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Sabato, 24 Aprile 2021 10:50

Recensione a “La marmorea apparenza residua” di Pasquale Lucio Losavio

Scritto da Michelangelo Zizzi

Con questa quinta opera Losavio si conferma poeta riconoscibile e limpido nel nostro panorama contemporaneo. Perché esiste un progress di maturazione confermato da La marmorea apparenza residua (Fallone Editore, 2019, collana ‘Il Leone Alato’) che, a nostro parere, è la sua migliore testimonianza.

Spesso non visto tra le migliaia di sedicenti poeti, uno di essi e spesso migliore sguscia di traverso, nottetempore, con l’ausilio di un ben distinto abito, certo metamorfico appena intravisto sul farsi del crepuscolo. I poeti sono come cocciuti camaleonti, sauri araldici o persino sulfurei ed alchemici; Losavio lo è nel silenzio che precede ogni trasformazione, ogni indice di presenza invisibile: come il testimone, lo scriba che annota, il filosofo meditativo sull’orlo di un turbamento riflesso fedelmente in uno specchio. Si è che questa è poesia infatti filosofica e che la poesia è lo specchio di una lunga meditazione sull’essenza del mondo, il senso e sua ipotetica trascrizione. È infrequente rintracciare poeti come Losavio, poiché nascosto è anche il fine ultimo del suo produrre. La marmorea apparenza residua ha un tenore mimetizzato, poiché troppo prossimo, andando per comparazioni formali, ai modelli dell'ermetismo letterario (almeno a Gatto e Quasimodo). Ma occorre avere attenzione, rallentare sul filo della lettura e riconoscere che le somiglianze formali nascondono l’erranza di una differenza.

Le sottilissime e preziose qualità della poesia, spesso o sempre, scorrono non viste tra un fotogramma e l’altro; i lettori del 21’ secolo sono abituati alla sottrazione dell’attenzione, al plauso generale dell’esclamazione. Occorrono intuito e analisi per penetrare questa poesia, perché La marmorea apparenza residua è un saggio filosofico o morale, fatto sottovoce. Esperienza del mondo e meditazione sono gli elementi pareggiati che ne costituiscono il fulcro; è la poesia di chi crede ancora allo stato di incisione sul marmo (come Keats), all’essere destinati a vivere oltre la vicissitudine di una stagione atmosferica (come Eliot), di chi produce sempre una sola poesia come Girolamo Comi o Dylan Thomas. Questo anche è fato, più che possibilità. Ma fato nel quale si riconosce libertà, fuorché destinalità o necessità del dire, perché il poeta ha un colpo di teatro, di dadi, d’azzardo: e qui consiste l’anima di Losavio e ciò che governa la sua poesia. Si tratta di una commedia pirandelliana a posteriori ma anche ‘a contrario’, laddove l’agente del verso è il suo oggetto, laddove lo scarico della Bellezza è rimandato alla prossima fermata di tappa, laddove il tempo, ormai slegato, pare essere una sua stessa confutazione, come direbbe Borges. Ma quindi quella di Losavio è una poesia della verità, ma di una verità turbata. Perché il turbamento, che è il vestibolo dell’inquietudine, in quest’opera è data con commovente leggerezza che si riconduce ad una matrice interrogativa non soddisfatta. Del resto per quanto fantasma questo turbamento abita i versi di Losavio e in forma non anodina, ma certa e visibile e senza posa d’attore. Affrontare il dubbio è far agire i versi nel riconoscimento che nulla può darsi per sempre.

Il tono di La marmorea apparenza residua è sommesso, colloquiale. Colloquio che diventa confidenza sottovoce, riconoscimento del senso partendo dalla lingua, ma anche partendo dal mondo.

 

Dovrò uscire presto

domattina.

Tu dici: ‘Non accade niente’

‘Niente è accaduto’.

[…]

 

Che anzi una delle evidenze più importanti nella poesia di Losavio è proprio il rapporto non del tutto conchiuso tra apparizione del mondo e sua spiegazione, da intendersi come apertura, nel tessuto della poesia. Se così è, cosa rimane? Un interrogativo poco risolto, che trova pace solo nella poesia, proprio in ciò che è insufficiente a spiegare il mondo medesimo.

 

Cosa cerchiamo di decifrare nei segni?

Forse il destino di quel filo ininterrotto

che pende misterioso e in pericolo

al limitare della giacca?

[…]

 

Si tratta pertanto di una poesia che organizza il suo discorso non tanto nel rapporto-conflitto tra Natura e Cultura, quanto nel più problematico confronto tra verità del mondo e verità della poesia; quindi in definitiva tra ontologia in sé e domanda sull’ontologia:

 

Quando la parola millimetrica

ti arride, è inutile spacciarla

fare che diventi modulo burocratico

o ancora economico commercio.

[…]

 

A livello lessicografico pure la poesia di Losavio si mostra convincente, se frequenti sono i lemmi inconsueti tratti da idioletti differenti, col risultato di produzione di hapax, e non rari pure i preziosismi metrici, quali endecasillabi, assonanze interne ed esterne, allitterazioni.

Ma qual è il peggiore difetto, a nostro parere, della poesia di Losavio? Senza dubbio l’ostinazione alla chiusura gnomica, cosa massimamente presente sin dalle prime raccolte.

E un suo grande pregio? L’oscenità (ma dico questo in senso beniano, intendendolo come ultrafigura rispetto alla scena) gnomica, quindi la stessa cosa, ma ora condotta alla sua trasfigurazione. Perché anche questo in Losavio non è ripetizione o esercizio di stile, ma il risultato di uno studio fondato su quella dicotomia di cui abbiamo discusso prima tra linguaggio e mondo, tra mondo del linguaggio e mondo senza linguaggio. Cosicché ad un certo punto questa poesia colloquiale e confidente, che sta nell’adempimento del dovere di un dialogare sottovoce, preziosa nelle strutture e nelle forme, centrata in una visione del mondo, diventa essenziale proprio sul luogo cruento. Ma ogni luogo finale è cruento: si pensi all’exitus mortale, alla trascrizione notarile, alla sentenza del giudice. Eppure, e questo è il miracolo di Losavio, esiste ancora una parola da dire, un senso da lasciare andare:

 

Vi lascio in eredità il mio nome proprio

accarezzatelo come linea nel rigo

[…]

sappiate serbare lucida qualche lettera

sul frontespizio.

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