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Venerdì, 03 Febbraio 2017 17:13

Abitare in difesa: case, cantine, biblioteche e feticci nella narrativa di Michele Mari

Scritto da Andrea Di Bello

Fondare il proprio mondo, per esso 
Vivere, in esso: questo 
Fecero i grandi Surrogatori. 

Tommaso Landolfi, Viola di morte


Ci sono individui incapaci di vivere con naturalezza, individui per i quali il mentale (nella sua virtualità) è l’unica dimensione che conta, e l’esistenza rappresenta lo scacco definitivo. Non esiste per certi individui oltraggio più grande dell’essere stati messi al mondo. La parola “mondo”, come sappiamo, «significa la totalità delle cose come oggetto dato»[1], ma questa totalità non è necessariamente ordinata secondo un qualche principio (non per forza si configura come “cosmo”), anzi il cosiddetto mondo “reale” appare sempre più come una massa informe, invivibile, che non sembra seguire regole precise (e se lo fa sono oscure, non rivelate a tutti). Ambizione dell’artista e del nevrotico è dare una forma al mondo, donare un’organizzazione coerente e strutturata.

Roland Barthes ha affermato che il linguaggio della letteratura non è assertivo ma interrogativo[2], e questo mi fa pensare che la letteratura sia intrinsecamente anti-realistica perché propone alternative alla realtà così come la conosciamo. Il narratore di Verderame (lo stesso Mari) afferma: «Oggi che so quanto male abbia fatto l’hegelismo all’umanità so che le storie più belle sono fatte di ma e di se, soprattutto di se…»[3], e quindi, assumendo come nucleo dell’affabulazione la possibilità, l’ipotesi, la letteratura non può che essere necessariamente fantastica. Nei romanzi e nei racconti di Mari non mancano le topiche che hanno caratterizzato il genere romanzesco del romance[4], sia nelle ambientazioni (castelli arroccati su monti, cripte polverose, ecc.) sia nel modo di narrare le storie (il fantastico, d’altronde, «si avvale di un formulario specifico, di una liturgia linguistica, di un determinato modus narrandi»[5]).

Rifacendosi alla definizione di Lukács secondo la quale «la psicologia dell’uomo del romance consiste nella scissione dell’Io, nella perdita della sua unità»[6]. La questione della scissione pertiene anche alla narrativa di Mari, e infatti queste sono le parole del narratore di Verderame: «la doppiezza è sempre stata la mia condizione: mai però sono riuscito ad accertare se la mia scissione sia solo psichica o anche ontologica»[7]; ma scissi sono anche i protagonisti di Di bestia in bestia (1989) e Io venìa pien d’angoscia a rimirarti (1990)[8].I personaggi della narrativa di Michele Mari cercano di risolvere questa scissione, di tenere tutto unito, di non perdersi. Vediamo come.

 

1 – Subirsi fino in fondo

 

In un suo scritto dedicato al romanzo di Huysmans À rebours, Mari dice che il protagonista «si rifugia in una casa-mondo dove tutto dev’essere estetico, tutto sotto il suo controllo, tutto artificiale»[9]. Nella sua casa, Des Esseintes surroga la «perduta società», la società da cui volontariamente si è allontanato, collezionando «eccellenze e assoluti»: solo così può edificare un mondo, che si configurerà necessariamente come un «mondo-museo». Così facendo, però, le opere d’arte vengono apprezzate più per il loro essere cose che per il loro effettivo valore (o, almeno, quella di essere museificabile è una qualità non meno importante di una qualità estetica, forse proprio una nuova qualità dell’arte nella nuova società di massa). Questo si può estendere anche ai personaggi della narrativa di Mari. Osmoc, ad esempio, il personaggio principale di Di bestia in bestia, non è un personaggio molto distante dal protagonista di À rebours: anch’egli si isola dal mondo – per fuggire a una sicura condanna e per ritirarsi e finalmente essere in grado di lavorare – e anch’egli considera i suoi libri al pari di oggetti. L’individuo che ha eliminato l’eros dalla propria vita sembra avere un rapporto sensuale solo con i propri libri: «con un rapido giro degli occhi se la stava guardando tutta [la biblioteca], non altrimenti da come nel chiuso di latebra silvana guata l’orsa ai suoi orsatti: e amorosamente della lingua li lambe»[10]. Ne consegue un rapporto morboso e feticistico con gli oggetti, «veri e propri idoli ai quali consegnarsi senza riserve»[11].

 

E di reificazione in reificazione, come impedire (ciò che infatti avviene puntualmente) che gli stessi ricordi personali diventino cose, inventariabili e richiamabili a comando come oggetti riposti in una cassettiera?[12]

 

Proprio come in una camera oscura, le mura della casa e gli oggetti vengono investiti dal senso che il proprietario ha nei loro confronti (dalle molecole che rilascia[13]). Per questo gli oggetti vengono percepiti come ricordi reificati, per i quali struggersi nell’animo[14]. Mari riconosce come per certi individui non ci possa essere un rapporto con il proprio passato che non sia morboso proprio perché mai pacificato, sempre doloroso, tuttora sanguinante[15].

