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Sabato, 14 Gennaio 2017 19:26

«Non detto ma più esattamente indicibile»: intervista a Giorgio Vasta

Scritto da Simone Giorgio

Negli ultimi anni è stata pubblicata una folta schiera di libri sugli anni '70, e tra di essi spicca Il tempo materiale. Hai scelto volontariamente di inserirti in questo filone narrativo o si è trattato di un processo spontaneo?

 

No, nessuna volontarietà. Mentre scrivevo, e prima ancora nel periodo in cui raccoglievo materiali e prendevo appunti, ero poco o per nulla consapevole dei libri sugli anni '70 che venivano via via pubblicati. Quando avevo terminato la prima stesura del romanzo ho incontrato Demetrio Paolin, che se non ricordo male aveva appena pubblicato Una tragedia negata, un saggio che ragiona proprio sui libri che raccontano i cosiddetti anni di piombo; leggere il suo libro e trovarci a discutere mi ha reso consapevole che quanto stavo facendo avveniva in un contesto ben preciso, vale a dire all'interno di una focalizzazione su una determinata epoca, un tempo che autori diversi consideravano significativo. In quel momento mi sono reso conto che per me la storia italiana degli anni '70 non era per nulla il fine ma semplicemente il mezzo: quella che desideravo raccontare era una storia d'amore, una storia di incapacità di amore, usando la febbrilità del '78 come "ambiente" utile alla narrazione.

 

 

Il tempo materiale è un romanzo molto coeso, sia narrativamente che linguisticamente. Puoi parlarmi della genesi e del lavoro di gestazione sul libro?

 

Credo che la coesione discenda dalle caratteristiche della voce narrante, un punto di vista sulle cose che desideravo fosse insieme spalancato, selvatico e angusto, tanto in certi momenti liberatorio quanto in altri opprimente. In realtà però non c'è stato un vero e proprio progetto stilistico; ho iniziato a scrivere sapendo che a parlare era un ragazzino di undici anni, ma senza pormi un problema di verosimiglianza. Via via che il discorso si sviluppava mi accorgevo della sproporzione tra anagrafe e facoltà cognitive ed espressive; in teoria avrei dovuto riscrivere "riducendo" il discorso di Nimbo così da adeguarlo a quello che è – o si ritiene sia – il modo di pensare sentire e parlare di un undicenne, ma non essendone capace ho deciso di andare avanti augurandomi che questa sproporzione potesse generare un attrito narrativamente utile. In sostanza, come è accaduto diverse altre volte sia nel Tempo materiale sia in altri testi che ho scritto, un mio limite è diventato il presupposto per un'azione che non avevo inizialmente valutato: il non saper fare determinate cose ­– e non saper far parlare un undicenne come dovrebbe parlare un undicenne è solo una tra le mie numerose incapacità – ha creato le condizioni per qualcos'altro. 

Per quanto riguarda genesi e gestazione, i primi appunti relativi a quello che sarebbe diventato Il tempo materiale risalgono al 2003 e avevano per oggetto non gli anni '70, che sono arrivati dopo, ma la luce, nel senso che il primo impulso è stato quello di scrivere una storia della luce, qualcosa che desideravo forse in misura dell'ambiguità se non della fallacia strutturale di questo microprogetto (c'era però nella luce – e c'è ancora – qualcosa di affascinante e di struggente, una specie di provocazione, la luce essendo una ‘cosa’ in cui presenza e sparizione coincidono, perché la luce sparisce per rendere presente e percepibile ciò che c'è, facendosi mezzo che permette di vedere; continuo a domandarmi quale lingua possa riuscire a dire tutto questo). Dopo aver scritto un centinaio di pagine di storia della luce, e dopo aver firmato un contratto con Minimum fax sulla base di quelle pagine, non avevo idea di cosa fare; era la primavera del 2007 e io mi limitavo a continuare a prendere appunti, fino a quando non ho deciso di subaffittare un bilocale a Helsinki e usare l'estate per scrivere in un posto fresco e isolato (e, ci penso adesso, ininterrottamente immerso nella luce), il tutto per riuscire a rispettare la scadenza prevista per la consegna del romanzo, settembre 2007. Ho passato in Finlandia qualche mese, ho scritto per tutto il tempo e a settembre ho consegnato una prima stesura di circa un milione di battute. Per un anno ho riscritto il libro cercando di comprenderlo, modificandolo e alleggerendolo di tante parti che erano servite a me per andare avanti nella scrittura ma che non servivano al testo, e a ottobre del 2008 il libro è uscito in una versione leggermente inferiore alle cinquecentomila battute. 

  

 

Nonostante la coesione di cui si parlava prima, c'è una parte del romanzo, quella sul tema della paternità, che sembra abbastanza estranea al resto della storia. Come mai hai deciso di inserirla?

