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Venerdì, 06 Gennaio 2017 15:33

Richiami danteschi e riflessioni meta-poetiche nell’ultimo Pasolini: "La Divina Mimesis"

Scritto da Francesca Spinelli

La Divina Mimesis si presenta come lo stadio più avanzato, assieme a Petrolio, degli studi ermeneutici compiuti dall’ultimo Pasolini su Dante. Escludendo il carattere di compiuta incompiutezza che subito viene naturale affidare a questo scritto, in quanto l’autore volutamente lo lasciò incompleto e così volle che esso venisse pubblicato, l’aspetto più interessante dell’opera concerne il piano diegetico/narrativo. Rimanendo sul binario della riscrittura attualizzata dell’Inferno dantesco, si nota infatti che Pasolini scelse di replicare la perfetta identità tra agens e auctor che fu già del suo illustre modello.

L’affinità tra Dante e Pasolini finisce tuttavia qui e, per comprenderne il motivo, bisognerà esaminare il concetto, tutto contemporaneo, di perdita dell’autore, dove il termine autore non vuole riferirsia chi produce un testo o, più in generale, una qualunque opera d’arte.

Leggendo opere canoniche relativamente lontane nel tempo quali, ad esempio, la Commedia stessa e comparando poi lo spirito che anima tale scritto alla convinzione di fondo che permea il testo pasoliniano, ci si rende conto all’istante che vi è un elemento fondamentale che li separa e che il dissidio non si ferma al livello superficiale della diversa religiosità e cultura di Dante da un lato e Pasolini dall’altro. Si nota, infatti, che nell’opera pasoliniana, così come in innumerevoli altre opere di autori contemporanei, l’io scrivente non ha più un punto di riferimento stabile: egli ha perso o non accetta più l’autore, cioè quell’io esotopico e transgrediente in grado di significare noi stessi, quell’altro da sé in grado di dire su noi stessi qualcosa che di noi stessi ancora non riusciamo o non vogliamo comprendere1 .

Si pensi che la guida di Pasolini attraverso l’Inferno a lui contemporaneo non è un’autorità, cioè un altro da sé come il Virgilio dantesco, bensì un altro sé: il suo ipotetico viaggio si colloca «nella “Selva” della realtà del 1963»2e la sua guida, il suo Virgilio, è il sé stesso degli anni ’50, «un’ombra, una sopravvivenza» che ingiallisce «pian piano negli Anni Cinquanta del mondo o, per meglio dire, d’Italia…»3.

Il “viaggio” di Pasolini è un percorso prettamente solitario e individuale (più volte all’interno delle pagine de La Divina Mimesis si insiste su tale condizione di solitudine) che parte dal «Mondo», si svolge nel «Mondo» e termina nel «Mondo», il che significa che il poeta di Casarsa identifica il suo Inferno con il mondo stesso. Inoltre, superando totalmente qualsiasi afflato mistico o escatologico, egli comprende bene che il suo viaggio si dovrà necessariamente svolgere su due piani contemporanei e paralleli, cioè la sua coscienza e il «Mondo».

Dante si perde nella selva oscura per il peccato di essersi dedicato alla filosofia e, attraverso il suo viaggio (che è sostanzialmente un viaggio nella coscienza, ma nella coscienza universale, non individuale), guidato dalla Ragione (Virgilio) e dalla Fede (Beatrice e San Bernardo), giunge alla visione di Dio, ossia al fine ultimo dell’esistenza umana (per un uomo cristiano quale egli era).

Di contro, a Pasolini si offre l’occasione di percorrere il «Mondo» accompagnato più che guidato dalla sola ombra della sua poesia civile (il sé stesso degli anni Cinquanta) e, in solitudine, dovrebbe attraversare l’Inferno e giungere alla visione di due Paradisi, «uno […] sperato» (Comunista), «l’altro solo progettato» (Neocapitalistico)4. Essi, tuttavia, non verranno mai raggiunti, poiché lo scritto si interrompe bruscamente lasciando l’autore/personaggio cristallizzato dentro la realtà infernale del mondo contemporaneo.

