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Martedì, 27 Dicembre 2016 08:03

Il poema delle cose "mancate da-per-sempre": "’l mal de’ fiori" di Carmelo Bene

Scritto da Alessio Paiano
Carmelo Bene Carmelo Bene

                            Disvoluta invisibile ma cieca [anatomia 6]

  

Disvoluta invisibile ma cieca

in altrove de’ sensi paradisi

s’è innamorata di mia similvita

una d’aria ragazza che non sa

d’esser sonata e mi solfeggia un che                                                      5

din din tac tà crà crà bum bum nel riso

che staccato gratuito par appreso

in ascoltar il mio impensato star

prima dei fiori allora che non era

carne senza concetto a la manìa                                                                  10

d’un’animachessia traumato soma

che nel sembiante sparto è da nasale piramide

aspirante a la che intimato è immota starsi

s’è profumo di zagare e in torcer de le nari

aggrinzar l‘ingrugnite cartilagini                                                                   15

s’è fetore ’nformato in l’olfattivo bulbo

dentro della patrona sua pensosa materia

che al contraffar del naso indifferente

sola è incline a sgustarsi

e mai questa accusar ch’è flatulenza                                                             20

d’Essere

 

Strema la mano lei dovrebbe scrivermi più spesso

   che non si dia in frangenti come questi

               dove forzato da nessuna istanza

seguita il tratto a dir                                                                                   25

del muso ch’è smorfiato

in rubicondo ore Li orizzonti

labiali tende il muscolo risorio

a inscoprir superinfera arcodonda

la corona d’eburnea madreperla                                                                  30

trentaduevolte seviziata in tessere

radicate ’n gingiva pulpa dentis

Ahiunosolo frantuma  in mugghìo ghigno

che non sai più sorridermi d’estate mai trascorsa

noi due insieme hai scordato ed è finita                                                        35

un solhai ! fa la mente addio per dove chissà ci rivedremo

stupidita

com’è in l’O ch’è la croce ’n carne terrea

tumida delle labbra da le glandule

fitte sì come gli acini ne’ grappoli d’Isabella ch’è l’uva                                      40

ne ’l sanguigrumo brulicar enfiato

rattenute siccome ’n vitrea forma

da pellicine ’n scaglie

che son veli che son caduco screpolo

se non molli di bava a mò di prode                                                                45

arse se non bagnate d’ondaschiuma

dell’umore secreto ch’è dei baci baciati - gli arti e i muri di calce

     da poetica indù laluna d’ambra in gramaglie

     di serate ch’hanno in testa quel cielo

   d’amaranto non più -                                                                               50

baci ’mpressi a la bocca imbavagliar

in vaporio de li aliti confuso

in sugger lingua e lingua in non si dir

 

Attardato che sia disvelto è il bacio

dall’urgere del fiato ’n faringea la grotta                                                        55

e ’n l’incavato tubulo nel collo

ch’è laringe ’n che vibrano vocali

corde e ’l tremor fa lo spirar del soffio

dicente suono che - sottratta al succhio -

dato è alla lingua articolar de’ baci                                                               60

la vicenda cortese ‘n che l’amor

de l’amor della voce è innamorato

 

Voce mia tua chissà chiamare questo

Mia tua chissà la voce che chiamare

ventilato è suonar che ne discorre                                                               65 

in che pensar diciamo e siamo detti

vani smarriti soffi rauchi versi

prescritti da un voler che non si sa

disvoluto e alla mano intima incisi

segni qui divertiti disattesi                                                                         70

sensi descritti testi

d’altri che morti fiati

dimentichi ’n mia tua chissà la voce

 

Noi non ci apparteniamo È il mal de’ fiori

Tutto sfiorisce in questo andar ch’è star                                                     75

inavvenir

Nel sogno che non sai che ti sognare

tutto è passato senza incominciare

‘me in quest’andar ch’è stato

 

 

 