 

La paternità – ambita, mancata – è una questione che, credo, più che essere estranea in sé è presente, nel romanzo, solo come un accenno. In realtà penso sia uno dei moventi di quel libro, soltanto che per una serie di ragioni questo pezzetto di fondamenta testimonia sé stesso solo in modo sporadico, per minuscoli affioramenti. Dunque non si è trattato di ‘inserire’, quanto, eventualmente, di decidere se eliminare qualcosa che apparteneva alla struttura fin dall'inizio. In effetti ci ho pensato a lungo e poi ho deciso di tenere nel testo anche questi affioramenti; il tutto a partire dalla sensazione che raccontare una storia vuol dire anche trascorrere tantissimo tempo a studiare la forma e i comportamenti della propria immaginazione, le sue fissazioni, i suoi tic; e dunque, se anche in Il tempo materiale la questione della paternità esisteva in modo embrionale, sapevo che avrebbe trovato espressione e sviluppo altrove, in un altro libro (che a sua volta presenterà al suo interno il germoglio di qualcosa che verrà sviluppato in un altro libro ancora). In questo senso ogni libro è premessa e prologo – progetto e incubatore – del successivo.

 

 

Tutto il libro è ricco di descrizioni minuziose, che per buona parte del romanzo coincidono con descrizioni di Palermo. All'inizio del romanzo, inoltre, Nimbo effettua un confronto tra Palermo e Roma. C'è, insomma, una grande attenzione verso i luoghi in cui la storia si svolge, attenzione confermata anche nel tuo altro libro, Spaesamento. Qual è il motivo di ciò?

 

Sempre più spesso ho la sensazione che raccontare i luoghi serva anche a raccontare il tempo, come se riuscire a farsi carico con la scrittura del grado di esistenza dello spazio fosse un modo per dire qualcosa sul tempo personale e su quello collettivo. Si tratta di un'ipotesi che si è consolidata in occasione del libro che ho scritto nel corso dell'ultimo anno e mezzo e che uscirà a settembre (Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, pubblicato da Quodlibet nel settembre 2016: http://www.quodlibet.it/libro/9788874628070, n.d.r.). In origine avrei dovuto scrivere un reportage narrativo direttamente legato a un viaggio che ho condiviso con un fotografo attraverso gli spazi abbandonati dalla California alla Louisiana, e dunque avrei dovuto limitarmi a dare forma a un resoconto degli spazi fisici. Scrivendo mi sono accorto che se anche questo modo di procedere mi piaceva – vorrei prima o poi scrivere un libro di sole descrizioni, o meglio ancora di sole formalizzazioni linguistiche della vita sensoriale, senza ‘intelligenza’, senza nessun tentativo di capire qualcosa – c'era però qualcosa di insufficiente, qualcosa che mancava. Terminata la prima stesura ho notato che quanto avevo scritto aveva sì a che fare con lo spazio ma soprattutto descriveva, come una specie di correlativo oggettivo, quello che era successo al tempo e nel tempo successivo al viaggio. La sparizione dei centri abitati, e dunque il destino dei disabitanti, non riguardava solo gli stati del Nordovest americano ma anche me, il modo in cui sono andate le cose in questi ultimi anni trascorsi nella sparizione e nel disabitare. Lo spazio, dunque, si è rivelato presagio del tempo.

 

 

Nimbo è definito «mitopoietico», e sia lui che i suoi compagni sono nevroticamente ossessionati dallo strumento linguistico, fino all'idea che la lingua, per quanto usata efficacemente, possa non bastare. Puoi chiarire questo punto del tuo romanzo, particolarmente evidente nel finale?

 

Penso sia una circostanza narrativa molto classica: il personaggio si addestra, si attrezza, si arma, va in battaglia e nonostante sia così apparentemente perfetto e invulnerabile la battaglia lo metterà di fronte alla sua vulnerabilità, i conti non torneranno, i progetti faranno naufragio. L'armatura di Nimbo – che presume e pretende di essere una specie di eroe della parola – è proprio il linguaggio; per lui lessico e sintassi sono in grado di catturare il mondo in ogni sua più microscopica sfumatura costringendolo a farsi parola. Se la sua ambizione – la sua allucinazione – è questa, allora è pressoché inevitabile che la sua storia abbia come esito constatare, amaramente e con sollievo, che il mondo non si fa prendere tutto nel linguaggio (al limite finge di farsi prendere ma è così strutturalmente esuberante da risultare incontenibile) e che c'è sempre qualcosa, tantissimo, che rimane fuori, non semplicemente non detto ma più esattamente indicibile. Credo che in fondo l'ossessione di Nimbo sia proprio l'indicibile, un'impossibilità che affronta con l'unico strumento che ha a disposizione, appunto la lingua. Per tutto il romanzo è come se Nimbo cercasse di mangiare il brodo con la forchetta: qualcosa tira su, ma la sua azione è sostanzialmente infondata.

 

 

Intervista realizzata in occasione di un incontro tra Giorgio Vasta e gli studenti di Scienze della Comunicazione dell’Università del Salento, nell’aprile 2016.

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