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Mercoledì, 30 Novembre 2016 00:25

Una psicoanalisi letteraria: Pagliarani, Lacan e "La ragazza Carla"

Scritto da Andrea Donaera
U. Boccioni, "La città che sale", 1911 U. Boccioni, "La città che sale", 1911

I poeti, che non sanno quel che dicono, è ben noto, dicono però sempre le cose prima degli altri.
(JACQUES LACAN, Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud

 

Si comincia col solletico e si finisce arsi con la benzina. Si tratta pur sempre di godimento.
(JACQUES LACAN, Il Seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi)

 

 A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi?
(ALDO BUSI, Seminario sulla gioventù)

 

Jacques Lacan

 

 

  1. Soggetti e parlesseri

Da un punto di vista prettamente storico e filologico il legame tra Pagliarani e Lacan è inesistente, eppure, senza azzardare troppo, si potrebbe essere meno radicali considerando i decenni all’interno dei quali entrambi operano e altri fattori determinanti a proposito del loro lavoro, uno su tutti lo strappo con la tradizione precedente (nel caso di Lacan con le istituzioni psicoanalitiche, in quello di Pagliarani con le correnti letterarie approvate) che porta entrambi a sperimentare nuove strade (la Société Française de Psychanalyse per Lacan, il Gruppo 63 e l’appartenenza al nucleo de I Novissimi per Pagliarani).

Può invece non essere così tanto distante la loro natura di intellettuali, di promulgatori in un dire (letterario nel caso di Pagliarani, scientifico nel caso di Lacan) che vuole fare luce sulla condizione del soggetto, dell’umano inchiodato nel mezzo di un secolo complesso: questo fa sì che l’analisi di un testo letterario di Pagliarani possa essere eseguita in un’ottica lacaniana, ricondotta a un sistema di pensiero che convenzionalmente dovrebbe occuparsi degli individui, dei parlesseri, come ci chiama Lacan (d’altronde un’opera letteraria, essendo manufatto artistico, è anch’essa narrazione di una psiche, di un soggetto che indaga e si indaga).

Il soggetto che Lacan dispiega – e in qualche modo risolve – nel procedere tortuoso dei suoi Seminari, è fondato su questioni cliniche e su teorie radicate in un sistema enciclopedico, monumentale, vastissimo, ma non per questo non malleabile, e applicabile invece alla comprensione di prodotti e processi della vita e della cultura moderna. È proprio nelle proprietà comunicative, risolutive e commutative di cui gode il suo pensiero che si possono trovare le motivazioni – anche urgenti – per accostare Lacan al cinema, alla musica, alla letteratura

 

  1. Ça parle

Un componimento di Pagliarani abbastanza esplicativo di un esercizio di analisi di questo genere è il seguente, tratto dal romanzo in versi La ragazza Carla (1962):

 

II, 1Carla Dondi fu Ambrogio di anni
diciassette primo impiego stenodattilo
all’ombra del Duomo       Sollecitudine e amore, amore ci vuole al lavoro
      sia svelta, sorrida e impari le lingue
      le lingue qui dentro le lingue oggigiorno
      capisce dove si trova? TRANSOCEAN LIMITED
      qui tutto il mondo...
          è certo che sarà orgogliosa
      Signorina, noi siamo abbonati
      alle Pulizie Generali, due volte
      la settimana, ma il Signor Praték è molto
      esigente – amore al lavoro è amore all’ambiente –
così
      nello sgabuzzino lei trova la scopa e il piumino
    sarà la sua prima cura la mattina.  UFFICIO A UFFICIO B UFFICIO C Perché non mangi? Adesso che lavori ne hai bisogno
      adesso che lavori ne hai diritto
                                 molto di più. 

S’è lavata nel bagno e poi nel letto
s’è accarezzata tutta quella sera.
  Non le mancava niente, c’era tutta
  come la sera prima – pure con le mani e la bocca
  si cerca si tocca si strofina, ha una voglia
  di piangere, di compatirsi
                        ma senza fantasia
  come può immaginare di commuoversi?

Tira il collo all’indietro ed ecco tutto.