‘l mal de’ fiori (Bompiani, 2000) è un poema scritto da Carmelo Bene tra il 1999 e il 2000 nella sua casa di Otranto, in un periodo di «isolamento assoluto»[1] in cui l’autore è costretto a subire diversi trattamenti chemioterapici. Si tratta di un libro di ardua lettura in cui Bene, secondo Sergio Fava, «opera sul confine di precari equilibri semantici»[2], tanto da dare al lettore l’impressione di percorrere «un labirinto orfano del Minotauro»[3]. E ‘l mal de’ fiori è infatti un mirabile complesso architettonico-grammaticale – «Corpus architettonico»[4], lo definisce Fava – caratterizzato da un’ipersaturazione retorica (metaplasmi, parole macedonia, malapropismi, anacronismi, lapsus, doppi sensi, ecc.) e da uno strabordante plurilinguismo – non uno sfoggio di abilità linguistiche, ma un insistente tentativo di ricomposizione di una lingua arcana, ‘pre-storica’ – che si realizza attraverso la sovrapposizione di lingue distanti nel tempo (il provenzale, il latino, un italiano ‘aurorale’ caratterizzato da frequenti arcaismi) e nello spazio (spagnolo, portoghese, milanese, toscano, napoletano, romanesco, salentino). È così che Bene crea una lingua ‘scorporata’ dal soggetto – che è, deleuzianamente, «straniero nella propria lingua»[5] – raggiungendo, come sottolinea Simone Giorgino, una «piena maturità espressiva e la maggiore concentrazione nell’esposizione delle sue dottrine estetiche e filosofiche»[6].

Disvoluta invisibile ma cieca (p. 35-37) è uno degli otto testi raggruppati in Anatomie, sezione in cui Bene descrive la vita umana come fatto essenzialmente biologico e in cui il corpo è inteso come «carne senza concetto». È una sezione, insomma, in cui Bene sviluppa una poesia che potremmo definire ‘clinica’ e che gli permette di obliterare ogni più vieta formula della lirica tradizionale:

 

la poesia – scrive Giorgino – si fa medicina, non nel senso di terapia, ma nel senso di scienza esatta, gelida e cinica in questa sua inedita declinazione. Scienza che si propone di studiare la conformazione e la struttura degli esseri viventi e anche la loro vita psichica, riducendo a fatto essenzialmente biochimico la varietà dei pensieri, sentimenti e attività umani. Per descrivere il mondo interiore del soggetto, più che la sensibilità di poeti e filosofi, è allora indispensabile, secondo l’ottica cinica di Bene, un buon manuale di medicina interna. Noi non abbiamo un corpo, siamo un corpo.[7]

 

Il testo è suddiviso in cinque strofe (I, vv. 1-21; II, vv. 22-53; III, vv. 54-62; IV, vv. 63-73; V, vv. 74-79) ed è caratterizzato dall’uso di una metrica pressoché tradizionale: l’endecasillabo è alternato con ipermetri di carattere più discorsivo (in particolare il v. 40 e il v. 47) o versi più brevi come settenari (in maniera insistente verso la fine del testo), trisillabi (v. 21), quadrisillabi (v. 37 e v. 76) o senari (v. 50). Il doppio spazio bianco, con valore di virgola o di punto, supplisce all’assenza quasi totale di punteggiatura (se si eccettuano il punto esclamativo e il trattino breve). Le rime, laddove presenti, sembrano inserite allo scopo di puntellare un ‘disegno’ fonico-sonoro ben preciso. Si tratta, spesso, di rime o assonanze interne di tipo montaliano: «in alscoltar il mio impensato star» (v. 8); «carne senza concetto a la manìa / d’un’animacchessia traumato soma» (vv. 10-11); «che nel sembiante sparto è da nasale piramide / aspirante a la che intimato è immota starsi» (vv. 12-13); «attardato che sia disvelto è il bacio / dall’urgere del fiato ’n faringèa la grotta» (vv. 54-55); «da poetica indù laluna d’ambra in gramaglie / di serate ch’hanno in testa quel cielo / d’amaranto non più» (vv. 48-50). Non mancano, tuttavia, casi di rima baciata o assonanze a fine verso come nel caso di riso: appreso (vv. 6-7), soffio: succhio (vv. 58-59), sognare: incominciare (vv. 77-78). L’intricato ed elegante tessuto delle allitterazioni è un’altra caratteristica particolarmente rilevante: nei primi versi si insiste sul suono della fricativa alveolare sorda [s], come nel caso di «appreso / in ascoltar il mio impensato star» (vv. 7-8); e lo stesso suono domina anche in «che nel sembiante sparto è da nasale piramide / aspirante» (vv. 11-12). Più avanti registriamo un’allitterazione della fricativa labiodentale [f], precisamente nel v. 16: «s’è fetore ‘nformato in l’olfattivo bulbo»; stesso suono che si ripeterà nel v. 55: «dall’urgere del fiato ‘n faringèa la grotta». L’allitterazione, in alcuni casi, ricalca quasi mimeticamente i suoni prodotti dal corpo. Ciò risulta particolarmente evidente nel v. 57 in cui la ripetizione della fricativa labiodentale sonora [v] in «ch’è laringe ‘n che vibrano vocali» induce il lettore a riprodurre mentalmente la vibrazione descritta nel testo. Nei successivi vv. 58-59 si presenta ancora l’allitterazione di [s]: «corde e ’l tremor fa lo spirar del soffio / dicente suono che - sottratta al succhio -», concretizzando cioè, nell’atto della lettura a voce alta, l’immagine del soffio, ossia del suono che viene prodotto dalla vibrazione delle corde vocali. Esemplare il caso del v. 51, «baci ’mpressi a la bocca imbavagliar», che insistendo sull’utilizzo delle bilabiali occlusive [b] e [p] costringe il lettore a compiere per ben quattro volte un’operazione che ricorda lo schiocco di un bacio.

