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Giovedì, 31 Maggio 2018 09:00

Postfazione a "After Lorca" di Jack Spicer

Scritto da Peter Gizzi
Jack Spicer nasce a Los Angeles nel 1925. Si trasferisce a nord, Berkeley, dove studia e in seguito insegna all’University of California. Qui stringe amicizia con Robin Blaser e Robert Duncan, oltre ai numerosi poeti, artisti e studenti che fecero parte del movimento chiamato San Francisco Renaissance. Frequenta e collabora con musicisti jazz della west coast, tra cui il quartetto di Dave Brubeck, con cui inciderà alcune letture. Nel 1955 apre insieme ad altri artisti la “6 Gallery”, luogo che diventerà centrale per la Beat Generation. Rapporti conflittuali dovuti all’alcolismo con amici come Allen Ginsberg, Frank O’Hara, e lo stesso Robert Ducan. Muore nel 1965, pronunciando la frase che ora fa da titolo all’edizione integrale dei suoi scritti: “il mio vocabolario mi ha fatto questo”. Durante la sua breve ma prolifica vita, ha pubblicato diversi libri di poesia attraverso piccole case editrici regionali, tra cui After Lorca (1957), Billy The Kid (1958), Lament for the Makers (1961) e The Holy Graal (1962). A partire d’After Lorca, Spicer sviluppa l’idea che la sua poesia si crei sotto dettatura. Dopo Garcia Lorca, altri fantasmi accompagneranno la sua produzione, tra cui Rimbaud e Billy the Kid. Nel 2009 il libro contenente le sue opere complete, pubblicato postumo a cura di Peter Gizzi, "My Vocabulary did this to me: Collected poetry of Jack Spicer” riceve il prestigioso American Book Award.
 
È in questi giorni in via di pubblicazione per la prima volta in Italia After Lorca (1957), del poeta statunitense Jack Spicer (1925 – 1965), a cura di Fabio Orecchini e Andrea Franzoni, quest'ultimo nel ruolo di curatore e traduttore. Il libro sarà edito dalla casa editrice Gwynplaine di Camerano (AN), nella collana diretta da Valerio Cuccaroni per la rivista «Argo», e conterrà l’introduzione originale di Federico Garcia Lorca. Pubblichiamo qui in anteprima la postfazione del poeta e studioso americano Peter Gizzi, corredata da alcuni estratti dal libro.
 

Nel 1965, scrivendo “metti quelle parole fuori dalla tua bocca e dentro il tuo cuore”, Jack Spicer esortava entrambi, poeta e lettore, ad affrontare la pericolosa onestà che la vita della poesia domanda. L’ammonizione proveniva sorprendentemente da un poeta che dichiarava che le sue poesie si originavano al di fuori di lui, che insisteva nel dire che un poeta non era nient’altro che una radio trasmettitrice di messaggi; un poeta che professava la pratica quasi monastica del dettato, ricevuto per giunta dai “Marziani”, che rifiutava ciò che chiamava “la grande bugia del personale”; e tuttavia così facendo creava una delle più indelebili e durevoli voci della poesia americana. Questa voce, e il suo fascino, sono tanto più rimarchevoli se si considera il fatto che Spicer non fu mai totalmente integrato, né nella cultura ufficiale, né nella controcultura del suo tempo. Nonostante questo, negli ultimi cinquant’anni, Spicer ha avuto un effetto ampio e duraturo, su una svariata gamma di scrittori, a livello nazionale e internazionale, influenzando profondamente i poeti della nostra generazione e oltre.

Spicer si diverte con combinazioni provocatorie e incongrue. Le sue affermazioni sono mercuriali, e i suoi versi si rifiutano di lasciarsi etichettare in un unico registro. Le sue poesie interrompono ripetutamente i loro stessi procedimenti, intasando le frequenze del significato che stanno creando. Si avvalgono della sua costante attrazione per giochi e sistemi: bridge, baseball, scacchi, flipper, computer, magia, religione, politica, e linguistica. Come in una ricerca del Graal, ciò che il lavoro di Spicer realizza in definitiva non è tanto un obiettivo dichiarato ma l’accorpamento di una comunità per un’avventura di lettura potenzialmente infinita. Pur essendo un simulatore ― uso a fraintendimenti, indicazioni sbagliate, giochi di parole, o contro-logiche ― le sue poesie non ci lasciano con un vuoto bensì con un eccesso semantico, con figure che si fanno eco e sbattono l’una contro l’altra.