 


Tra anni cinquanta e anni sessanta, tra gli effetti del boom economico e le innovazioni mediatiche, scrivere poesia significava trovarsi sostanzialmente a un bivio: arroccarsi in una torre d’avorio e far parlare un Io lirico esclusivo e irrelato, oppure cominciare a raccontare, con voce contrappuntata e dissonante, la vita di tutti. Pagliarani sin dalle sue prime raccolte sceglie la seconda strada, senza che questo comporti l’abiura dell’eredità fondamentale ricavata dai classici: così come Lacan dialoga o si riferisce costantemente al magistero di Freud (magari per superarlo), Pagliarani e gli altri autori della sua generazione mai faranno realmente a meno della tradizione.

Nelle prime pubblicazioni pone i disagi giovanili (intimi, spesso amorosi) come espediente per alludere alla brutalità di una vita metropolitana nuova, accaduta all’improvviso. Con La ragazza Carla, invece, viene meno l’approccio da auto-fiction, ma resta, inferocendosi, l’esigenza di scandire i contorni della realtà. La storia è quella di Carla Dondi, impiegata presso una delle nuove industrie di una Milano che emana strati su strati di grigiore – fino ad annerire, in un’epoca in cui anche la gioventù è castrata dai bisogni artificiali e dai dettami etero-fondati. Con quest’opera siamo di fronte a una poesia che piomba nel mondo, che “non è usata per esprimere uno stato d’animo o una condizione intima, ma per tentare una mimesi della realtà” (Crocco, 2015, p. 97).

Lacan si propone sulla scena psicanalitica internazionale agendo con una forza che caratterizzerà per sempre il suo modus operandi: durante gli anni cinquanta si discosta dall’allora egemonica Société Psychanalytique de Paris (l’emanazione francese dell’Associazione Psicanalitica Internazionale) e comincia un percorso orientato verso il recupero di un “suo” Freud teorico delle questioni più torbide riguardanti il soggetto. In quegli anni, nei vari contesti psicanalitici, si applicava una Psicologia dell’Io che si occupava del rafforzamento di alcuni aspetti comportamentali e morali, riducendo quindi l’inconscio freudiano a un calderone colmo di irrazionalità in qualche modo addomesticabile o almeno tralasciabile. Lacan, convinto della potenzialità latente e inespressa dell’opera di Freud, si oppone al sistema cominciando un percorso clinico e teorico in cui al centro è posto un concetto di inconscio figlio degli studi freudiani ma anche della matrice strutturalista, all’interno della quale (per una questione anche di tendenze dell’epoca) agiva e trovava appoggio: l’inconscio è strutturato come un linguaggio.

L’inconscio parla (ça parle), non è una porzione del nostro agire psichico; è un’altra forma di razionalità, con un suo linguaggio che si esprime attraverso i lapsus, i sogni, i sintomi. L’inconscio, quindi, non risponde a un rintanarsi oscuro dell’irrazionalità, ma a un processo fatto di linguaggio, di momenti, accadimenti.

È a questo proposito che Lacan introduce la nozione di Registri, cioè tre categorie della vita psichica di ciascun soggetto: Immaginario, Simbolico, Reale. Sono tre esperienze, inscindibili tra loro, che ogni soggetto svolge nel suo vivere psichico – non tre fasi della mente, ma tre categorie attraverso le quali, in una vicendevole imprescindibilità, si evolve e concretizza il soggetto.



La tripartizione dei registri non è assimilabile a una divisione intrapsichica, come per le topiche freudiane. I tre registri Immaginario-Simbolico-Reale, non sono, come Es-Io-SuperIo di Freud, delle parti della psiche. [...] potremmo dire che essi sono pensabili come degli ordini generali di organizzazione dell’intera vita psichica dell’individuo. Non dei sottoinsiemi della mente, dunque, ma delle esperienze psichiche, dei contenitori di senso, delle dimensioni generali che caratterizzano la vita di ognuno. (Pesare, 2015, pp. 35-36)

 

  1. L’Immaginario

Il registro dell’Immaginario fa riferimento alla formazione del primo abbozzo della soggettività di un individuo. Dopo la nostra nascita, per alcuni mesi siamo come niente, corps morcelé. Usciamo da questo stato soltanto ricevendo un’immagine di noi da un qualcuno o da un qualcosa: uno specchio, che ci rimanda per la prima volta l’immagine di ciò che siamo, formulandoci con interezza, garantendoci dunque un Moi, un Io. Ma questo non ci fornisce la possibilità di essere soggetti, non determina un Je, un soggetto dell’inconscio: il Moi proviene da fuori, non è azione autonoma, è un’immagine ricevuta dall’esterno che comporterà il ricevere tantissime altre immagini durante l’intera esistenza.