Nel film Blade Runner di Ridley Scott c’è una scena in cui Rick Deckard, il cacciatore di androidi interpretato da Harrison Ford, esplora lo spazio di un appartamento alla ricerca di indizi che possano aiutarlo a risolvere il caso su cui sta indagando. Ciò che ha colpito l’immaginazione degli spettatori di questo capolavoro è il fatto che Deckard setaccia l’appartamento a distanza, attraverso una macchina avveniristica che consente di muoversi nello spazio impresso in una fotografia. In questa idea del fermo-immagine continuamente perlustrabile possiamo riconoscere, forse con uno sforzo di interpretazione, la coazione a ripetere un momento del proprio passato non risolto che turba e angoscia e al quale non si può che ritornare, come la lingua sul dente dolente. Mari, citando un saggio di Eugéne Minkowski in cui viene esposta la tendenza di alcuni soggetti nevrotici a plasticizzare la propria memoria (il proprio passato) come luogo da visitare con continuità, e all’interno del quale si ripresentano «rapporti con gli altri, comportamenti propri, discussioni, situazioni, gesti» che sono avvertiti come incompiuti, frustrati, e che per questo sono fonte di un’angoscia che pretende di essere ciclicamente rivissuta, afferma:

 

declinare spazialmente angoscia, nevrosi e memoria, in ogni caso, è la ratio di chi ha un rapporto insoluto con il proprio passato, e sente che vivere, continuare a vivere, è l’indebito aggiornamento o perfezionamento sovrastrutturale di ciò che dev’essere prima “sistemato” strutturalmente: come chi sapendo di aver gettato precarie fondamenta continui fra i sensi di colpa nella costruzione e, peggio ancora, nell’arredamento di una casa[16]

 

I protagonisti dei suoi romanzi e dei suoi racconti (e, stando alle sue dichiarazioni, anche lui stesso) sono individui nevrotici, prigionieri delle proprie idiosincrasie. Seguendo i suoi maestri, Mari ha scelto di rappresentare la mentalità chiusa di questi personaggi attraverso l’immagine della casa in cui essi si ritirano:

 

Borges e Gombrowicz, Bioy Casares e lo stesso Kafka, d’altronde, ci hanno insegnato che in letteratura il modo più redditizio di trattare le ossessioni è plasticizzarle, trasformarle in spazio e paesaggio, proprio come, sul versante scientifico, ha documentato Minkowski studiando la Lebenswelt schizofrenica[17].

 

La casa rappresenta quindi la loro mente ossessionata:

 

Ma una casa è come una testa, con le sue ambagi e le sue oscure circonvoluzioni, le sue ambiguità e le sue ossessioni… Io, quando giravo per le stanze e corridoi e mi spostavo da un piano all’altro, avevo davvero l’impressione di muovermi dentro la mia testa, e non solo perché non c’era macchia d’umido o bolla d’aria imprigionata nel vetro che non mi parlasse di me, dell’innumerabile somma di malinconie o di angosce o di noie che avevano accompagnato la visione, ma anche perché la struttura stessa della casa era ormai stata talmente interiorizzata da trasmettersi alla mia mente, modulandola[18].

 

I personaggi della sua narrativa cercano di mantenere la propria unità attraverso le loro case-museo, che sono quindi memoria reificata. In un suo scritto su Philip K. Dick, Mari afferma «Solo la memoria infatti, garantendo il principio di identità, consente all’uomo di rimanere un soggetto»[19], e Carlo Mazza Galanti, nel suo libro su Michele Mari:

 

Perdere gli oggetti cari – oggetti suscettibili di divenire reliquie, feticci, piccoli monumenti del passato – dimenticare è insomma il delitto più grave che il soggetto possa commettere nei propri confronti: tradire la propria “eterna” e museale immagine autobiografica sottomettendosi al flusso del divenire, uscire dall’asettico e maniacale isolamento per confondersi con il mondo “impuro”, per disperdersi nell’esistente[20].

 

C’è uno scrittore molto amato da Mari che ha popolato la sua opera narrativa di case – spesso vere protagoniste della narrazione – e oggetti: Tommaso Landolfi. All’immagine della casa in Landolfi, Mari ha dedicato un saggio nel quale possiamo leggere la seguente affermazione:

 

alla fine la casa (proprio come la letteratura) è insieme madre e figlia dello scrittore, che da lei espresso e in lei cresciuto a lei deve tornare per scontare la colpa dei suoi compromessi con il mondo[21].

 

Per Mari essere al mondo vuol dire tradire se stessi[22], e per questo i suoi personaggi più folli sono dei reclusi che pensano di bastare a se stessi e di poter fare a meno del mondo. Carlo Mazza Galanti ha riconosciuto come nello spazio chiuso della biblioteca («il rifugio pietoso che escludeva tutto il resto»[23]) si risolvano «forma memoria e oggettivizzazione feticistico-museale»[24]

Nel suo scritto Il Cinquecento del dottor Caligari (ovvero l’introduzione, in forma ritoccata, al volume Manieristi e irregolari del Cinquecento, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 2004), Mari racconta di come, alla fine del medioevo, estinte le corporazioni, l’artista sia stato costretto a conquistarsi un prestigio individuale. Per questo ha iniziato a puntare sulla propria unicità, sulla propria diversità:

 

La stessa nevrosi, inizialmente relegata nell’ambito della vita […], si filtra a poco a poco nell’opera, dettando i soggetti e improntando la forma. Prigioniero del proprio ruolo, questo genere di artista è sempre meno in grado di vivere la vita degli altri e soprattutto di parlare la loro lingua: la sua riconoscibilità individuale si è talmente enfatizzata da essere, compiutamente, diversità[25].