L’oltraggioso esordio letterario di Spicer è un esempio del doppiogioco, dell’umore macabro, e della pura brillantezza del suo lavoro. After Lorca venne pubblicato nel 1957 da Whyte Rabbit, una piccola casa editrice di San Francisco, diretta da Joe Dunn, il giovane poeta di Boston che si era trasferito a ovest. Negli anni 50 una delle edizioni maggiormente riconosciute per un primo libro era la Yale Yougner Series. In quella decade, W.H. Auden era il giudice, che selezionava i lavori e scriveva introduzioni ai libri di Adrienne Rich, W.S. Mervin, John Ashbery, James Wright, John Hollander, e James Dickey. Per il suo primo libro, Spicer adattò il modello del vecchio poeta riconosciuto che vaglia il poeta emergente, rivolgendosi a Federico Garcia Lorca per farsi introdurre, anche se il poeta martirizzato dovette farlo dalla tomba. Comprensibilmente contrariato, Lorca comincia: “Francamente sono rimasto alquanto stupito quando il signor Spicer mi ha domandato di scrivere un’introduzione a questo volume.” E così inizia la provocatoria poetica di Spicer di coinvolgere i morti nella sua pratica letteraria.

Lorca è forse l’unico poeta gay di rilievo internazionale che Spicer potesse proporre per competere con il sostegno di Auden. Ma da riluttante interlocutore il cui capitale culturale è sicuramente compromesso dal fatto che è morto, Lorca fornisce un’introduzione che, in diversi modi, è l’opposto di quelle di Auden. È improbabile che la sua approvazione possa aiutare il poeta ad essere recensito, trovare un agente, pubblicare un secondo libro o addirittura trovare un lavoro. Nonostante questo la sua posizione permette, per un poeta orfico, relazioni uniche con l’oltretomba, e procura al tempo stesso il veicolo perfetto per un amore non corrisposto e il perfetto emblema di una tradizione ed eredità letteraria.

After Lorca è ostensibilmente composto di traduzioni dei lavori di Lorca, la fedeltà delle quali viene messa in dubbio perfino da Lorca stesso. Vi sono circa una dozzina di poesie originali di Spicer, mascherate da traduzioni, combinate con sei ormai celebri lettere programmatiche, indirizzate a Lorca, nelle quali Spicer articola la sua poetica e il suo senso dell’intima pena per quel che riguarda la poesia, l’amore, e i suoi contemporanei. Con queste lettere, traduzioni, e false traduzioni, Spicer stabilisce una corrispondenza unica con la tradizione letteraria, la quale evolverà più tardi in una rilevante pratica intertestuale d’assemblaggio.

Il suo esordio ha l’aspetto di una giovinezza punk, ma in questo attacco Spicer si rivela tanto tradizionalista quanto innovatore. La prima lettera di Lorca descrive la tradizione come “generazioni di poeti differenti in paesi differenti, che raccontano pazientemente la stessa storia, che scrivono la stessa poesia …” Più a distinguere se stesso come una straordinaria giovane promessa letteraria, la lettera pone Spicer in un contesto di poeti visti come una classe di lavoratori impegnati tutti nello stesso fondamentale progetto. In questo percorso, la corrispondenza tra la capacità negativa di Keats, lo sregolamento dei sensi di Rimbaud, le visioni di Yeats, gli ordini angelici di Rilke, il duende di Lorca, la personae di Pound, il senso della tradizione di Eliot, e i giardini immaginari di Moore può “costruire un universo completamente nuovo” ― anche se si tratta di un universo in cui le cose non combaciano perfettamente. Come scrisse, “Le cose non si connettono, corrispondono”.

*

Ballata della Bambina Che Inventò l’Universo

Una Traduzione per George Stanley

 

Fiore di gelsomino e un toro con la gola tagliata.

Marciapiede infinito. Mappa. Stanza. Arpa. Alba.

Una bambina finge un toro fatto di gelsomino

E il toro è un crepuscolo di sangue che mugghia.