Tuttavia, nonostante queste evidenti e più che plausibili divergenze, l’architettura della Commedia fu vitale per l’intera parabola letteraria di Pasolini: per ripercorrere a grandi linee il tema del dantismo pasoliniano si potrebbe iniziare dalla fine, cioè proprio da La Divina Mimesis, che rappresenta dunque il punto di arrivo di una più che trentennale attività di esegesi dantesca.

Già in una lettera a Luciano Serra del 1945, Pasolini affermava che «la questione di Dante è importantissima». A questa dichiarazione seguirono numerosi saggi e articoli dedicati all’opera dantesca. A partire da Dal vero (1953-1954), un componimento contenuto nella raccolta Alì dagli occhi azzurri, passando per la Mortaccia (1959), una sorta di riproposizione in chiave moderna dei primi due canti dell’Inferno, il film Accattone (1960), un saggio intitolato I sintagmi viventi e i poeti morti (1967), poi confluito in Empirismo eretico e Petrolio (postumo, 1992): sono molte le citazioni, sia letterali sia rielaborate, di vari luoghi del poema dantesco. In mezzo si colloca l’uso del poemetto in terzine dantesche ne Le ceneri di Gramsci (1957), uso ripreso ovviamente da Dante con la mediazione del Pascoli dei Poemetti, senza dimenticare altri tre saggi raccolti successivamente in Empirismo eretico, nei quali Pasolini si propose di indagare più nello specifico alcuni aspetti del lavoro dantesco.

Questi ultimi tre interventi devono essere riportati almeno in maniera sintetica, poiché forniscono una radiografia piuttosto precisa del rapporto tra Dante e Pasolini.

Il primo di essi risale al 1964 e si intitola Il discorso libero indiretto; in esso Pasolini affermò, riprendendo poi il medesimo discorso in vari interventi successivi, che «ogni volta che si ha il Libero Indiretto, questo implica una coscienza sociologica5, chiara o no, nell’autore». L’interesse del poeta delle Ceneri per questo procedimento stilistico è fortemente legato alle sue opinioni su Dante. Infatti, continua l’autore nello stesso saggio:

 

Dante si è avvalso di materiali linguistici propri di una società, di una élite: gergali. Che certamente egli stesso non usava, né nella sua cerchia sociale, né in quanto poeta. L’uso è dunque mimetico, e se non si tratta di una vera e propria mimesis vissuta grammaticalmente, è certamente una sorta di emblematico Libero Indiretto […]: esso è piuttosto lessicale, e sacrifica l’espressività tipica del Libero Indiretto all’espressività derivante dall’omologazione nel tessuto linguistico di chi narra col tessuto linguistico dei personaggi: non come un mezzo tecnico abnorme, ma come uno dei tanti naturali mezzi espressivi. […] La scelta linguistica è il primo sintomo di una coscienza sociale […]. Dante ha una chiara coscienza delle categorie sociali […]: che è profondamente democratica [...]6 .

 

Nel secondo dei tre saggi citati, cioè La volontà di Dante a essere poeta (1965), si parla ancora dello stile di Dante:

 

si tratta di un’equidistanza rigorosamente mantenuta tra l’autore e gli infiniti aspetti particolari del suo mondo. […] Ma tale ferrea legge dell’equidistanza non soltanto fa sì che […] l’atteggiamento morale e sentimentale di Dante sia sempre lo stesso verso i suoi personaggi e i suoi fatti: ma fa sì anche che Dante sia sempre equidistante da se medesimo, ossia dai propri sentimenti […]. Dante ha potuto ottenere questo incorporando se stesso nella sua materia, cioè rendendosi protagonista del poema. I sentimenti perciò non sono mai i suoi, ma sono del Dante personaggio […]78 .

 

Tali affermazioni, che in effetti sembravano negare la capacità di Dante di sdoppiarsi ed essere contemporaneamente e compiutamente agens e auctor, secondo una felicissima espressione di Gianfranco Contini condivisa in maniera quasi unanime dalla critica dantesca, suscitarono le reazioni furiose di Cesare Segre, al quale Pasolini rispose con un altro intervento, che è intitolato La mala mimesi (1966).

