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Lunedì, 30 Aprile 2018 07:00

Da questa parte dello schermo: su "La pura superficie" di Guido Mazzoni

Scritto da Guido De Simone
Guido Mazzoni Guido Mazzoni

And everyone young going down the long slide / To happiness, endlessly.

Philip Larkin, High Windows

 

Nel settembre 2017, Donzelli è tornata a pubblicare i versi di Guido Mazzoni, già autore de La scomparsa del respiro dopo la caduta (in Poesia contemporanea. Terzo quaderno italiano, a cura di F. Buffoni, Guerini, 1992) e I mondi (Donzelli, 2010).

La pura superficie è un prosimetro composto da cinque sezioni in versi, intervallate da quattro prose cadenzate: I destini generali, Angola, Sedici soldati siriani e Genova. Nella forma, come anche nel contenuto, queste quattro ‘liriche’ rinunciano alla verticalità del verso, senza per questo depotenziare l’atto linguistico in sé. Avviene invece il contrario: la tensione orizzontale della parola moltiplica luoghi e personaggi narranti e narrati, negando ogni forma di introspezione o rivelazione epifanica a proposito degli stessi e costringendo il lettore a restare in superficie.

Di grande interesse è il ripetersi di alcune tematiche all’interno delle cinque sezioni di cui l’opera si compone. Emblematico, a tal proposito, il ricorrere del titolo Essere con gli altri, che il lettore ritrova nella prima, nella terza e nella quinta sezione, oltre che nella variante Esserci e non avere paura. È indubbiamente questo il tema centrale della silloge: il rapporto dell’uomo con l’Alterità nell’odierna società dell’hashtag, dove ogni evento, persona o cosa è ridotta a una serie di etichette disposte su un piano di orizzontalità assoluta.

In Essere con gli altri (sezione I), si può leggere del «disagio» che l’intellettuale prova nel definire – nel senso latino del termine: confinare, limitare – l’altro da sé, il quale rimane invece sempre irriducibile a ogni categorizzazione. Mazzoni non nasconde infatti «l’opacità degli altri mentre [ci] vengono incontro», tanto che dell’uomo che ieri «giaceva a terra investito da un taxi» non può ricordare il volto, gli occhi, l’età, ma soltanto «una busta con la scritta Birkenstock», unico momento di tangenza in «un’esistenza aliena» dalla propria. Per questo, prosegue Mazzoni, «spesso nei vostri volti io vedo una distanza pura, / un’esteriorità assoluta».

In Essere con gli altri (sezione III), il poeta spiega come anche gli amici di un tempo siano ormai alterità insondabili: «persone che non ved[iamo] da anni, / raccontano cose che non p[ossiamo] comprendere»; i compagni di scuola, d’infanzia, di calcio sono ormai «soltanto questo aneddoto», una storia inattuale, un tempo passato e irripetibile. Allo stesso modo, anche il poeta è per questi “estranei” poco più che una sagoma bidimensionale, che si interroga sull’«intero che [ci] sovrasta», sulle «strade che [tornano a] esistere dopo di noi».

Un contatto sincero con gli altri pare dunque possibile solo rimanendo in superficie, come in Essere con gli altri (sezione V), dove Mazzoni rievoca «un’escursione in campagna / fra persone che non conoscevo. / Non parlavamo di nulla, raccontavamo aneddoti, […] oppure ci assentavamo internamente». Restando in superficie, «qualcosa cresceva fra gli ego», nel tacito e consapevole rifiuto di ogni tensione verticale. Mazzoni è tuttavia consapevole del fatto che questa illusione di prossimità sia solo «una forma di indulgenza», utile per «giustificar[si] fino a sera», per alienarsi almeno un giorno dal dolore: «ho ripetuto / le idee insensate degli altri per stare sopra questa patina, / per mimetizzarmi», confessa il poeta.

Un fil rouge lega queste tre poesie a Uscire, in cui l’Io lirico «sale su un autobus, incontra le persone, le scherma col linguaggio, / dice “studente fuorisede”, “tatuata”, “filippino”, / per non vedere il fuorisede, la donna tatuata, il filippino» e proprio quando il lettore percepisce di essere prossimo a un’epifania, la poesia vira: «la tatuata scende prima di diventare umana».

Un altro titolo ritorna più volte nella silloge, Stevens: sette sono le occorrenze del poeta e saggista statunitense vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. La traduzione dei testi di Stevens da parte di Mazzoni apre uno squarcio su un altro dei nuclei essenziali della raccolta: la critica al tradizionale statuto dell’Io lirico. A tal proposito è indubbiamente significativa la postilla a introduzione dell’opera, dove si legge:

«alcuni [testi] sono scritti in prima persona, altri in terza (o in seconda); a volte la persona di cui si parla coincide con la persona che ha messo la firma sul libro, altre volte no; in certi casi la prima versione dei testi è stata scritta da Wallace Stevens, come dice il titolo, in altri no. Queste differenze, fondamentali su un certo piano di realtà, sono, su un altro piano, del tutto irrilevanti». 

In un’interessante intervista rilasciata a Gianluigi Simonetti per «Nuovi Argomenti», Mazzoni spiega nel dettaglio le ragioni che l’hanno spinto a «reinventare il pronome di prima persona singolare»: si tratta di ristrutturare la lirica «per acclimatarl[a] a un’epoca che estende a dismisura il narcisismo ma segmenta l’io». L’esempio viene da poeti quali Carlo Bordini, Mario Benedetti, Franco Fortini; il fine ultimo è superare la tradizionale postura dell’Io lirico novecentesco, poiché essa suona oggigiorno falsa e vuota, in un solo termine letteraria.

