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Martedì, 07 Febbraio 2017 18:54

"Videodrome" e nuove scritture: dal fansub ai media player intelligenti

Scritto da Roberto Santoro
"Videodrome", David Cronenberg (1983) "Videodrome", David Cronenberg (1983)

Alla fine degli anni Settanta c’erano il vhs, l’analogico, le videocassette con gli episodi di Star Trek o Battlestar Galactica che i marines statunitensi nelle basi giapponesi passavano ai loro amici del Sol Levante per la gioia degli appassionati di fantascienza. In cambio gli americani ottenevano qualche puntata di Astroboy, la serie sul bambino meccanico dal cuore umano che ha segnato la storia del manga nipponico. Più avanti, ma siamo già alla metà degli anni Ottanta, alle ragazze italiane batteva il cuore per una cassetta di Ranma ½, altro manga famosissimo, curiosa storia di un papà che a contatto con l’acqua si trasforma in panda, e del figliolo judoka, Ranma, che invece bagnandosi diventa una ragazza. Per i più grandicelli c’era Akira, il film di animazione del 1988 che ebbe uno straordinario successo nei Paesi occidentali: chi scrive ha ancora in testa l’ossessiva colonna sonora del film, il crepuscolo di Neo Tokyo, la capitale uscita distrutta dalla Terza guerra mondiale, in un 2019 dove regnano caos e bande di motociclisti mutanti.

Quelle videocassette giapponesi sottotitolate in inglese, o americane sottotitolate in giapponese, rappresentano per così dire la fase primitiva del “fansub”, il fenomeno della traduzione e sottotitolatura di film, cartoni animati e serie televisive, realizzata da legioni di devoti in mezzo mondo nel più puro spirito della globalizzazione culturale. Fenomeno che chiama in causa il rispetto del copyright e dei diritti d’autore, visto che era (e resta) illegale tutto questo circolare di opere piratate, anche se le grandi corporation dell’intrattenimento hanno sempre chiuso un occhio, perché la comunità dei “fansubbers” è diventata un potentissimo veicolo, completamente gratuito, di diffusione, marketing ed esportazione dei prodotti culturali. Un lavoro di scrittura collettiva senza nome, in cui basta un nickname per cominciare, un lavoro senza sosta e senza remunerazione, che preserva il valore d’uso dell’atto culturale anticipando commercializzazione, vendita e fidelizzazione del consumatore. Un bel favore fatto all’industria culturale, insomma.

E arriviamo a oggi, cioè al web, a Internet. Con l’avvento della Rete, della banda larga, dei file superzippati e dei sistemi di file-sharing, il fansub si moltiplica come i proverbiali pani e pesci, tanto che sui grandi portali tematici c’è l’imbarazzo della scelta: si possono guardare in streaming serie tv, mettiamo, danesi, sottotitolate in inglese, come Borgen, il political drama che ci ha fatto conoscere la house of cards di Copenaghen, Palazzo Christiansborg. L’estensione su scala globale dei “subbers” segna inoltre l’emergere di varie competenze legate alla scrittura e non solo, ci sono i raw providers che come moderni cercatori d’oro accumulano il materiale da sottotitolare, i timers che si occupano di sincronizzare immagini, dialoghi e sottotitoli, typetters, editor ed encoders impegnati nella curatela grafica e nella revisione dei testi.

Tutto questo, vale la pena sottolinearlo di nuovo, avviene per missione più che per professione, ma l’evoluzione digitale apre le porte all’ultima fase delle nuove scritture creative, nell’epoca della convergenza e della definitiva integrazione tra prodotti culturali e consumatori. Il prosumer, il consumatore professionista, partecipa, modifica, plasma e in sostanza ricrea tutto ciò che lo appassiona, in una forma di comunicazione che, da un decennio a questa parte, viene anche definita transmediale. Se stiamo al fansub, è l’epoca di Viki, la start-up fondata nel 2007 e diventata rapidamente un forziere da milioni di dollari, una piattaforma di video streaming con sedi sparse negli Usa, a Singapore, in Giappone e Corea, dove la community dei subbers traduce e sottotitola i contenuti messi in Rete dall’azienda (real-time subtitling), in una piccola babele di lingue, scritture e culture (200 circa) che fin dal nome richiama esperienze cooperative come Wikipedia.

Entriamo quindi nei territori non del tutto esplorati del “crowd-editing” e del “self-publishing”, Viki prefigura l’oltre delle nuove scritture in Rete, il momento in cui, grazie a media-player sempre più evoluti e sofisticati, strumenti tecnologici ancora tutti da immaginare e perfezionare, saremo in grado di intervenire sul prodotto culturale che abbiamo davanti in esperimenti di inedita ricombinazione creativa. Un giorno non troppo lontano avremo nelle nostre mani oggetti del desiderio che ci permetteranno di interagire davvero e fino in fondo con la storia raccontata, e di raccontarla noi stessi ad altri, come dimostrano le parodie di Gomorra o del Trono di Spade che spopolano su YouTube. Vedremo presto cosa significa questo cambiamento in termini materiali, seguendo il progresso del cosiddetto “Internet delle cose” e della più nota ma ancora poco sperimentata realtà virtuale.

Arriveranno finalmente media-player intelligenti: non la solita pulsantiera, pausa, avanti, indietro, allarga a tutto schermo, le cose che sappiamo già, ma una plancia interattiva e dinamica, un cruscotto degno di questo nome, una “morbida macchina” da scrivere come avrebbe detto William Burroughs, con cui sottotitolare, fotografare, estrarre, ricalcare e modificare singoli frammenti, istantanee della nostra esperienza culturale, in una personalissima poetica che ha qualcosa di Videodrome, il film di David Cronenberg, spogliato però della sua carica più deviante ed eversiva. Quando carne e macchina si fonderanno in una cosa sola, la scrittura mutante nell’epoca della sua ultrariproducibilità tecnica permetterà, in definitiva, di riscrivere le storie alle quali un tempo assistevamo solo da spettatori.

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