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Martedì, 13 Dicembre 2016 22:21

Intertestualità nella "Ferocia" di Nicola Lagioia

Scritto da Camilla Mauro

Con La ferocia Nicola Lagioia rivendica e mette in pratica il diritto/dovere – a suo dire – di ogni scrittore: sondare le profondità e le zone d’ombra dell’animo umano alla ricerca di un’idea non univoca dell’uomo e del mondo. Nel romanzo il mezzo attraverso cui questa ricerca viene portata avanti è il genere noir, occasione per indagare su corruzione e giochi di potere (che ben rappresentano uno dei volti del Sud e dell’intera Italia) passando per il racconto delle vicende della famiglia Salvemini.

Il presente articolo mira essenzialmente a mettere in luce la maniera in cui influenze, letterarie e non, diversissime fra loro, sono state armonicamente incorporate da Lagioia nella sua narrazione, ricca di analessi più o meno lunghe e caratterizzata dallo scardinamento di ogni linearità cronologica. Come vedremo, il fitto dialogo intrattenuto da Lagioia con la tradizione letteraria (la lezione di Emily Brontë, George Trakl, William Blake, Joseph Heller, Oscar Wilde, William Shakespeare1, Johann Goethe2 e dei migliori tragediografi greci) è assimilata e unita a suggestioni provenienti da serie tv e musica - si pensi ad A Change Is Gonna Come, canzone di Sam Cooke, o ai richiami ad alcune opere di David Lynch, prima fra tutte Twin Peaks3. Se è presente, dunque, una certa tendenza modernista nel rifarsi a modelli letterari della classicità fino al Novecento, la commistione fra letteratura alta e produzione bassa testimonia che l’unico recupero possibile, non anacronistico né velleitario, della tradizione letteraria passa anche da una personale rielaborazione della cultura postmoderna, inevitabile per uno scrittore nato nel 1973.

Nonostante l’aspetto corale del racconto, protagonisti indiscussi sono Michele e Clara, fratellastri, figli di Vittorio, pecore nere della famiglia di palazzinari baresi. Mentre Clara compare già nell’incipit del romanzo – più simile ad uno spettro che ad una persona reale, nuda, pallida, coperta di lividi e sangue cammina di notte al centro della statale Taranto-Bari – Michele entra in scena soltanto dopo un centinaio di pagine: è nella Galleria Nazionale di Arte moderna a contemplare La visita della sera, dipinto raffigurante una tigre in un luogo che dà l’idea di essere un punto dell’anima più che un posto concreto: «La tigre era un premio e il giardino uno spazio interiore»4.

C’è nel giovane uomo la volontà di essere proprio una tigre, di rigettare con ferocia le ingerenze del padre che anche ai figli riserva il ruolo di pedine da manovrare sulla scacchiera del profitto, in una partita che quasi mai si disputa nei limiti della legalità. In questo senso è emblematico l’affare di Porto Allegro che rischia di mettere a repentaglio l’agiatezza dell’intera famiglia Salvemini: si tratta di duecentocinquanta ville a schiera costruite sulla costa del Gargano, senza rispettare le norme edilizie e sotto le quali sono stati interrati dei rifiuti tossici. Proprio di queste illegalità si servirà Michele per vendicare la sorella, letteralmente picchiata a sangue durante un’orgia ma fatta passare per suicida allo scopo di ricattare, mai esplicitamente, gli amanti di lei in grado di giocare un ruolo chiave nel già citato affare.

«Si introdusse nella villa come fosse casa sua, nonostante lo fosse stata per vent’anni»5 è una frase che ben anticipa uno dei temi fondamentali della seconda sezione del romanzo, Divenni pazzo, con lunghi intervalli di orribile sanità mentale: Michele ha, sin da piccolissimo, la sensazione di non essere parte della famiglia, prova disagio nell’occupare uno spazio diverso da quello della sua camera, sente la distanza che corre fra lui e i fratelli, per quanto non riesca subito a metterla a fuoco. Per usare la felice espressione della psicanalista tedesca Renate Göckel, egli è alla ricerca della buona madre con cui instaurare il legame simbiotico di cui è stato privato nei primi anni di vita. Non essendoci in casa nessuno disposto a soddisfare i suoi bisogni affettivi, Michele si dissocia in maniera sempre più netta dalla realtà, inventa una madre di cui ignora la natura puramente immaginaria. La presa d’atto è estremamente dolorosa ed acuisce la tendenza del ragazzo ad annullarsi in un dolore segreto – gestibile, conosciuto – per non affrontare quello che gli deriva dalla meschinità della famiglia, che gli nega la legittimazione ad esistere:

 

 […] lui, osservando al rallentatore l’evoluzione degli eventi, ricostruisce lo schiaffo emotivo che sta per colpirlo poco prima che accada, un dolore segreto che anticipi quello conclamato e lo sconfigga, lasciando una parte di sé inviolata6.

 

Il dolore di cui nessuno sa niente possiede solchi in cui è possibile nascondersi7.

 

Solo Clara entra in empatia con lui e Divenni pazzo è, appunto, il racconto della nascita e dell’evoluzione del rapporto asfittico fra i due fratelli, intaccato dal periodo scolastico sostitutivo che la ragazza trascorre ad Eastbourne. Al suo ritorno, si trova davanti un altro Michele, più schivo, meno propenso alle manifestazioni d’affetto e sempre più rancoroso nei confronti di quella famiglia che, con l’approvazione neanche tanto tacita di lei, tenterà di bruciare viva:

 

Michele era lì dentro. Se n’era andato quello persuaso a rifarsi una vita. Ma il ragazzo intenzionato a bruciare viva la famiglia, quello che spegneva le sigarette sul mappamondo celeste alludendo ad un loro incontro in un luogo oltre la morte che solo adesso Clara sentiva compiutamente, quel ragazzo era lì, si muoveva tutto intorno con il respiro della sera8.

 

Tutta la vita di Clara è il tentativo, più o meno conscio, di riaprire un dialogo con quel Michele: la strada che si propone di battere per riuscirci è fatta di sesso e cocaina, come si capisce completamente in Tutte le città puzzano d’estate, ultima sezione del romanzo che sembra alludere, oltre alla cappa di afa e smog che rende l’aria estiva irrespirabile, anche al brulicante sottobosco di malaffare scoperchiato da Michele e, soltanto a questo punto, completamente chiaro anche al lettore, a cui l’intricatissimo intreccio ordito da Lagioia, ricco di indizi e rimandi, richiede un ruolo attivissimo. Il ragazzo scopre la verità sulla sorella sospinto dal caso: non è un detective alla Sherlock Holmes, non è logico e deduttivo.

L’autore afferma che «essendo un mezzo psicotico, non usa i mezzi della ragione»9 e, ancora, «come strumento d’indagine, ha la luccicanza»10: Michele capisce che qualcosa sta succedendo proprio sotto ai suoi occhi, ma non riesce a collegare i puntini e, anzi, sarebbe tornato a Roma in un nulla di fatto senza una serie di incontri fortuiti. Particolarmente interessante è quello con Sangirardi, da cui emerge l’immagine di un Sud impoverito e messo in ginocchio a causa degli interessi dei poteri forti, quasi impossibili da colpire perché si proteggono fra loro. Risulta ben ponderata, dunque, la scelta del noir che, a differenza del giallo, presuppone la presenza di un ambiente torbido in cui il male è parte integrante del sistema. Lo stesso Michele, per mandare in rovina la sua famiglia, non ricorre all’aperta denuncia (che non sarebbe efficace) ma al ricatto. È singolare che Lagioia non descriva il tracollo dell’impero Salvemini: non importa affatto come, purché l’antica offesa sia vendicata e le Erinni, ormai pacificate, possano diventare Eumenidi. Inoltre, a poche pagine dalla fine del romanzo, il lettore sa già cosa succederà, mentre i Salvemini ne sono ancora all’oscuro. Michele si sforza di mantenersi neutro, vuole portare una catastrofe «di cui non si sia avuta la minima avvisaglia»11. L’effetto che ne deriva ricorda l’ironia tragica di stampo sofocleo. Guardando in retrospettiva, la stessa Clara per tutto il romanzo è stata una sorta di spettro, «una presenza proveniente da un disastro futuro»12 attraverso cui si compiono le leggi del γένος: come nella tragedia classica, vendicare la memoria della sorella, “bruciare” finalmente la casa della loro adolescenza rende Michele libero, nonostante il dolore.