 

L’opera d’arte è per Mari sublimazione manieristica delle proprie nevrosi e ossessioni, e la figura della casa diventa anche metafora della creazione artistica. Parlare della casa è quindi parlare di sé. A proposito del romanzo Il Golem di Meyrink, Mari dice:

le pagine più belle del romanzo sono quelle relative alla stanza segreta e inaccessibile che abbiamo nella nostra testa, una stanza chiusa a chiave alla cui soglia possiamo dolorosamente arrivare e sostare senza riuscire mai a entrarvi, cespite e focolaio della nostra ossessione ma anche, riuscissimo a entrarvi, ad abitarla, a vederla, nostra guarigione […] o viceversa nostra definitiva follia[26].

 

Rappresentare la propria testa come una casa è quindi per Mari, mi sembra, un modo per conoscersi, con la speranza che ad avere una visione d’insieme possa aggiustare la propria mente. I suoi personaggi, però, che abitano la propria mente senza alcuna voglia di cambiarla, sono per questo schiavi della loro stessa casa-testa, delle loro manie, delle loro ossessioni.

Per l’individuo nevrotico protagonista dei suoi romanzi e racconti (e per lo stesso Mari) «l’essenza della vita è nella dialettica del dramma: all’uomo come protagonista si contrappone come antagonista la società, la coscienza dell’individuo si matura nell’urto con la coscienza comune»[27]. Ciò che differenzia però Mari dai suoi personaggi è che Mari «ha già, come artista, superato l’isolamento»[28]: non si ritira nella sua abitazione a guardare il mondo esterno e odiarlo, ma al contrario partecipa al mondo attraverso le sue pubblicazioni. I suoi romanzi, racconti e saggi rappresentano il tentativo di esprimere il proprio punto di vista, di esporre il proprio mondo. A proposito del minimalismo, Mari dice:

 

inteso correttamente come mimesi di una realtà minima o conoscibile attraverso esperienze minime, è una scorciatoia: e lo è proprio perché evita il conflitto. Rassegnandosi e accontentandosi, il minimalista abdica; ma i personaggi della tragedia classica non abdicavano: si trafiggevano sulla loro spada. E trafiggersi sulla propria spada, per uno scrittore, significa subirsi fino in fondo[29].

 

2 – Ritratto di un interno

Osmoc, la figura centrale di Di bestia in bestia (1989), è un uomo che vive solo nel suo castello. Suoi unici interlocutori sono il fedele servitore Epeo (un «giovane demente», non dissimile dai bruti che popolano Diéfzeira), e i suoi amatissimi libri. Queste le prime parole pronunciate da Osmoc nel romanzo:

 

Oh sí, la letteratura… Non si dovrebbe mai leggere Omero prima di andare in Grecia, sapete cosa intendo, folle chi pietra su pietra si costruisce la propria delusione, ed alleandosi alle forze del tempo e della cruda realtà vien spargendo nel nulla i suoi sogni leggeri: ma difendiamoci, per quanto sta in noi… Uno che ha passato tutta la vita fra i libri soleva dire che i libri possono fare alla vita una concorrenza sleale, molto sleale…[30].

 

Il narratore, entrato per la prima volta nello studio-biblioteca del castellano, annota: «Sembrava che lí soltanto avesse l’uomo voluto imprimere il proprio stigma, come a raccogliersi»[31]. Al centro dello studio è posta una «grande scrivania ricolma di libri»[32], ma tutta la sala ne è invasa:

 

Ad eccezione di un’immensa finestra a vetri piombati, attestata al centro della parete occidentale, e di un ampio camino che si apriva sullo stesso lato a qualche metro di distanza, l’intera estensione delle pareti era occupata da fitte scaffalature di libri. Fui colpito dal rigore impeccabile con cui erano ordinati i volumi. Tanti, in una biblioteca privata, non ne avevo mai visti[33].

 

La biblioteca, spazio chiuso all’interno di un luogo isolato dal mondo, è satura di libri. Ognuno di essi è catalogato e ordinato secondo una precisa ratio:

immaginatevi decine di migliaia di libri in duplice ordine dal pavimento al soffitto, allineati con una precisione assoluta, e debitamente divisi secondo i criterî più saggi, quali per epoca e fra questi qual altri (e s’intende i più antichi) per luogo di stampa e per torchio, altri per materia e nazione ed autore […], altri ancora scomparti per l’eslege formato, i menomi dico, e gli in-folio solenni, ché di raggruppamenti ulteriori era verosimil cagione piuttosto un valore affettivo[34].

 

Osmoc è un individuo «plagiato e abusato dalla sua enorme biblioteca»[35], un «uomo-libro», o un uomo «fatto di libri»[36], come Mari definisce Peter Kien, il protagonista di Auto da fé, il romanzo di Elias Canetti. Proprio del romanzo di Canetti Mari dice «veramente uno dei pochi […] a partecipare del lascito di Cervantes»[37]. E Osmoc non può che essere un pronipote di Don Chisciotte: alienato nel proprio mondo, è però anche consapevole della propria condizione. E proprio questa consapevolezza sarà cagione di profonda malinconia. Di Chisciotte non ha però l’innocenza, perché, ossessionato dalla purezza, cerca stoicamente di raggiungerla. E paradossalmente lo fa attraverso le mediazioni dell’arte[38].