L’Io è etero-fondato, esattamente come l’Io di Pagliarani, che per essere tale ha bisogno di un’immagine dettata (una voce che dica Perché non mangi?, trasmettendoci il modo in cui ci vede), o di un narratore esterno che abbozzi i connotati (Carla Dondi fu Ambrogio di anni / diciassette primo impiego stenodattilo). Un soggetto, quindi, barrato da una Spaltung, una divisione che è connaturata, inamovibile, tra Je e Moi: il soggetto lacaniano, scisso per natura, può trarre ispirazione proprio da un atto di poesia, da un verso di Rimbaud, Je est un autre, “Io è un altro” – io sono scisso tra un soggetto dell’inconscio e una sua emanazione pubblica; ciò che di me parla davvero è l’inconscio, il mio Io è solo un sintomo, creato da un’esperienza che parte non da me. 

  1. Il Simbolico

È necessario superare la dimensione dell’Immaginario e approdare nel registro del Simbolico, cioè la dimensione all’interno della quale un soggetto si determina come unico, irripetibile, scoprendo la parola, il mondo attorno e tutto ciò che nel mondo si può desiderare. Nell’Immaginario si sta in una condizione di stallo, e per fuoriuscirne è necessaria un’azione che scardini, che dimostri l’esistenza di un qualcosa d’altro, di un Grande Altro. Nell’Immaginario persiste un dialogo muto tra quattro elementi: il soggetto, la madre, la funzione paterna (per Lacan non è necessario che sia presente la figura fisica o biologica di un padre, ma che un agente svolga la funzione di Nome-del-Padre) e un inedito significante (i primi tre sono i protagonisti anche dell’Edipo freudiano), che determina la teorizzazione di un Edipo lacaniano. Questo significante prende la denominazione di fallo. Il bambino, per Lacan, non è soltanto desideroso, freudianamente, di possedere la madre, ma vuole essere il desiderio della madre, incarnare ciò che le manca. La funzione paterna, in questo maternage (in un rapporto fusionale con la figura materna), agisce con una azione di rottura, voltando il bambino verso il mondo, impedendogli di essere il fallo della madre, dimostrandogli che c’è un Grande Altro, fuori.

Nel racconto di Carla possiamo soltanto intuire un’assenza, più o meno stabilizzata, della figura paterna intesa in senso biologico – fu Ambrogio, posto però da Pagliarani come determinazione, quasi necrologica, nel tono asettico della presentazione anagrafica che occupa l’incipit del componimento; è però previsto anche un richiamo a un rapporto con la madre, con molte probabilità non ancora risolto o sciolto, magari non proprio incastrato ancora in una fusionalità archetipica, ma senz’altro invasivo. Questa traccia appare, quasi disturbante, al centro del testo, come un dettame piccolo borghese: Perché non mangi? Adesso che lavori ne hai bisogno / adesso che lavori ne hai diritto / molto di più.

Si profila fondante, di conseguenza, in questa esperienza poetica e narrativa, la dirompenza del Grande Altro nel soggetto-Carla. Il linguaggio, la cultura, la facoltà di desiderare: è a questo che accede il soggetto, grazie alla castrazione simbolica operata dal Nome-del-Padre. E per Carla, allegorica portavoce muta di una intera generazione, il Grande Altro si presenta come una ideologia ambigua: il nuovo capitalismo in ascesa, la mercificazione di ogni bene, le nuove forme di dominio applicate attraverso le nuove forme di lavoro. E la plurivocalità, che sembra sparpagliare suoni e segni lungo i versi, è il manifestarsi di questo rollare di significanti nel mare magnum del Grande Altro: Sollecitudine e amore, amore ci vuole al lavoro / sia svelta, sorrida e impari le lingue / le lingue qui dentro le lingue oggigiorno / capisce dove si trova? TRANSOCEAN LIMITED / qui tutto il mondo... / è certo / che sarà orgogliosa.

