in un determinato contesto, assumono un ruolo distintivo e oppositivo. In un’estrema situazione di oscurità, il sistema dei segni si riduce ad essere binario, come quello impartito alle bestie, ed è illuminante in tale senso il riferimento che Levi fa, in un passo dei Sommersi e i salvati, al meccanismo del riflesso condizionato[10]:

 

Ho notato, su me stesso e su altri reduci, un effetto curioso di questo vuoto e bisogno di comunicazione. A distanza di quarant'anni, ricordiamo ancora, in forma puramente acustica, parole e frasi pronunciate intorno a noi in lingue che non conoscevamo né abbiamo imparato dopo: per me, ad esempio, in polacco o in ungherese. Ancora oggi io ricordo come si enunciava in polacco non il mio numero di matricola, ma quello del prigioniero che mi precedeva nel ruolino di una certa baracca […] qualcosa come «stergìsci stèri» (oggi so che queste due parole vogliono dire «quarantaquattro»). […]bisognava stare pronti con la gamella tesa per non perdere il turno, e perciò, per non essere colti di sorpresa, era bene scattare quando era chiamato il compagno col numero di matricola immediatamente precedente. Quello «stergìsci stèri» funzionava anzi come il campanello che condizionava i cani di Pavlov: provocava una subitanea secrezione di saliva.

 

Erano frammenti strappati all'indistinto: frutto di uno sforzo inutile ed inconscio di ritagliare un senso entro l'insensato. […]O forse, questa memoria inutile e paradossa aveva un altro significato e un altro scopo: era una inconsapevole preparazione per il «dopo», per una improbabile sopravvivenza, in cui ogni brandello di esperienza sarebbe diventato un tassello di un vasto mosaico.

 

Sintomaticamente, Hurbinek, il bambino nato clandestinamente nel Lager, non sa parlare. Per converso, come si legge nel capitolo L’Internazionale dei bambini, nell’Altrui mestiere, i bambini liberi di osservare e assimilare i comportamenti e i riti degli adulti li riproducono in giochi che, al di là delle latitudini e dei confini territoriali, sono pressoché uguali e regolati dalle medesime convenzioni. La condivisione dell’esperienza fornisce uno strumentario di base che è il cemento etico dei rapporti umani, una garanzia di uguaglianza. Non è un caso se l’unico momento in cui, da prigioniero, Levi torna brevemente a sentirsi uomo coincide con l’esame di chimica cui lo sottopone il dottor Pannwitz[11] e se, dopo la selezione di Schmulek per la camera a gas, avvenuta in un irreale silenzio e in assenza totale di contatto visivo, i due compagni di Ka-Be ristabiliscono una tenue comunicazione tramite la trasmissione di una competenza:

 

Quando Schmulek è partito, mi ha lasciato cucchiaio e coltello; Walter e io abbiamo evitato di guardarci e siamo rimasti a lungo silenziosi. Poi Walter mi ha chiesto come posso conservare così a lungo la mia razione di pane, e mi ha spiegato che lui di solito taglia la sua per il lungo, in modo da avere fette più larghe su cui è più agevole spalmare la margarina.

 

In condizioni ottimali, civili, di comunicazione-trasmissione l’esperienza è un capitale sempre incrementabile, all’occorrenza, parcellizzabile, e il consorzio dei tecnici lato sensu non conosce barriere di comprensione né reali distanze gerarchiche, come i lavoratori del mare di cui si racconta in Trenta ore sul Castoro sei (AM), tutti eroi ulissidi e tutti impiegabili a seconda che la “scala” del problema sia ridotta o “ciclopica”. Ugualmente, nella Chiave a stella, il senso di ironico straniamento dello scrittore di fronte alla semplicità grezza di Faussone si annulla quando quest’ultimo narra delle proprie imprese di eccellente costruttore e i due trovano un terreno di piena comunanza[12], in cui l’esperienza è moneta di scambio, e gli strumenti del chimico trovano consoni equivalenti in quelli del montatore e viceversa (“Io però ho sempre fatto il chimico montatore, di quelli che fanno le sintesi”).
Si può concludere che l’indole ottimista di Levi trae origine dalla natura sociale del patrimonio delle conoscenze, dal momento che un possesso comunitario imprescindibile per il progresso è destinato a recare sempre traccia di sé nella memoria collettiva. E possesso collettivo deve essere la letteratura, il cui valore è direttamente misurabile nel gradiente di comunicabilità del suo messaggio, e per Levi non può esistere (buona) letteratura che non sia latrice di un messaggio. È in quest’ottica che bisogna esaminare l’aspra critica che lo scrittore muove ai poeti “oscuri” (Paul Celan)[13]: l’analogia è per definizione un taglio dei ponti, e un percorso offuscato non è ripercorribile in senso retrogrado, non è, appunto, tracciabile e non può ricevere certificazione etica dal più vasto numero possibile di destinatari.

 

In fondo, l’intera esistenza di Levi, nella sua declinazione ancipite, centauresca, di tecnico-scrittore, è stata devoluta all’esplorazione di quel doppio asimmetrico irto di vizi di forma che è la realtà, alla ricerca costante della sua molecolarità, attraverso prove ed “errori” (forse uno dei sintagmi con il maggior numero d’occorrenze nella prosa leviana), nella certezza che “imparare a fare qualcosa è diverso dall’aver imparato una cosa”[14]. L’Haftling 174517 era sopravvissuto al Lager grazie alla propria curiosità documentaria. Parimenti, con accresciuto ottimismo, frequenterà sempre i mestieri altrui (anche quello del linguista) per allegro spirito di sfida nei confronti della Hyle, neghittosa e passiva.