Argomento della poesia è l’incontro con una donna, una «ragazza che non sa», in un tempo narrativo in bilico tra un presente materiale, fisico, e un tempo mentale, indefinito, in cui irrompono le divagazioni della voce narrante. Tema centrale è certamente l’incomunicabilità tra i due protagonisti: dapprima una distanza fisica che l’io-poetante (non lirico) interpone tra sé e la ragazza; poi una distanza totale, di natura esistenziale, che si affermerà dopo la ‘vivisezione’ del corpo di lei, ma che comunque è già in nuce nei versi iniziali. La voce narrante fugge da questo dialogo impossibile, ricordando nostalgicamente il «prima dei fiori», cioè il tempo dell’‘inorganico’ (della non-vita) cui si oppone la vita di chi è recluso all’interno del «traumato soma» (il corpo), che è «sparto», diviso, dalla «nasale piramide aspirante» (il naso, centro della vita organica e ‘motore’ del respiro). Ed è proprio «in torcer de le nari / aggrinzar l’ingrugnite cartilagini» che il «fetore» del vivente è percepito, quindi «’nformato» e finalmente assorbito dal corpo attraverso il naso, l’«olfattivo bulbo» che è ‘incastonato’ nella «patrona sua pensosa materia». La percezione olfattiva è sempre un «contraffar» operato dalla ragione, cioè dalla sensibilità soggettiva che ‘desta’ il naso dalla sua condizione ‘statuaria’ d’immobilità, allorquando era solo un ‘calco marmoreo’, un «naso indifferente». Il corpo è sensibile alle cose del mondo ed è «incline a sgustarsi» perché ne percepisce il «fetore» ma non riesce a comprendere che questa sensazione di disgusto è data dalla nostalgia di quella «situazione antica, di partenza» di cui parlava Freud in Al di là del principio di piacere. Tutto è «flatulenza / d’Essere», e il mondo dei viventi è condannato a essere solo uno scarto nauseabondo della rimpianta condizione di non-esistenza.

Nel v. 15 si sviluppa una sorta di dialogo in forma di discorso indiretto libero in cui è particolarmente evidente l’influenza dell’Ulysses di Joyce, opera che Bene considera «un fantastico gioco di significanti» in cui «il pensiero non è mai descritto, ma immediato»[8]: «strema la mano lei dovrebbe scrivermi più spesso / che non si dia in frangenti come questi / dove forzato da nessuna istanza», dialogo in cui la ragazza, stringendo la mano all’uomo, gli chiede di scriverle più spesso, quando avrà più tempo da poterle dedicare e non semplicemente in «frangenti come questi»; inoltre auspica che lui le scriva liberamente, per piacere di farlo e «forzato da nessuna istanza», cioè da nessuna richiesta.

Come all’inizio della poesia, il dialogo è immediatamente interrotto a causa delle divagazioni della voce narrante. Improvvisamente la donna pare ammutolirsi, e su di essa si compie una ‘vivisezione’ che inizia dal «tratto del muso ch’è smorfiato», cioè la bocca, definita, con un latinismo, «rubicondo ore» che «seguita» a «dir»: la donna sta ancora parlando, ma il suono della sua voce non è più percepito. L’analisi procede più internamente fino a soffermarsi sul «muscolo risorio» che «tende», nell’atto del ridere, «li orizzonti labiali», provocando l’apertura della bocca fino a «inscoprir» la «corona d’eburnea madreperla», il dente che si trova all’interno della «superinfera arcodonta», ossia il palato, presentato come una cavità infernale in cui i denti sono disposti ad arco. L’ambientazione ‘infernale’ della bocca è rimarcata dal verso «trendaduevolte seviziata in tessere», che dà l’idea di un atto di ‘tortura’ dei denti ai danni della «gingiva», la quale dolorosamente si àncora a essi tramite la nervatura della «pulpa dentis». Ne deriva un effetto di ‘tensione’ corporea che investe tutto l’apparato dentale. L’analisi però si focalizza su un solo dente, «ahiunosolo», che «frantuma in mugghìo ghigno», un sorriso quasi mefistofelico, rimarcato dall’utilizzo della nasale palatale [ɲ]. Non bastano le insistenti parole della donna, alla quale è dedicato un ascolto solo fugace, a distogliere l’attenzione dalla sua bocca. La ragazza tenta un ultimo, patetico, appello: «non sai più sorridermi d’estate mai trascorsa / noi due insieme hai scordato ed è finita».