 

 Davanti a sé non c’era più Clara, ma i giorni che ancora dovevano arrivare. Lo spazio vuoto e spaventoso, un’immensa pagina bianca13.

 

Entrambi i fratelli danno l’impressione di abitare un’altra dimensione, onirica e rarefatta, in cui cade ogni distinzione fra passato, presente e futuro. È come se avessero piena coscienza di un mondo metafisico che invece gli altri personaggi riescono ad avvertire – sotto forma di strane percezioni – soltanto in misura molto minore e avendo a che fare con loro.
Si pensi alla difficile gravidanza di Annamaria, moglie di Vittorio, che descrive Clara come una sorta di presenza ostile che abita le sue carni e che proviene, appunto, da un altro luogo raggiungibile unicamente «a prezzo di sofferenze lancinanti»14. La bambina sembra destinata ad una non appartenenza familiare ancor prima di nascere perché, proprio come Michele

 

 figlia non di un altro padre ma di una madre diversa, un remoto principio femminile che – conoscendo, anzi approvando la ferocia della bimba – l’avesse posta in un grembo verso cui non era necessario essere clementi15.

 

C’è un destino comune da compiere, un «gigantesco evento incastonato nel futuro»16 che rafforza il legame intensivo – e in alcuni punti della narrazione percorso da una certa tensione sensuale – fra i fratelli: Alberto, marito di Clara, arriva a capire che «il vero nemico, l’unico a poter davvero possedere sua moglie non è nessuno fra gli amanti di lei, ma Michele»17, addirittura «oggetto di un canto, di una preghiera»18.
Clara è descritta per lo più attraverso i ricordi degli uomini che l’hanno avuta, grazie ai quali il lettore conosce gli attacchi di tristezza di lei, tanto profondi da farle tentare il suicidio imbottendosi di barbiturici. I suoi amanti sono chiamati a colmare un vuoto, a tamponare il dolore della perdita, a farle dimenticare, giusto per la durata dell’amplesso, di avere una «storia personale»19:

 

a lui [Buffante] sembrava di avere tra le braccia un corpo svuotato dai ricordi20.

 

Nonostante lui [Costantini], accarezzandole la pelle, stringendole i polsi nel pugno, cercasse di imprimerle nel corpo una spinta duratura. Ma niente di tutto questo durava in lei21.

 

L’unica gioia rimastale coincide con la consapevolezza che il viaggio fra le nebbie proceda in maniera irreversibile e abbia come meta proprio Michele. Non si può non pensare alla Catherine di Cime Tempestose, delirante e malata, consumata dalla debolezza di nervi dopo aver detto addio ad Heathcliff, adolescente a cui era legata e che, crescendo, è diventato un altro, tanto diverso da spingerla ad affermare: «Questo non è il mio Heathcliff. Continuerò ad amare il mio»22. Le analogie fra i due romanzi sono numerosissime e, d’altronde, in diverse interviste Lagioia ne ha riconosciuto l’influenza, pur escludendo ogni dimensione ultraterrena da La ferocia (la Brontë aveva messo fine alla sua narrazione con l’avvistamento dei fantasmi di Catherine e Heathcliff fra le tombe del cimitero di Gimmerton).

L’autore ha, dunque, voluto unicamente rappresentare la maniera in cui le persone che amiamo lasciano la loro impronta dentro di noi, orientando le nostre scelte e il nostro sentire. Questa rappresentazione si attua, tuttavia, attraverso innegabili e continui rimandi alla tomba – le parole spettro, fantasma, cadavere contano 27 occorrenze in tutto e sono perlopiù riferite a Clara23. Lagioia gioca con i dettagli, si muove continuamente lungo il confine fra reale e trascendentale, fa di tutto per convincere il lettore circa l’attendibilità delle percezioni – a volte vere e proprie ierofanie – dei due fratelli: Michele spegne una sigaretta sul mappamondo celeste dicendo alla sorella che dopo la morte si incontreranno su Alioth (la stella più luminosa della costellazione dell’Orsa maggiore)24 e il medico legale Gennaro Lopez in qualche modo lo conferma mentre esamina il cadavere di Clara e, per un momento, ha la sensazione che le lentiggini sul viso di lei ricordino proprio la costellazione dell’Orsa Maggiore da lui sognata poco prima25.