 

«Riconoscevo in quella poesia un manifesto che ben potevo dir mio e che fin troppo strettamente assunsi a regola di vita. Ahimè… Credevo di trovar nelle Lettere un alleato invincibile e mi davo in pasto al nemico, credevo di risparmiar gentilmente mia vita e l’uccidevo a veneno, credevo di salvarmi salendo e mi mutilavo di me…»[39]

 

Questo desiderio di purezza si tramuta nell’allontanamento da tutto e da tutti, nella volontaria e sadomasochistica frustrazione dei propri desideri. E non sorprende dunque che il suo rifugio sia collocato sui monti, dove il bianco della neve ha il chiaro valore simbolico di purezza, e la neve stessa spegne ogni calore[40].

 

Mi sorvegliavo. Vedo ora bene che a forgiare il mio fato fu la paura di soffrire, appena un vilissimo calcolo di personale interesse, fu l’impreparazione alla vita… Temevo su tutto l’idea di cadere in una passione non dico infelice (ché perfezione v’ha pur nel dolore) ma spuria, incompleta, e preferivo giocare all’amore come l’imbelle che giocando d’azzardo alle carte dona al fagiuolo il valor di fagiuolo, e di lente alla lente…[41].

 

Frustrare i propri desideri per sempre è però impresa votata al fallimento, e basterà l’arrivo di una donna perché essi si liberino dalle catene a cui sono stati imbrigliati. E al bianco dell’esterno si opporrà cromaticamente il rosso del sangue che verrà versato all’interno del castello.

Nella seconda parte del romanzo – ambientata interamente all’interno della biblioteca – Osmoc sarà costretto quindi a dichiarare ciò che ha tenuto nascosto fino a quel momento: ha un gemello omozigote. Osac – questo il suo nome – è un essere tutto istinto, tutto sensualità[42]. Eccitato dalla presenza della signorina Ebebléchei, vaga scatenato in giro per il castello. La signorina è infatti estremamente somigliante a Emilia - la moglie, ora defunta, di Osmoc. Questi, a insaputa della donna, lasciava che fosse il fratello ad avere rapporti carnali con lei, per non rovinare l’immagine idealizzata che si era costruito della donna amata.

 

No, l’amore è un’altra cosa, è fra languore ed ardore il progetto ironico di una superiore unità nell’ipostasi alta delli propri fantasmi, intorno a me vedevo invece solo l’alleanza interessata ed ambigua di due potenti signori[43].

 

Tutto ciò che rimane di Emilia è un suo ritratto che Osmoc ha dipinto dopo la sua morte. Paradossalmente, sembra che Osmoc abbia maggiori rapporti con la moglie dopo la sua morte rispetto a quando era viva:

 

Quel quadro è la mia compagnia, e il tempo mi sorprende alle volte a conversare con esso in amebea rispondenza, ma son io solo quel che parla e che legge, che le legge la musica dei poeti e della mia tuba minore le presento divoto l’omaggio…[44]

 

Massimo Recalcati afferma che «il feticista adora il suo oggetto-feticcio che gli serve per scongiurare la sua angoscia di fronte all’incontro con l’Altro sesso»[45], e il quadro che ritrae Emilia è il feticcio cui si consegna Osmoc. Egli ama l’idea di Emilia, e rifugge ogni contatto fisico con la Venere terrestre per scongiurare che l’immagine della sua Venere celeste venga contaminata[46]. Per questo la sua morte appare quasi come l’evento che consegna Emilia all’eternità, e il quadro si fa simbolo di questa esistenza sotto forma di fantasma[47].

Evidentemente, questa paura di Osmoc lo porta a nutrire un sincero odio nei confronti degli altri esseri umani, trionfatori lì dove lui ha fallito (ma, più probabilmente, dove non ha tentato affatto).

 

[…] sarebbe disonesto nascondere che a persuadermi definitivamente al trasferimento sine reditu su questo altopiano concorse anche un certo fondo di misantropia[48].

 

Riconoscendosi estraneo agli altri esseri umani, Osmoc diventa così un “uomo di pietra”, per citare un racconto di Nathanien Hawthorne. Uomo orgoglioso e arido (la parola «aridità» compare spesso nel corso del romanzo), Osmoc rifiuta ogni rapporto umano. Come molti dei personaggi di Hawthorne, Osmoc pecca di orgoglio. A differenza dello scrittore americano, però, Mari non è un moralista e non condanna i suoi personaggi – anche perché sono una proiezione di sé. Con il suo atteggiamento titanico (che condivide con lo stesso Mari[49]), probabilmente Osmoc crede di essere un personaggio come il Capitano Achab, e invece è lo scrivano Bartleby (soltanto più loquace). Infatti, isolandosi, non lotta con alcuna forza che tenta di negare la sua individualità: anziché tentare di imporla, la difende nel chiuso del suo castello[50]. Di ciò mi pare consapevole lo stesso Mari, che non a caso in un’intervista, raccontando le varie imprese che ha dovuto affrontare per pubblicare questo romanzo (l’editore voleva “ripulirlo” di tutti i passaggi che appesantivano la lettura), ha dichiarato che imporsi per pubblicarlo così è stato il suo primo vero atto dopo una vita costellata di atti mancati[51].

Nel racconto I palloni del signor Kurz (1993) il piccolo Bragonzi, deciso a recuperare i palloni finiti al di là del muro che separa il Collegio di Quarto dei Mille dalla casa del signor Kurz, entra nella serra del vicino e «li vide. Li vide tutti, in una volta sola, e con essi le generazioni, le maglie, le speranze, le corse»[52]. Nella serra, Kurz cataloga e conserva ogni pallone che ha superato il muro, e lo fa con un amore che commuove il piccolo:

 

E notò un’altra cosa, che gli fece venire un groppo in gola: il signor Kurz aveva disposto ogni pallone nel vaso in modo da porne in vista la parte migliore, quella meno ammaccata o meno scucita, o quella con le facce o le firme, come se a quei palloni volesse bene[53].