Sembra poter essere tutto questo, soltanto: la miglior vita da scegliere, il miglior lavoro da svolgere, propinato da un Altro che però non è stato davvero cercato, e che presto dimostra un rovescio della medaglia: Signorina, noi siamo abbonati / alle Pulizie Generali, due volte / la settimana, ma il Signor Praték è molto / esigente – amore al lavoro è amore all’ambiente – / così / nello sgabuzzino lei trova la scopa e il piumino / sarà la sua prima cura la mattina.
Un Altro che non si è scelto: il percorso teorizzato da Lacan, il transito da una dimensione fissata in un maternage a quella in cui gli occhi si aprono verso il mondo, non è infatti del tutto pacifico. 

 

  1. Il punto di capitone

Esiste un momento – un punto – nel quale ogni soggetto si cuce a un significato, lo afferra, e successivamente lo sigilla. E questo è quanto avviene nella vita di Carla, non senza conseguenze: nel bagno di significanti in cui era immersa, si è ritrovata ad allacciarsi a significati come il lavoro, il denaro, la carriera, la città. Questo momento della psiche, questo agganciarsi a un significato specifico, è chiamato da Lacan punto di capitone.

Il point de capiton è il punto mediante il quale il soggetto è “cucito” al significato, e insieme il punto che interpella l’individuo come soggetto mediante la chiamata di un certo significante padrone (“Comunismo”, “Dio”, “Libertà”, “America”) – in breve, è il punto della soggettivazione della catena del significante. (Žižek, 2014, p. 133)

Carla si determina come soggetto allacciandosi a una condotta di vita che è essa stessa ideologia, spietato ordinamento disciplinare e comportamentale (biopolitico), prosciugante, volto ad annichilire ogni desiderio. 
Questi nuclei narrativi muovono sia la formazione di Carla nel suo rapporto con la realtà aziendale e, in genere, con un’esistenza che si prospetta come uno sciupio silente di possibilità e speranze sia la rappresentazione dei danni umani provocati dal boom economico in una Milano di uffici, casamenti popolari, periferie. (Testa, 2005, p. 163)

 

  1. Il Reale

C’è un momento, nell’opera di Lacan, che scandisce una svolta. Questo momento è successivo al Lacan degli anni quaranta e cinquanta, e coincide con il Seminario VII, pronunciato nel 1960. È quando viene introdotto il Reale, cioè il registro che riguarda il corpo, le pulsioni, quell’ambito in cui il soggetto è sostanza godente. Lacan, durante i primi cinque seminari, elabora per lo più analisi che insistono sull’Immaginario e sul Simbolico, teorizzando un desiderio come concetto vario e rapsodico – desiderio dell’oggetto altrui, desiderio d’essere desiderio –, ma dal Seminario VII pone in primo piano un qualcosa d’altro, per certi versi disturbante, scabroso, ma concreto – in un percorso che, negli anni, lo porterà ad abbandonare quasi del tutto la parola desiderio, sostituendola con un termine più specifico: “appare con forza la parola della pulsione, della forza positiva della jouissance, della ‘sostanza godente’” (Recalcati, 2012, p. 53).

La jouissance è immaginabile come il carburante libidico dell’inconscio, ciò di cui esso necessita per procedere: il godimento è da intendere non nell’accezione italiana relegata unicamente in un’ottica più o meno benefica, più o meno sensuale, ma nel significato ampio di godimento dell’inconscio, sempre inesausto e non sempre volto allo svolgimento di azioni piacevoli.

È in questo frangente dell’opera lacaniana che si dipana uno degli aspetti più suggestivi e, in questo caso, maggiormente vicini alla visione letteraria di Pagliarani – quel qualcosa che eccede, che sfugge al Simbolico, che non si ferma nel point de capiton, che scivola oltre il Grande Altro, sfociando in una domanda (Che vuoi?) posta al Grande Altro e al soggetto stesso, procurando una frattura, una scissione finanche al Grande Altro, non più quindi soltanto struttura salvifica, ma ora anche esso barrato come il soggetto.