A riprova di quanto appena affermato, anche i sogni, nella narrazione, non sono mai immagini oniriche senza significato, anzi, sembrano più visioni riguardanti il prossimo futuro: si pensi a Michele che sogna una cerva annegare nel proprio stesso sangue la notte in cui Clara muore.
Anche la parte finale del romanzo è carica di riferimenti alla realtà soprasensibile: è come se lo spirito della sorella possedesse Michele e lo conducesse, finalmente, alla verità e alla realizzazione di quel progetto che per anni l’aveva ossessionata, la «casa che da anni bruciava ogni notte nei suoi sogni»26. Si giunge ad una completa identificazione fra i due fratelli, come se le carni non fossero due ma una sola27:

 

A ben sentire non era solo la voce del ragazzo. Nel timbro maschile ce n’era un altro. E nella voce del vivo, quella del morto. La ragazza. Le due voci si tenevano per mano. Questo, faceva impressione. Guardandolo parlare, a Gennaro Lopez sembrava che l’ospite di tanto in tanto perdesse tono. A quel punto dava fondo a tutto il suo dolore, che era anche la sua forza, per estrarre dalle profondità la viva figura della sorella, cioè il piú bel ricordo che aveva di lei, tenuto in piedi dal piú bel ricordo che aveva di se stesso, in modo che non uno ma due morti parlassero dentro la sua bocca. Fratellino e sorellina. Questo, era sconcertante. Vederli avanzare sulla curva del tempo. Scaraventati in un futuro che non avevano previsto28.

 

Alberto ebbe un sussulto. Il modo in cui il ragazzo accavallò le gambe lasciava emergere un disegno – durevole quanto un cerchio tracciato nell’acqua – che apparteneva a lei. […] Una Clara diversa rispetto alla ragazza evocata dall’ordine dell’appartamento. Una creatura che non tornasse dallo shopping ma dalla tomba, per fare scempio di quell’altra29.

 

Ancora una volta è la tomba, dunque, a completare quello che già Michele aveva preannunciato all’inizio del romanzo quando, pensando di descrivere ai suoi familiari Clara in putrefazione all’interno della bara, aveva aggiunto: «Capirebbero che parlo da laggiù»30.
Fondamentale è anche l’influenza di Georg Trakl, poeta austriaco che Lagioia ha definito «tra i cinque o sei grandissimi del novecento»31.

 

Forse Michele va a scuola. Forse, dopo pranzo, fa i compiti. Finito di studiare, riprende in mano i libri che gli aveva regalato lei. È tanto che non lo faceva. Tigre tigre. Die Raben. Dove tu passi si fa autunno e sera. Tra un rigo e l’altro ha l’impressione che il tempo torni a scorrere32.

 

Nel brano appena riportato, Michele fa riferimento, pensando alla sorella, a due diversi componimenti di Trakl: Die Reben33 e Alla sorella da cui è tratto il verso «Dove passi tu si fa autunno e sera»34. Com’è possibile notare, sia qui che nell’intero romanzo, le citazioni non sono in alcun modo segnalate ma, al contrario, risultano indistinguibili, incorporate nel testo. A ben guardare ritornano, e suonano come nenie fra i pensieri dei personaggi.
In un articolo scritto per il centenario della morte di Trakl35, Lagioia ha insistito sulla capacità che il poeta ebbe di premonire il disastro della prima guerra mondiale attraverso la sensazione di catastrofe imminente che traspare in molte delle sue poesie: anche la descrizione apparentemente più idillica è appesantita dal peso di una cupa minaccia.