 

La descrizione della serra ricorda molto quella che il narratore di Di bestia in bestia fa della biblioteca di Osmoc:

 

La serra era tutta scaffalata in triplice filare, due scaffalature contro i lati e una nel centro, a mo’ di dorsale, sí da creare due corridoi paralleli; ogni scaffale aveva sette ripiani, ogni ripiano una fila continua di vasi, ogni vaso sorreggeva un pallone. Di diametro leggermente più grande del vaso, i palloni sporgevano per tre quarti del proprio volume, toccandosi l’un l’altro coi fianchi come i segmenti di un bruco mostruoso[54]

 

Il racconto finisce con Bragonzi che preferisce lanciare oltre il muro il nuovo pallone regalatogli dal padre, essendosi reso conto che tutti i palloni creduti persi solo così si sono salvati:

 

guardandolo […] considerò che i palloni con cui un individuo gioca in sua vita si perdon per mille strade, finiscon nei fiumi e sui tetti, lacerati dai denti dei cani o bolliti dal sole, si sgonfiano come prugne appassite o esplodono sulle picche dei cancelli, o semplicemente scompaiono, credevi d’averli e li cerchi dovunque, ma non ci son piú, chi sa da quanto li hai persi o te li han ciulati nel parco[55].

 

Praticamente Kurz consacra un museo alla memoria, o, meglio, riproduce materialmente la memoria.

Nel racconto Euridice aveva un cane (1993) il narratore è infastidito dai vicini di casa, i Baldi, per il continuo rumore che producono ma soprattutto perché ammodernano continuamente la casa in cui abitano, annullando così la sua storia. Il narratore considera i Baldi e gli altri abitanti di Scalna (tranne la vecchia Flora) dei veri e propri barbari, e per questo ritiene che solo nella propria casa si riassuma tutta la storia del paese[56]. Per questo le descrizioni della propria casa e di quella dei vicini che il narratore offre nel corso del racconto sono connotate da fierezza nei confronti della prima e disprezzo verso la seconda:

 

Guardavo il nostro dondolo sotto il pruno e vedevo una solida struttura di ferro un po’ rugginoso, di un bel verdone sbiadito, pesantissima, che ci volevano sotto quattro piastrelle per impedire che s’infossasse nella terra; guardavo il loro e vedevo una cosina moderna, da terrazzo cittadino, in alluminio inguainato di plastica bianca, con cuscini a strisce giallo-caffè e frange rosse. Guardavo i nostri alberi, o pensavo a quelli che erano caduti, e vedevo alberi serî, conifere, cachi, nespoli, castagni: guardavo di là e vedevo ridicole betulle in artistico gruppo, lagestremie e arbusti di lungo mare con grasse foglie lucide[57].

 

Si rifugia per questo all’interno della biblioteca dei nonni, di cui dice questo:

 

negli ultimi anni non uscivo quasi mai dalla biblioteca, dove almeno tutto continuava a restare com’era, i libri ingialliti e le macchie d’umido sul muro, il divano color pera abate e il telescopio in un angolo[58].

 

Uno dei personaggi più tragici della narrativa di Mari è Felice, il vecchio contadino che vive e lavora nella casa dei nonni di Michelino in Verderame (2007). Fin dal primo capitolo sappiamo che il vecchio sta perdendo la memoria (scopriremo in seguito che è una malattia probabilmente dovuta a una sifilide ereditaria), e non ricorda più chi siano i suoi genitori, dove si trovi il bagno, e soprattutto il suo nome: «– Michelín! – mi disse con la voce di uno che sta per piangere. – Sí? – Michelín, mi, com’è che me ciami?»[59]. Il narratore del romanzo – lo stesso Michele Mari, che è il ragazzino ormai cinquantenne – dice a proposito del vecchio: «era come se per lui il mondo si rimpicciolisse a poco a poco perdendo i suoi pezzi, pezzi che erano cose, che erano parole, che erano luoghi, che erano ricordi”[60], quindi il ragazzino gli insegna la mnemotecnica  per sopperire al «demone della desemantizzazione»[61] da cui è invaso. E lo fa rendendo concreti i suoi ricordi, associando oggetti e segnali a ciò che deve essere ricordato:

 

– E la mia testa, l’è minga vera anca lee?
– Sí, ma le cose che ci sono dentro sono come fantasmi, ci sono ma non hanno corpo, non hanno luogo, quindi bisogna trovare gli aiuti adatti a ritrovarli[62].

 

Il tormentato tentativo di recuperare e trattenere i ricordi viene rappresentato plasticamente attraverso una casa-contenitore – apparentemente confusa e quindi diversa da quelle che abbiamo visto prima – in cui sono affastellati oggetti che dovrebbero evocare ricordi:

 

Sulle pareti non è rimasto uno spazio libero più grande di una cartolina: tutto il resto è stato a poco a poco invaso da cartigli e da oggetti, quando non siano tracciati direttamente sull’intonaco. Chi entrasse in questa stanza ne avrebbe l’impressione di un riempimento casuale e compulsivo, come una specie di horror vacui: solo noi due sappiamo invece quanta ponderazione abbia richiesto ogni singolo elemento, e quanto angosciante sia stata la lotta con l’esiguità dello spazio disponibile[63].