In esso, oltre a ribadire posizioni già espresse in precedenza, Pasolini scrisse:

 

Il discorso libero indiretto non si ha esplicitamente nella Commedia per la semplice ragione che Dante narratore è anche Dante personaggio: ed è lui, sia in quanto narratore che in quanto personaggio, che racconta. L’unica possibilità di discorso libero indiretto nella Commedia era così quello del Dante personaggio […]9 .

 

L’idea di “Divina Mimesis” rimanda subito non solo al concetto di mimesi in quanto rappresentazione della realtà già analizzato da studiosi del calibro di Auerbach, ma anche e soprattutto alla Commedia di Dante, chiamata “Divina” sin da Boccaccio.

Dal punto di vista contenutistico, l’operazione condotta ne La Divina Mimesis venne così illustrata da Pasolini in persona in Progetto di opere future (1963): «[…] all’Inferno arcaico […] / s’inserisce un inserto d’Inferno dell’età / neocapitalistica, per nuovi tipi / di peccati (eccessi nella Razionalità / e nell’Irrazionalità) a integrazione degli antichi»10.

In breve, il poeta friulano volle sublimare una propria esperienza autobiografica avvalendosi del modello letterario per eccellenza della civiltà occidentale, fondendolo con richiami biblici ma soprattutto con allusioni al mondo classico e alla sua contemporaneità.

Riproponendo il tòpos del viaggio nell’Inferno, che in Pasolini viene a coincidere brechtianamente con la città neocapitalistica, lo scrittore volle mostrare la crisi della sua coscienza e della società in generale, immersa irrimediabilmente in un piatto «stato di normalità»11.

Appare quindi facile immaginare che in un tale contesto l’autore non pensasse più che fosse possibile ritornare a conoscere e possedere la «luce della vecchia verità, […] quella davanti a cui non c’è più niente da dire»12,e che può subito essere identificata proprio con la poesia. L’ultimo Pasolini, stretto tra abiure e visioni profetico-apocalittiche del «Nuovo Corso della Storia», perse la «speranza de l’altezza» e non poté più trovarla. Al di là di questa inconfutabile constatazione, ci si chiede però quanto Pasolini, «ormai privo dell’autorità della poesia»13, fosse realmente sfiduciato o quanto invece si ostinasse a credere di poter superare la sua crisi intellettuale (e privata) se nella stessa Divina Mimesis, in riferimento proprio alla sua guida, scrisse:

 

[…] ma lo sguardo che ancora gettò su di me […] era così disperatamente puro: simile a qualcosa di vagamente luminoso che persista nel paesaggio fosco di una pioggia invernale; qualcosa che, a onore della vita e quasi del cosmo, si ostini a luccicare in un po’ di tetro fango. Era forse la cieca testardaggine della poesia, la sua presenza materiale14.


 

Note:

1 Questa riflessione è sviluppata, tra gli altri, a partire da un concetto esposto da C. A. AUGIERI in un saggio contenuto nel suoEvocazione e parola enunciativa. Per una stilistica ermeneutica del testo letterario, Lecce, Milella, 2014, pp. 107-130.
2 Tutte le citazioni da La Divina Mimesis provengono dal secondo volume dell’edizione dei Meridiani di Mondadori dedicata alle prose di Pasolini: P. P. PASOLINI, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Arnoldo Mondadori, collana I Meridiani, 1998, vol. 2. Per comodità, da questo momento in poi si indicherà in nota la sigla “DM” seguita dal numero della pagina (o delle pagine) da cui è tratta la citazione. In questo caso: DM, p. 1075.
3 DM, p. 1082.
4 DM, p. 1086.
5 In corsivo nel testo.
6 P. P. PASOLINI, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, pp. 88-91.
7 I corsivi sono nel testo.
8 Ivi, pp. 117-118.
9 Ivi, p. 122.
10 P.P. PASOLINI, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano, Arnoldo Mondadori, collana I Meridiani, 2003, vol.1, pp. 1251-1252.
11 Per un approfondimento di questo concetto si veda P. P. PASOLINI, Le belle bandiere. Dialoghi 1960- 1965, a cura di G. C. Ferretti, Roma, Editori Riuniti, 1977
12 DM, p. 1075.
13 DM, p. 1081.
14 DM, p. 191.

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