 

Il momento più alto della poesia di Trakl è farci sentire (ma in un modo così sottile che la sfioriamo e dubitiamo subito dopo di averla avuta tra le dita) la sensazione che quel paesaggio il poeta lo stia guardando dal futuro, quando non solo il paesaggio sarà un altro o distrutto, ma il poeta stesso sarà morto36.

 

Il personaggio di Michele deve molto alla figura di Trakl, sul quale, mentre è in servizio militare ad Avellino, scrive un articolo. Il ragazzo è più volte rappresentato come sbalzato in avanti e proveniente dal futuro – come il poeta, appunto:

 

Aveva l’aria di uno che fatica a riprendersi da un brutto colpo – la parte materiale un po’ sfocata, lo spirito sbalzato avanti per l’impatto, sembrava prigioniero di un futuro da cui cercava di tornare37.

 

Sempre per telefono, Michele le aveva fatto uno strano discorso secondo il quale, pur essendo buttati giù nero su bianco, quei concetti lui li stava elaborando dal futuro. Un lungo pezzo sulle poesie di Georg Trakl38.

 

Michele, infatti, sente l’inizio della parabola discendente di Clara ancor prima che lei ne abbia consapevolezza, considerando che, tornato a casa per la prima volta dopo il ricovero nella clinica psichiatrica, a pranzo con la sua famiglia e alcuni amici del padre, vedendo la sorella arrivare, pensa: «Essere gli unici a capire che qualcun altro sta annegando e i soli a non saper nuotare»39. La scena appena descritta ha una certa importanza non solo perché ben testimonia quanto si sia fatto difficile il dialogo fra i due fratelli dopo tre macrotraumi – il periodo di studio in Inghilterra di Clara, il fallito tentativo di bruciare la villa e il ricovero di Michele a Salerno – ma anche perché sembra collegata proprio a Die Reben di Tralk. I primi versi della poesia recitano:

 

Sul nero paesaggio s’affrettano

a mezzogiorno i corvi con grida dure.

La loro ombra sfiora femmina del cervo

e a volte li si vede accicalati riposare40.

 

Il poeta immagina che su una cerva femmina, volando nel cielo luminoso del mezzogiorno con versi gracchianti, dei corvi proiettino la loro ombra – corvi come quelli presenti nella descrizione del pranzo a cui si è fatto riferimento precedentemente:

 

Uno stormo di corvi sbucò dalle siepi a ovest del giardino. Sembrò che sfondasse il muro verde provenendo da dove un tempo c’era stato il circolo di tennis. […] I corvi urlavano nel cielo. […] Fu allora, le quattro del pomeriggio, che lei [Clara] comparve in fondo al viale. I corvi erano grida senza corpo, così quella era proprio la voce del cielo41.

 

Se si tiene conto che Clara, nel sogno di Michele, appare come una cerva femmina, allora il legame fra poesia e romanzo diventa ancora più chiaro. Attraverso il poeta di Alla sorella, è possibile cogliere anche un altro filo rosso che corre nascosto lungo tutto il romanzo, quello legato all’interesse per le due guerre mondiali, che Lagioia ha definito come il «doppio tracollo europeo dalle cui ceneri non siamo mai del tutto risorti»42. Michele nel suo articolo su Trakl scrive: «il poeta, raccontando di corvi e rami d’albero, illustra il sentimento della grande guerra senza mai neanche nominarla»43. Lo stesso accade con Nicola Lagioia ne La ferocia, in cui fa riferimento a Joseph Heller, autore di scritti antimilitaristici sulla seconda guerra mondiale, e a Max Ernst (Michele ha in camera un poster che riproduce L’Europa dopo il diluvio in cui il pittore tedesco vuole rappresentare l’orrore del vecchio continente devastato dall’ultimo grande conflitto). Addirittura vi è una ripresa dei discorsi di Hitler: sempre Michele si chiede cosa accadrebbe «se le parole dell’uomo più malvagio del mondo»44 venissero usate da una delle vittime.

 

 – Loro vanno fermati, continua lui [Michele], – non con le parole, non con le recriminazioni. Soltanto in apparenza sono innocui, ma non c’è nulla di innocuo, neanche nei loro silenzi. Se gli diamo ancora spazio, sarà tardi45.