 

Il rimosso assume le sembianze di scheletri sotterrati e di lumache assetate di sangue, e luogo perturbante è la cantina [64]. Le segrete sotterranee nella narrativa gotica sono un’immagine dell’inconscio, ma Mari sa che i fantasmi che lo abitano possono essere fonte di grandi storie[65].

 

3 – «Lui credere totem potere avere vita»

 

L’episodio L’orologio d’oro del film Pulp Fiction di Quentin Tarantino inizia con l’inquadratura di un televisore. È acceso e vi scorrono le immagini del cartone animato Clutch Cargo in cui un eschimese pronuncia le parole «Lui credere totem potere avere vita». Il ragazzino che sta guardando la tv – Butch è il suo nome – viene interrotto dalla visita del capitano Koons, un veterano che consegna al giovane l’orologio, tenuto nascosto per anni nel retto, del padre morto in guerra. L’orologio in questione è il motore della narrazione (e non potrebbe essere altrimenti, visto che dà il titolo all’episodio): è l’avventura[66]. Analogamente, nell’ultimo romanzo di Mari, Roderick Duddle (2014), la vita del giovane protagonista è sconvolta dall’apparizione di un medaglione. Tutte le opere di narrativa di Mari hanno al centro dei feticci, e per questo non sorprende che l’ultimo suo libro pubblicato parli di essi. In Asterusher. Autobiografia per feticci (2015) Mari si racconta attraverso le case in cui ha vissuto – la casa dei nonni a Nasca, sul Lago Maggiore, e la sua casa di Milano – e gli oggetti in esse contenuti.

La parola “feticcio” è di origine portoghese (feitiço) e deriva dal latino facticius, che significa “artificiale”. Sostantivato indica un determinato oggetto che si ritiene dotato di una forza invisibile che agisce su di noi[67]. Il feticismo nasce infatti «come esperienza religiosa primitiva in cui un oggetto viene adorato e divinizzato»[68]. Charles De Brosses ha interpretato il fenomeno come una reazione dell’uomo primitivo al caos che sembra dominare il mondo (Auguste Comte svilupperà questo discorso)[69]. Mi sembra inevitabile quindi indicare una relazione tra il feticismo e la nevrosi. Valerio Valeri, magari sulla scorta di Walter Benjamin, sostiene che la «moderna incarnazione del feticista [è] il collezionista», e collezionista è lo stesso Mari come mostra nel suo ultimo libro (ma già nel romanzo del 2002 Tutto il ferro della torre Eiffel aveva trattato il tea collezionismo, assumendo proprio la maschera di Walter Benjamin). Asterusher si compone di novanta foto scattate da Francesco Pernigo, delle quali quarantacinque sono dedicate alla casa di Nasca e altrettante a quella di Milano. Ogni foto raffigura un elemento della casa o un oggetto ivi contenuto, ed è integrata da un breve testo: spesso ripreso da un precedente romanzo o racconto, altre volte scritto appositamente. Massimiliano Manganelli fa notare che il testo che commenta l’immagine non pretende di essere una didascalia ma intende invece indicare «il nucleo generativo, l’originaria figura radicata nella mitologia personale»[70]. Le cose, e le case, godono di una forza mitopoietica che ha permesso loro di essere trasfigurate nella narrativa di Mari, e quindi possiamo vedere come la cantina della casa di Nasca abbia fatto da modello a quelle presenti in Verderame e in Roderick Duddle:

Il feticcio è al tempo stesso accessibile e inaccessibile: è un oggetto materiale che però trascende la propria materialità, e che gode di un senso che è tale solo per chi è in un rapporto affettivo con esso:

Questa inaccessibilità è paradossalmente rivelata dal bisogno che talvolta prova il feticista di mostrare il suo feticcio a qualcun altro, di fargli sperimentare il suo potere, di spiare nell’altro il senso di un’esclusione, di un’inaccessibilità, che egli ritrova in sé, ma di cui vuol negare la realtà, proiettandola su un altro[71].

Con questo libro Mari ha voluto “mostrare i suoi feticci”, ma ritengo che tutto il lavoro precedente (tutti i romanzi e i racconti pubblicati in più di venticinque anni di carriera) abbia permesso allo scrittore di rendere partecipe il lettore del senso di cui li ha investiti. Il lettore così non ritiene (forse illusoriamente) che questi oggetti siano inaccessibili, avendo goduto di quella particolare forma di telepatia che è la letteratura.

 

[1] G. Micheli, Mondo, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1980, IX, p.  468.

[2] Cfr. M. Cavadini, La luce nera. Teoria e prassi nella scrittura di Giorgio Manganelli, Milano, Bompiani, 1997, pp. 8-9.

[3] M. Mari, Verderame, cit., p. 123.

[4]  Per una breve ed esauriente panoramica della storia del romance, e del passaggio al novel, v. G. Celati, Finzioni Occidentali, Torino, Einaudi, 1975.

[5] L. Federico, Chi ha paura dell’uomo nero? Immaginario perturbante e retoriche del discorso fantastico nella coming-of-age story, in «Contemporanea», 11, 2003, p. 108.

[6] Cit. in A. M. Piglionica, Su alcuni luoghi del romance: l’abbazia, la cattedrale, il castello, in AA. VV., Il castello il convento il palazzo e altri scenari dell’ambientazione letteraria, a cura di M. Cantelmo, Firenze, Leo S. Olschki, 2000, p. 193.

[7] M. Mari, Verderame, Torino, Einaudi, 2007, p. 65.