 

Se il cielo potesse essere un bambino

I gelsomini potrebbero prendere metà della notte per loro

E il toro un’arena blu tutta per sé

Con il cuore ai piedi di una colonnina.

 

Ma il cielo è un elefante

E i gelsomini sono acqua senza sangue

E la bambina è un mazzetto di fiori notturni

Persa su un grande marciapiede buio.

 

Tra il gelsomino e il toro

O gli uncini della gente di marmo addormentata o

Nel gelsomino, nuvole e un elefante ―

Lo scheletro di una bambina che gira.

 

 

 

Caro Lorca,

queste lettere saranno provvisorie tanto quanto la nostra poesia sarà duratura. Esse stabiliranno la massa, lo sperpero che i miei stomacati contemporanei domandano, per aiutarli a deglutire e digerire la parola pura. Esauriremo la nostra retorica qui, di modo che non appaia nelle nostre poesie. Lasciamola consumare, di paragrafo in paragrafo, giorno dopo giorno, fino a quando non ne rimanga nulla nella nostra poesia, fino a quando nulla della nostra poesia rimanga in essa. È proprio perché non sono necessarie, che queste lettere devono essere scritte.

Nella mia ultima parlavo della tradizione. Gli idioti che leggono queste lettere penseranno che per tradizione intendiamo ciò che essa sembra aver significato di recente ― un’accozzaglia storica (che siano citazioni elisabettiane, guide della città natale del poeta, o oscuri frammenti di magia pubblicati da Pantheon) usata per coprire la nudità della semplice parola. Tradizione significa molto più di questo. Significa generazioni di poeti differenti in paesi differenti, che raccontano pazientemente la stessa storia, che scrivono la stessa poesia, guadagnando o perdendo qualcosa ad ogni trasformazione ― ma, ovviamente, non perdendo mai nulla veramente. Tutto ciò non ha niente a che vedere con la calma, il classicismo, il temperamento o qualcos’altro. Semplicemente, l’invenzione è nemica della poesia.

Guardate quanto è debole la prosa. Invento una parola come invenzione. Questi paragrafi potrebbero essere tradotti, trasformati da una catena di cinquanta poeti in cinquanta lingue, e ancora rimarrebbero provvisori, infedeli, incapaci di produrre la sostanza di una singola immagine.  La prosa inventa ― la poesia rivela.

Un matto nella stanza accanto sta parlando a se stesso. Parla in prosa. Fra poco andrò in un bar e lì un poeta o due mi parleranno e io parlerò a loro e insieme proveremo a distruggerci o ad attirarci o perfino ad ascoltarci l’un l’altro e non succederà niente, perché staremo parlando in prosa. Rientrerò a casa, ubriaco e insoddisfatto, e dormirò ― e i miei sogni saranno prosa. Persino il subconscio non è abbastanza paziente per la poesia.

Voi siete morto e i morti sono molto pazienti.

Con affetto,

 Jack.

 

 

 

Venerdì 13

Una traduzione per Will Holter

 

Alla base della gola c’è un piccolo marchingegno

Che ci rende capaci di dire qualsiasi cosa.

Sotto di esso ci sono tappeti

Colorati di rosso, blu, e verde.

Dico che la carne non è erba.

È una casa vuota

In cui c’è soltanto

Un piccolo marchingegno

E grandi, bui tappeti.

 

 

 

Radar

Un post-scriptum per Marianne Moore

 

Nessuno sa esattamente

Esattamente cosa sembrano le nuvole in cielo

O la forma delle montagne sotto di loro

O la direzione in cui nuotano i pesci.

Nessuno sa esattamente.

L’occhio è geloso di tutto ciò che si muove

E il cuore

È sepolto troppo sotto nella sabbia

Per accorgersene.

 

Stanno andando in viaggio

Quelle profonde creature blu

Passandoci oltre come un raggio di sole

Guarda

Quelle pinne, quegli occhi chiusi

Che ammirano ogni ultima goccia d’oceano.

 

Ho strisciato nel letto con tristezza quella notte

Non potei toccargli le dita. Vedilo splash

Dell’acqua

Il rumoroso movimento di nuvola

La spinta delle montagne gobbe

Profonde al bordo della sabbia.

 

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