 

Il ragazzo si riferisce chiaramente alla sua famiglia e, pensando a quello che succederà, le sue parole sono emblematiche del sentimento dell’ineluttabile che pervade il romanzo:

 

– Devi sapere che queste sono frasi di Adolf Hitler. […] Se avessero una forma progressiva sarebbe a imbuto. La situazione diventa sempre meno reversibile46.

 

All’atmosfera a tratti visionaria de La ferocia ben si adatta la produzione poetica fortemente simbolica di William Blake: Clara regala, infatti, a Michele una copia illustrata de Canti d’esperienza e fa riferimento ad una poesia in particolare, The Tyger, in cui il poeta inglese si chiede se chi creò la tigre creò anche l’agnello47. La risposta del ragazzo è incisiva:

 

– No.

– No cosa?

– Uno crea l’altro.

Un piccolo solco verticale tra gli occhi di Clara.

– In che senso?

– L’agnello crea la tigre facendosi mangiare da lei48.

 

La tigre è, per Blake, simbolo della sofferenza che deriva dall’aver fatto esperienza del mondo e si adatta perfettamente al personaggio di Michele, così come l’agnello che si sacrifica per mondare colpe non sue ricorda Clara – tesi avvalorata da un’intervista rilasciata da Lagioia:

Clara è una sorta di creatura sacrificale (un po’ la versione femminile ed eretica del figlio del Dio cristiano) e Michele diventa ad un certo punto una sorta di suo particolarissimo vicario49.

 

Il sacrificio di sé per amore degli altri è anche il tema centrale di alcune favole di Oscar Wilde, che i due fratelli leggono insieme:

 

Il giorno dell’Immacolata, stesi nel letto uno accanto all’altra, leggono insieme le favole di Oscar Wilde. L’usignolo e la rosa. Il principe felice. Nei momenti drammatici Michele scoppia a ridere per evitare che sulla guancia di lei spunti una lacrima50.

 

Lagioia sembra aver recuperato soprattutto un espediente narrativo usato ne Il ritratto di Dorian Gray, in cui Wilde preferì non descrivere mai nel dettaglio i vizi e le colpe del protagonista, lasciando libera la capacità immaginativa del lettore e aumentandone il senso d’orrore e raccapriccio. Nella stessa maniera, non sappiamo nulla né delle foto in cui posa Clara – che Gennaro Lopez definisce unicamente «Roba da stomaci forti»51 – né di cosa precisamente le venga fatto la notte della sua morte: l’immagine di uno degli amanti di lei che «Continuava a singhiozzare guardandosi le mani sporche di sangue»52, per i motivi di cui sopra, è più efficace di qualsiasi descrizione.

 

 

1 Michele, il protagonista del romanzo, recita mentalmente una frase tratta da Amleto: «Potrei vivere in un guscio di noce», N. Lagioia, La ferocia, Einaudi, Torino, 2014, p. 159.

2 È inserita nel romanzo una citazione dal Faust: «fermati Tempo, perché sei bello», p. 115.

3 Per trascorrere la serata con uno dei suoi amanti, Clara mente ad Alberto inventando di dover andare con un’amica al cinema per guardare Una storia vera, film di David Lynch (p. 346).

4 Ivi, p. 102.

5 Ivi, p. 175.

6 Ivi, p. 188.

7 Ivi, p. 189.

8 Ivi, p. 204.

9 M. Colletti, Nicola Lagioia: La letteratura non deve tendere alla persuasione come la politica, in «ultima sigaretta», http://www.ultimasigaretta.com/blog/nicola-lagioia-la-letteratura-non-deve-tendere-alla-persuasione-come-la-politica/, (ultima consultazione: 3/11/2016).

10 G. Montieri, Interviste credibili #16 Nicola Lagioia: La ferocia, i sogni, la scrittura, in «poetarum silva», https://poetarumsilva.com/2014/11/28/interviste-credibili-17-nicola-lagioia-la-ferocia-i-sogni-la-scrittura/, (ultima consultazione: 3/11/2016).