[8] Al tema della doppiezza, Lucia Di Giovanni ha dedicato il primo capitolo della sua tesi Il mostruoso nell’opera di Michele Mari, consultabile all’indirizzo https://www.academia.edu/19742821/Il_mostruoso_nellopera_di_Michele_Mari

[9] M. Mari, Huysmans, in Id, I demoni e la pasta sfoglia, Roma, Cavallo di ferro, 2010, p. 177.

[10] Id, Di bestia in bestia, cit., p.128.

[11] M. Recalcati, L’uomo che amava una calza più di una donna, «la Repubblica», 28 febbraio 2016

[12] M. Mari, Huysmans, in Id, I demoni e la pasta sfoglia, cit., p. 178.

[13] «gli spiriti che in forma di impercepibili efflati molecolari la persona tormentata rilascerà in continuazione» M. Mari, Fantasmagonia, in Id, Fantasmagonia, Torino, Einaudi, 2012, p. 144.

[14] «Schiavo del solipsismo, fin da piccolo egli si abituerà a investire sentimentalmente nelle cose, siano esse oggetti (non necessariamente giocattoli), vestiti, elementi di architettura domestica. Queste cose lo commuoveranno, la sua stessa fedeltà a queste cose lo commuoverà: egli si penserà come soggetto commuovibile dagli oggetti, diventando pertanto oggetto egli stesso» Ivi, pp. 153-154.

[15] Più volte nei suoi scritti non narrativi, Mari cita un’immagine che Stephen King ha utilizzato nel suo romanzo L’acchiappasogni: uno dei personaggi, Jonesy, curiosamente un professore, rappresenta la propria memoria come un archivio tra le cui fila si aggira per cercare i propri ricordi.

[16] Tale dichiarazione è stata esposta in un incontro pubblico tra Michele Mari e Tommaso Pincio, e moderato da Andrea Cortellessa, dal titolo “Nostalgia, ovvero l’invenzione del passato”; la trascrizione dell’incontro è consultabile all’indirizzo http://www.rivistaorigine.it/conversazioni/michele-mari-tommaso-pincio-andrea-cortellessa/

[17] M. Mari, Meyrink, in Id, I demoni e la pasta sfoglia, cit., p. 123.

[18] Id, Verderame, cit., p. 47.

[19] Id, Dick, in Id, I demoni e la pasta sfoglia, cit., p. 405.

[20] C. Mazza Galanti, Michele Mari, Fiesole, Cadmo, 2011, p. 59.

[21] Id, Landolfi, in Id, I demoni e la pasta sfoglia, cit., p. 188.

[22] C’è un racconto in cui un padre premuroso sottrae al figlio (lo stesso Mari) i suoi giocattoli per evitare che si perdano: «non si è mai troppo morbosi, perché per quanto si viva del passato c’è sempre qualcosa di ineludibile, nel presente, che ci plagia e ci umilia […]. Se hai venti giochi e ne conservi diciotto sei già fritto. Se un certo coltellino con il manico di madreperla, una certa calamita smaltata di rosso incominci a metterli lievemente da parte (statevene qui per un po’ dici affettuoso mentre li adagi nel cassetto), ecco, sei fritto. Sei diventato un dilapidatore»; Id, L’uomo che uccise Liberty Valance, in Id, Tu, sanguinosa infanzia, Torino, Einaudi, 2009, p. 15.

[23] Id, Euridice aveva un cane, in Id, Euridice aveva un cane, Torino, Einaudi, 2004, p 56.

[24] C. Mazza Galanti, Michele Mari, cit., p. 64.

[25] M. Mari, Il Cinquecento del dottor Caligari, in I demoni e la pasta sfoglia, cit., p. 23.

[26] Id, Meyrink, in Id, I demoni e la pasta sfoglia, cit., p. 123.

[27] B. Pisapia, La solitudine nella letteratura americana dell’Ottocento, «Studi americani», 3, 1957, p. 138.

[28] Ivi, pp. 142-143.

[29] M. Mari, Sul minimalismo, in Id, I demoni e la pasta sfoglia, cit., p. 600.

[30] Id, Di Bestia in bestia, Torino, Einaudi, 2013, p. 10.

[31] Ivi, p. 19.

[32] Ivi, p. 79.

[33] Ivi, pp. 19-20.

[34] Ivi, p. 20.

[35] S. Vitulli, Libroidi, editoria e premi. Com’è depressa la letteratura. Intervista consultabile all’indirizzo: http://www.ilgiornale.it/news/cultura/libroidi-editoria-e-premi-com-depressa-letteratura-899398.html

[36] M. Mari, Canetti, in Id., I demoni e la pasta sfoglia, cit., p. 261.

[37] Ivi, p. 263

[38] Solo nella letteratura si riconosce e solo attraverso essa è in grado di parlare di sé. Non a caso, la prima edizione del romanzo recava il sottotitolo Una storia vera tra ardore e languore, dove quel “storia vera” non è da considerarsi una provocazione ma invece una candida dichiarazione del giovane Mari: la nostra personalità è plasmata dalle nostre letture, e solo rifacendoci a queste possiamo raccontare la nostra verità. Si spiega così il ricorso – anche eccessivo – a riferimenti letterari, da non considerarsi come gratuito citazionismo.

[39] Id, Di bestia in bestia, cit., p. 86.

[40] «tutt’intorno la neve, fabulosa cornice d’intatta disponibilità, pagina bianca del nostro libro d’amore, epifania virginale della potenza inattuata…» Ivi, p. 27.