Il poeta è ormai immerso solo nel pensiero di quel dente, «unsolhai!», mentre la ragazza con aria «stupidita» accenna un timido e romantico «addio» («per dove chissà ci rivedremo»). In questi ultimi istanti del loro incontro prosegue la ‘vivisezione’ della bocca, graficamente figurata nel testo come una «O» e immediatamente definita «croce ’n carne terrea», perché generatrice di un discorso che è sempre, costituzionalmente, ‘difettoso’. La bocca è gonfia, «tumida», a causa delle «glandule» delle labbra che sono così fitte da sembrare «grappoli d’Isabella ch’è l’uva», particolare varietà di uva nera dal sapore dolciastro e quindi ritenuto di basso pregio. Le «glandule» della bocca sono trattenute insieme a stento, («rattenute» è forma verbale di tradizione trecentesca), perché devono adattarsi al «brulicar» del sangue coagulato o «sanguigrumo» definito «enfiato», cioè tumefatto. Il poeta descrive una situazione di decadimento del corpo attraverso la «vitrea forma» delle labbra, caratterizzate da «pellicine ‘n scaglie», raffigurandole, cioè, come un vetro in frantumi, «veli che son caduco screpolo». Le labbra possono essere «molli di bava» come le «prode» all’infrangersi delle onde, lemma usato nel v. 45 col significato di ‘coste’, e già attestato in Dante, Purg., VI, 85; oppure sono «arse» o bagnate dall’«ondaschiuma» che si infrange sulle «prode», la quale è causata dall’«umore secreto», ossia dal liquido che la bocca secerne durante i «baci baciati». Il v. 47, per lo stesso motivo del v. 45, è di sapore dantesco, sia per l’utilizzo del lemma «umore» (che in Purg. XXV, 78 è «omor», col significato di ‘liquido’) sia per la paronomasia in «baci baciati», figura retorica tra le più utilizzate sia nel ‘l mal de fiori sia nella Divina Commedia.

Nello stesso v. 47 vi è uno stacco improvviso, segnalato dal trattino breve, che introduce una quartina molto significativa e ricca di rimandi intertestuali: «gli arti e i muri di calce / da poetica indù laluna d’ambra in gramaglie / di serate ch’hanno in testa quel cielo / d’amaranto non più». Nel brano si sviluppa la descrizione di un paesaggio poetico, a tratti idillico, in cui risaltano «i muri di calce», che possono ricordare la «muraglia»[9] di Meriggiare pallido e assorto di Montale e la «calce»[10] in Tu non conosci il Sud di Vittorio Bodini; «laluna d’ambra» da «poetica indù» in «gramaglie», ossia in abito luttuoso, richiama l’ambientazione lunare del Canto notturno di un pastore errante nell’Asia; inoltre «gramaglie» è un termine utilizzato da Leopardi in Dialogo di un folletto e di uno gnomo, nelle Operette Morali, in cui, nonostante la scomparsa improvvisa degli uomini, «le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie»[11]. Il cielo «d’amaranto», infine, ricorda la luce della luna in Nel sonno, ancora di Montale, in cui «entra la luna / d’amaranto nei chiusi occhi, è una nube / che gonfia; e quando il sonno la trasporta / più in fondo, è ancora sangue oltre la morte»[12].

Dopo questa quartina, Bene prosegue la sua ‘vivisezione’ nel tentativo di ricercare il principio fisico della fonazione. Sono i «baci ’mpressi», già introdotti nel v. 47, a «imbavagliar» le bocche, nelle quali si sviluppa un «vaporio de li aliti confuso», che rimanda al «fetore» del v. 16. L’aggrovigliarsi delle lingue è indicato dal verbo «sugger», utilizzato da Leopardi nel v. 105 dell’Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano[13], che Giuseppe De Robertis, nell’edizione critica ai Canti, chiosa come «consuma, succhiandone quasi la vita»[14]. Da ciò deriva l’‘impossibilità’ della parola, un «non si dir» che, dalla lettura dei versi successivi, si presenta come un mutismo, più che temuto, auspicato. Il bacio, anche se «attardato», è finalmente «disvelto», participio dantesco attestato in Inf., XIII, 95, cioè nell’episodio in cui Pier delle Vigne spiega a Dante che l’anima, prima di giungere a Minosse, «si parte» dal corpo «ond’ella stessa s’è disvelta». Il bacio è interrotto dall’«urgere del fiato» che spinge nella faringe, descritta, anch’essa, come una «grotta» infernale. Il fiato, poi, preme la laringe, raffigurata nel v. 56 come «l’incavato tubulo nel collo» in cui «vibrano» le «vocali corde», il cui «tremor» produce lo «spirar del soffio» che produrrà il «dicente suono», la voce. Finalmente la lingua, «sottratta al succhio», può esprimersi, «articolar» il linguaggio amoroso degli amanti, in cui «l’amor / de l’amor della voce è innamorato». Ed è evidente come la ripetizione del sostantivo «amor» miri a degradare l’amor cortese di matrice provenzale in un ormai estenuato «amor facchino».