11 N. Lagioia, La ferocia, cit., p.393.

12 Ivi, p. 237.

13 Ivi, p. 405.

14 Ivi, p. 170.

15 Ivi, p. 164.

16 Ivi, p. 171.

17 Ivi, p. 340.

18 Ibid.

19 Ivi, p. 275.

20 Ivi, p. 274.

21 Ivi, p. 308.

22 E. Brontë, Cime tempestose, trad. it. G. De Sanctis, Giunti, Firenze,2008, p.188.

23 Le parole in questione sono state annoverate nel conteggio solo quando avevano il significato di «spettro», «fantasma»; sono stati esclusi, ad esempio, tutti gli usi di «cadavere» per riferirsi al corpo morto di Clara.

24 N. Lagioia, La ferocia, cit., p. 216: «Alioth! – le dice. – Quando moriremo ci troveremo qui.

25  Ivi, p. 125: «Notò la posizione delle lentiggini. Per un attimo fu vicino al ricordo dell’Orsa Maggiore sognata poco prima».

26 Ivi, p. 348.

27 Vi è un richiamo alla lezione di Cime Tempestose e alle parole di Catherine «Nelly, io sono Heathcliff», «è me più di quanto lo sia io stessa», pp. 103, 101.

28 N. Lagioia, La ferocia, cit., p. 379.

29 Ivi, p. 379.

30 Ivi, p. 196.

31 N. Lagioia, Georg Trakl, l’anniversario che valeva la pena ricordare, in «Internazionale», http://www.internazionale.it/opinione/nicola-lagioia/2014/11/16/georg-trakl-l-anniversario-che-valeva-la-pena-ricordare, (ultima consultazione: 3/11/2016).

32 N. Lagioia, La ferocia, cit. p. 227.

33 Il titolo della poesia è stato tradotto con I corvi.

34 Molte fra le poesie di G. Trakl alludono alla relazione incestuosa che egli ebbe con la sorella e anche E. Brontë fu legata al fratello (a cui tanto deve il personaggio di Heathcliff) da un sentimento quasi morboso, fra l’amore e il disprezzo.

35 N. Lagioia, Georg Trakl, l’anniversario che valeva la pena ricordare, in «Internazionale», http://www.internazionale.it/opinione/nicola-lagioia/2014/11/16/georg-trakl-l-anniversario-che-valeva-la-pena-ricordare, (ultima consultazione: 3/11/2016).

36 Ibid. Il passo dell’articolo ricorda molto anche il punto de La Ferocia (p. 241) in cui Michele guarda il giardino di casa e lo vede come morto da secoli, scorgendo il futuro in un ipotetico passato.

37 N. Lagioia, La ferocia, cit. p. 84.

38 Ivi, p. 99.

39 Ivi, p. 106.

40 G. Trakl, Poesie, a cura di E.Pocar, Rizzoli, Milano, 1974.

41N. Lagioia, La ferocia, cit. p. 105-106.

42 N. Lagioia, Georg Trakl, l’anniversario che valeva la pena ricordare, in «Internazionale», http://www.internazionale.it/opinione/nicola-lagioia/2014/11/16/georg-trakl-l-anniversario-che-valeva-la-pena-ricordare, (ultima consultazione: 3/11/2016).

43 N. Lagioia, La ferocia, cit. p. 214.

44 Ivi, p. 233.

45 Ibid.

46 Ibid.

47 Alcuni versi tratti dalla poesia The Tyger compaiono già nella prima sezione de La ferocia e a p. 111: «Nel fondo dell’oscurità, perfettamente padrona dei propri movimenti, la gatta era venuta a salutarlo. Burning bright, in the forests of the night, recitò a memoria infreddolito, sfatto, convinto che, come tutti i felini, anche lei fosse in grado di leggere il pensiero. Una mamma. Una sorella. E ora una gatta».

48 Ivi, p. 205.

49 Chiacchierando con Nicola Lagioia, in «Giuditta legge», http://www.giudittalegge.it/2015/01/30/chiacchierando-con-nicola-lagioia/, (ultima consultazione: 3/11/2016).

50 N. Lagioia, La ferocia, cit. p. 208.

51 Ivi, p. 126.

52 Ivi, p. 388.

 

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