 

Ricordo di aver letto molto tempo fa, su questo argomento, un bellissimo saggio, naturalmente dilettantesco, del povero Paolo Monelli: si intitolava Elogio dello schiappino, e lodava chi si arrabatta a fare i mestieri altrui, l’autodidatta, lo sciatore che si avventura sulla neve senza aver frequentato i corsi e senza aver letto i manuali, chi si studia di imparare una lingua straniera senza grammatica ma ponzando un giornale […] tutti coloro insomma che si sforzano di imparare dall’esperienza greggia propria, invece che dai trattati o dai maestri, cioè dal corpus sterminato dell’esperienza altrui. L’elogio, beninteso, è paradossale: si impara meglio e più in fretta se si seguono le vie tradizionali, ma le vie spontanee sono più allegre e più ricche di sorprese[15].

 

[1]Cfr. E. Mattioda, Levi, Salerno Editore, 2011, p. 16

[2] P. Levi, L’asimmetria e la vita, in <Prometeo>, II, n.7, settembre 1984; poi in Opere II, a cura di M. Belpoliti, 1997, p. 1231

[3] ‘La lettura del mondo umano. L’antropologia rovesciata di Primo Levi’. Ricercare le radici. Primo Levi lettore-Lettori di Primo Levi. Nuovi studi su PrimoLevi, a cura di Raniero Speelman, Elisabetta Tonello & Silvia Gaiga. ITALIANISTICA

ULTRAIECTINA 8. Utrecht: Igitur Publishing.

[4] Cesare Cases, L’ordine delle cose e l’ordine delle parole, in Primo Levi: un’antologia della critica, a cura di Ernesto Ferrero, Einaudi, 1997.

[5] Necessario il rimando alla Quaestio de centauris  e alla panspermìa post-diluviana, il racconto della <seconda creazione>, agli occhi di Levi più economicamente razionale rispetto ai canonici miti delle origini. Cutnofeset, l’omologo narrativo di Noè, ha infatti il merito di portare in salvo le specie-chiave, solo gli archetipi animali dai quali poi si genereranno, senza limiti, tutti gli altri incroci. Si veda anche, in AM, Inventare un animale, resoconto divertito di un compito svolto alle elementari, in cui si richiede di descrivere un animale attingendo solo alla propria fantasia, con il risultato di ottenere gustosissimi collages tra specie, <rapsodie di tratti e membra di animali noti>.

[6] Si vedano, per  le considerazioni su Rabelais e Queneau, i capitoli François Rabelais e La Cosmogonia di Queneau in AM e Meglio scrivere di riso che di lacrime in Ricerca delle radici.

[7] Levi ha più volte ricordato come le discipline umanistiche non lo vedessero eccellere (per es. cfr., in AM, Un lungo duello); ma, proprio in riferimento alla cumulabilità delle nozioni, è inevitabile convenire con Cases: <Sarà stato un allievo ( per italiano e storia) mediocre con professori mediocri, ma la bontà delle istituzioni si rivela proprio quando gli individui non hanno disposizioni spiccate. > in L’ordine delle cose e l’ordine delle parole, in Primo Levi: un’antologia della critica, a cura di Ernesto Ferrero, Einaudi, 1997. Le stesse considerazioni si possono trarre in merito all’episodio Il canto di Ulisse, in Se questo è un uomo.

[8] Mi sembra utile tentare di circoscrivere questa particolare declinazione dell’ironia leviana (tenendo presente che l’ironia, come tropo, è difficilmente definibile e non sempre basta indicarla come generico “distanziamento”), che permette di <cambiare prospettiva cambiando linguaggio, non tanto per tradurlo direttamente in uno più accessibile, quanto immaginando di dare rilievo agli altrui idiomi e pregiudizi col semplice mutare gli accenti tonali di un dato linguaggio settoriale> R.S.C. Gordon, Primo Levi: le virtù dell’uomo normale, Roma, Carocci, 2003. E rappresenta dunque <il caso limite, più evidente, di un fenomeno frequentissimo nel discorso: la dialogicità interna alla parola.>, M. Mizzau, L’ironia. La contraddizione consentita, Milano, Feltrinelli, 1984. Didascalico a tal proposito è, sempre, in T, l’episodio della <curizetta>, con protagonista ancora Cesare e il suo romanesco.

[9] R.S.C. Gordon, Primo Levi: le virtù dell’uomo normale, Roma, Carocci, 2003

[10] Per il tema centrale della comunicazione nel Lager, si veda l’intero capitolo Comunicare in Sommersi e i salvati.

[11] Significativamente, la distanza torna a marcarsi quando lo sguardo dei due dovrebbe incontrarsi, ma il contatto è mutilo e surreale: <Perché quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, io avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania>.

[12] Da notare anche come lo stesso Faussone presenti abilità e curiosità da linguista: in un passo spiega l’origine del cognome Magnino (<perché appunto magnino vuol dire stagnino, uno che fa le pentole e poi ci passa lo stagno, e c’è varie famiglie che si chiamano Magnino ancora adesso e magari non sanno più perché.>; altrove si preoccupa di dare fondamento al modo di dire <avere il latte ai gomiti> assicurando la corrispondenza fisica e sensoriale del fenomeno; in un altro passo mostra un certo gusto a smontare le frasi stereotipe (<A conti fatti, e i conti li ha fatti il progettista>; <L’ho contattato, che poi vuol dire che gli ho telefonato ma è più elegante>)

[13] Dello scrivere oscuro, in AM.

[14] Il segno del chimico, in AM

[15] Le parole fossili, in AM.

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