Bene conclude la poesia con una desolante constatazione: tutto ciò che diciamo non è che un suono «ventilato» che si disperde nel ‘vuoto’ del mondo; altro non è, il linguaggio, che un produrre «vani smarriti soffi rauchi versi». Appare, terribile, la consapevolezza di un «volere che non si sa», sconosciuto e «disvoluto», che rende tutto ciò che si dice già deciso, ‘prescritto’. La parola detta e la parola scritta in forma di segni «divertiti disattesi / sensi descritti testi» non rispondono al volere di chi li produce ma sono sempre «d’altri». È lo «scritto del morto orale» (espressione coniata da Bene), dei «morti fiati dimentichi», che trasforma la pagina scritta in una lapide dell’oralità, una voce ormai perduta che non appartiene più a nessuno («mia tua chissà la voce»). Piergiorgio Giacché definisce perciò ‘l mal de’ fiori come una «tomba in cui il morto orale è stato seppellito vivo»[15]; e anche per Giorgino il poema è «la trascrizione di un canto un tempo vivo e pulsante» che nella pagina diventa l’«imbalsamazione di un canto caotico precedente al linguaggio, di una voce che si manifesta come ascolto di un demone»[16]. Se il linguaggio non appartiene a chi lo produce, se l’io-lirico non può esistere perché gli è negata l’espressione, allora bisogna accettare che «noi non ci apparteniamo».

Bene percepisce il paradosso di vivere in perenne ‘distanza’ dalla vita organica, come in dormiveglia, in un «sogno che non sai che ti sognare». Nel Mal de’ fiori svanisce ogni possibilità di collocare la vita nel tempo, perché «tutto è passato senza incominciare / ’me in quest’andar ch’è stato». È, questo, un costante anacronismo esistenziale che Fava colloca «nel non-nominabile mai accaduto cui da sempre allude il Vuotobuiomusicale della sua Opera»[17]. Un tempo ‘sfocato’ che Bene vive al di fuori della cronologia; un tempo in cui l’Io non può più esistere, perché costretto a vagare, naufrago, «in questo andar ch’è stato».

 

 

 

[1] G. DOTTO, Elogio di Carmelo Bene. A dieci anni dalla scomparsa, Napoli, Tullio Pironti Editore, 2012, p. 30.

[2] S. FAVA, Presentazione, in C. BENE, ‘l mal de’ fiori, Milano, Bompiani, 2000, p. IX.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] C. BENE, G. DELEUZE, Sovrapposizioni, Macerata, Quodlibet, 2002, p. 100.

[6] S. GIORGINO, L’ultimo trovatore. Le opere letterarie di Carmelo Bene, Lecce, Milella, 2014, p. 299.

[7] Ivi, p. 308.

[8] G. DOTTO, C. BENE, Vita di Carmelo Bene, Milano, Bompiani, 1998, p. 113.

[9] E. MONTALE, Ossi di Seppia, in ID., Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1984, p. 30.

[10] V. BODINI, Tutte le poesie, Nardò, Besa, 2010, p. 93.

[11] G. LEOPARDI, Operette Morali, Rizzoli, Milano, 1980, p. 104

[12] E. MONTALE, La Bufera e altro. 1940-1954, in ID., Tutte le poesie, cit., p. 200.

[13] G. LEOPARDI, Canti, a cura di G. De Robertis, Firenze, Le Monnier, p. 94: «Tal fra le vaste californie selve / nasce beata prole, a cui non sugge / pallida cura il petto, / a cui le membra fera tabe non doma».

[14] Ivi, p. 95.

[15] P. GIACCHÉ, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Milano, Bompiani, 2007, p. 189.

[16] S. GIORGINO, L’ultimo trovatore, cit., p. 278.

[17] Ivi, p. XXVI.

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