La funzione strutturante dell’Edipo vaccina il soggetto dal Reale, castrandolo dal maternage fusionale con l’oggetto di godimento primario, ma questo non basta: c’è un resto, dice Lacan, in questa opera di castrazione. C’è una rimanenza, uno scarto, una eccedenza che non si lascia culturalizzare dal Grande Altro, che, per questo, arriva a un punto di inconsistenza, rimanendo anch’esso barrato. (Pesare, 2015, pp. 101-102)



Carla, nello svolgersi dell’ultima parte del testo, è come se fosse lei stessa l’artefice della spaccatura, come se si occupasse lei di sbarrare quel Grande Altro così invadente, rispondendo alla domanda (Che vuoi?) abbandonandosi al corpo, a un autoerotismo – che è godimento: S’è lavata nel bagno e poi nel letto / s’è accarezzata tutta quella sera, in una fuoriuscita dal senso per rifugiarsi nella pulsione che il corpo reclama. 

 

  1. La pulsione di morte e la Cosa

 

Un amico psichiatra mi riferisce di una giovane impiegata tanto poco allenata alle domeniche cittadine che, spesso, il sabato, si prende un sonnifero, opportunamente dosato, che la faccia dormire fino al lunedì. Ha un senso dedicare a quella ragazza questa «Ragazza Carla»? (Pagliarani, 1962, p. 7)


Lacan recupera un altro concetto dal secondo Freud: Todestrieb, cioè la pulsione di morte, che ogni individuo contrappone inconsciamente al principio di piacere. Un aspetto che approfondisce ulteriormente gli aspetti maggiormente torbidi della psiche. La caratteristica della pulsione di morte, per Freud, è il suo verificarsi in azioni che si ripetono; la sua struttura è la ripetizione, la coazione a ripetere: è una forza che “tende a riprodurre dei comportamenti che giocano un ruolo di godimento per l’inconscio, anche quando essi ledono la vita” (Pesare, 2015, p. 105).

L’orgasmo che Carla cerca è proprio questo: una petite mort quotidiana (Non le mancava niente, c’era tutta / come la sera prima), una coazione a ripetere divenuta squallidamente meccanica ma necessaria per aversi, sentirsisi strofina è il verbo che usa Pagliarani per designare il corpo della ragazza: come un oggetto da pulire da una qualche sporcizia.

Eppure c’è sofferenza in questo manchevole tentativo di sfuggire, attraverso la jouissance, all’esperienza alienata del quotidiano: Ha una voglia / di piangere, di compatirsi / ma senza fantasia / come può immaginare di commuoversi?: è impossibile orientare il proprio desiderio senza fantasia, senza un fantasma che riproduca quel qualcosa che determina il nostro desiderare, la Cosa, il misterioso Altro verso il quale tende il godimento dell’inconscio. Nel Seminario VII Lacan introduce anche questa figura: La Cosa, Das Ding, il quid smarrito per sempre attraverso la castrazione del Grande Altro, ma verso il quale ogni soggetto continua a tendere, anelando una jouissance impossibile da replicare se non attraverso fantasmi, riproduzioni.

Carla sembra non riuscire a rintracciare nemmeno un fantasma, una fantasia che la possa far commuovere, che le permetta di compatirsi per la sua condizione, che le procuri godimento. Tira il collo all’indietro: si procura il suo orgasmo meccanico, la sua piccola morte quotidiana e inutile –  ed ecco tutto.


Riferimenti bibliografici
CROCCO C., 2015, La poesia italiana del Novecento. Il canone e le interpretazioni, Carocci, Roma.
PAGLIARANI E., 1962, La ragazza Carla e altre poesie, Mondadori, Milano.
PESARE M., 2015, Jacques Lacan spiegato dai Massimo Volume, Musicaos:ed, Neviano.
RECALCATI M., in PESARE M. (a cura di), 2012, Comunicare Lacan, Mimesis, Milano.
TESTA E. (a cura di), 2005, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino.
ŽIŽEK S., 2014, L’oggetto sublime dell’ideologia, Ponte alle Grazie, Milano.

 

 

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