[41] Ivi., p. 85.

[42] G. Nesti, Michele Mari, in Storia generale della letteratura italiana, cit., p. 609.

[43] M. Mari, Di bestia in bestia, cit., p. 93.

[44] Ivi, p. 22.

[45] M. Recalcati, L’uomo che amava una calza più di una donna, cit.

[46] «Cosí, pel bene di quell’eterea creatura, io dovevo fuggire la donna reale» M. Mari, Di bestia in bestia, cit, p. 92; curiosamente, l’anno precedente all’esordio nella narrativa, Mari aveva pubblicato il saggio Venere celeste e Venere terrestre. L’amore nella letteratura italiana del Settecento, Modena, Mucchi, 1988.

[47] «Il desiderio feticista in quanto desiderio idolatra esige, infatti, il carattere imperituro – sottratto all’erosione del tempo – del suo oggetto» M. Recalcati, L’uomo che amava una calza più di una donna, cit.

[48] M. Mari, Di bestia in bestia, cit, p. 26.

[49] «l’animo titanico-aristocratico è quello che mi ha consentito di sopravvivere, facendo delle mie debolezze e privazioni una forza» Id, Conversazione con Michele Mari, in C. M. Galanti, Michele Mari, cit., p. 188.

[50] A proposito del Muro di Bartleby sono stati scritti numerosi saggi, il più famoso dei quali è L. Marx, Melville’s Parable of the Wall, «Swanee Review», 61, 1953; è curioso come nel romanzo di Mari Rosso Floyd ritorni l’immagine del Muro (The Wall è d’altronde il titolo di un concept album del gruppo inglese), concepito come metafora dell’isolamento (a volte del sensibile e mite Syd Barrett-Bartleby, altre volte del titanico Roger Waters-Achab).

[51] G. Nuvoli, Vitalità della scrittura. Ciclo di incontri a cura di Giuliana Nuvoli e Maurizio Cucchi. Quinto incontro: Michele Mari, Milano, 13 marzo 2013, http://www.casadellacultura.it/audio/2013/20130313_michelemari.mp3.

[52] Id, Euridice aveva un cane, Torino, Einaudi, 2015, p. 13.

[53] Ivi, p. 15

[54] Ivi, p. 13

[55] Ivi, p. 15.

[56] «Scalna non è mai stato un paese. Scalna finiva dove finivano i ciottoli del vialetto, a quel cancello verde e al muro che da una parte e dall’altra abbracciava il nostro giardino giungendo a Nord sino al fienile e alla legnaia, a Sud fino alla casa. Quella era Scalna, quel giardino e quelle tre costruzioni, e il grande orto che si stendeva dietro la casa, delimitato dall’alta rete metallica coperta di rampicanti. A quanto esulava non concedevo dignità di nome: era soltanto “il paese”. Le cartine geografiche e gli orarî ferroviarî non mi confondevano: certo, recavano il nome, ma chi ce lo aveva messo, io lo sapevo, intendeva riferirsi essenzialmente alla nostra casa; e anche le frecce della segnaletica stradale non indicavano che quella casa, siccome museo o basilica antica» M. Mari, Euridice aveva un cane, in Id, Euridice aveva un cane, cit., p. 55.

[57] Ivi, pp. 60-61.

[58] Ivi, p. 56.

[59] Id, Verderame, cit., p. 10.

[60] Ivi, p. 13.

[61] Ivi, p. 19.

[62] Ivi, p. 21.

[63] Ivi, p. 23

[64] «a quel luogo straniante e pur familiare viene attribuito un nuovo contenuto semantico, diventando la sede distaccata di pulsioni primordiali e di pericoli senza volto, allontanati dal sé cosciente per spirito di conservazione, secondo un rassicurante e assolutorio meccanismo di diniego» L. Federico, Chi ha paura dell’uomo nero?, cit., p. 116

[65] La cantina torna spesso nella narrativa di Mari: in Di Bestia in bestia vi è nascosto Osac, il fratello gemello di Osmoc; nel racconto Il patrimonio del popolo tedesco viene segregato Gunther Grimm, l’immaginario fratello dei celebri Whilelm e Jakob. Osmoc, Gunther e Felice sono uno «straordinario eccitante per la […] fervida immaginazione» (C. Mazza Galanti, Michele Mari, cit., p. 110) di Osac, dei fratelli Grimm e di Michelino che, come vampiri, riescono a trarre dai loro deliri materia di narrazione.

[66] A proposito di quest’oggetto si possono usare le parole con cui Mari si riferisce al doblone d’oro di Moby Dick: «una cosa ma anche un valore, una realtà ma anche un sogno, qualcosa di presente ma anche di futuro, di benedetto ma anche di maledetto» (M. Mari, Melville, in Id, I demoni e la pasta sfoglia, cit., p. 74).

[67] V. Valeri, Feticcio, in Enciclopedia, VI, Torino, Einaudi, 1979, p. 100.

[68] A. Diazzi, Scelte d’oggetto. Alcune riflessioni a partire da Feticci di Massimo Fusillo, «Enthymema», VI, 2012, p. 230.

[69] V. Valeri, Feticcio, in Enciclopedia, cit., p. 101.

[70] M. Manganelli, Michele Mari, il collezionista di se stesso, «Alfabeta2», consultabile all’indirizzo https://www.alfabeta2.it/2016/01/31/michele-mari-collezionista/

[71] V. Valeri, Feticcio, in Enciclopedia, cit., p. 113.

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