L’intervista rimanda a concetti già trattati dall’autore nel saggio Sulla poesia moderna, edito da Il Mulino nel 2005, in cui Mazzoni aveva criticato la tendenza della poesia post-romantica ad appiattirsi sul mero lirismo. Paragonando i generi letterari a spazi geografici, l'autore era arrivato a costruirne una vera e propria topografia:

«come ogni spazio, anche i generi letterari hanno un centro e una periferia, il primo occupato dalle opere che l’orizzonte d’attesa dei lettori percepisce come vicine a un ipotetico idealtipo, la seconda dai testi che vengono fatti rientrare nel genere anche se eccentrici rispetto a una forma presunta».

Mazzoni identifica “il centro” della poesia moderna nella greater Romantic lyric, la lirica romantica maggiore, all’interno della quale l’Io lirico muove da un paesaggio individuato a una riflessione interiore o ancora a un dialogo con un interlocutore silenzioso. È il caso dell’Infinito di Leopardi, del Hälfte des Lebens di Hölderlin e innumerevoli altri esempi possono essere rintracciati nelle opere di Coleridge, Wordsworth, Shelley e degli altri romantici. Esistono tuttavia ulteriori possibilità poetiche spesso relegate a “marginalità topografica”, benché il posto da esse occupato nello spazio letterario della poesia moderna non corrisponda certo al loro valore estetico: si pensi alle suggestioni sonore del significante nel simbolismo oppure a ciò che gli inglesi chiamano long poem, in cui si privilegiano temi saggistici e si rinuncia alla forma breve.

Quest’ultima pare essere la “collocazione topografica” di poèmes en prose quali Barely Legal (sezione IV), dove Mazzoni constata come l’uomo post-contemporaneo trascorra la propria vita «da questa parte dello schermo», fingendosi protagonista di un’epoca e di una cronaca che non gli appartengono realmente. Con questa stessa chiave di lettura, tenendo dunque presente la critica allo statuto maggioritario dell’Io lirico, ci si può forse approcciare anche alle quattro prose che intervallano le sezioni della raccolta, rispettivamente dedicate agli attentati terroristici di Al-Qaeda, alla guerra in Angola o in Siria, alle manifestazioni contro il G8 a Genova: eventi che avvengono di là dallo schermo, narrazioni che viviamo ogni giorno in sordina, col finto interesse che permea la cultura dei social. La realtà – scrive Mazzoni in Sedici soldati siriani – è che «gli altri non ci riguardano o non ci interessano»: è una verità orribile, «ma non importa». Non importa forse neppure a chi scende per strada a manifestare, a Genova come in qualunque altra parte del mondo, perché ogni manifestante «ha [ormai] l’impressione di abitare un io vagamente falso, che si è costruito nel corso del tempo perché diventi la sua parte migliore», dunque l’impressione di agire solo per trovare un’identità, di manifestare più per se stessi che per una causa. C’è poi chi in strada non scende affatto: ai più le notizie di cronaca giungono distrattamente all’orecchio dal telegiornale durante i pranzi o le cene; per i più accorti sono «eventi illeggibili» che «significano solo se stess[i]», argomenti di cui perfino i professori – come si denuncia in Angola – finiscono per parlare «ripete[ndo] idee di terza mano», recuperate da un cronista o da un esperto etichettati come fonti attendibili. Con impietoso disincanto, Mazzoni ne tratta come fossero ossessioni da intellettuali, non dissimili da ciò che «il fitness, i giochi di ruolo o l’Atalanta» rappresentano per l’uomo medio.

Di qua dallo schermo, non c’è nulla di vero. Accertata la natura delle nostre ossessioni, persino i contorni delle Torri Gemelle si fanno più evanescenti nella forma che ne restituiscono i pixel. Viene il dubbio che si tratti di un’enorme fiction, l’ennesima trovata di Orson Welles e della CBS: l’uomo d’oggi «guarda la propria epoca venirgli incontro nel plasma», un evento che Mazzoni sa essere troppo grande per non lasciare traccia, «troppo grande perché restiate intatti, vi percorre e vi segmenta», così recita I destini generali.

I medesimi temi erano stati oggetto di un omonimo saggio pubblicato per la collana Solaris di Laterza nel 2015. Riflettendo più lungamente sulla parcellizzazione sociale che caratterizza la nostra epoca e sui concetti di mutazione antropologica e ritorno al privato, Mazzoni aveva potuto constatare il successo del «progetto che distingue l’Occidente da tutte le altre società, costruire una convivenza senza Dio». L’uomo che emerge dal saggio, come dalla silloge, di Mazzoni ha rinunciato a ogni forma di trascendenza, dalla tradizionale divinità alla trascendenza politica e morale, mentre si fa sempre più accentuata la crisi del«l’ultima forma delle trascendenze, la più laica, la più individualistica, […] i legami personali: la famiglia, i figli, la persona amata». Solo tenendo a mente queste parole si possono comprendere a pieno la visione dei rapporti interpersonali che emerge da poesie come Essere con gli altri e la crisi del sistema di valori politici ed etici condivisi di cui trattano prose liriche quali Sedici soldati siriani, Genova o Angola.

Essendo stati toccati temi di rilievo, il lettore si aspetta una presa di posizione da parte dell’autore. A tal proposito, tuttavia, Mazzoni aveva già dichiarato ne I destini generali: «a tutto questo io non avevo da opporre alcunché». Coerentemente, nella lirica posta ad apertura della silloge, Uscire, si legge: «Ho scritto un testo che non tende a nulla. Vuole solo esserci, come tutti. / Ho scritto un testo che rimane in superficie». Pur tuttavia questa raccolta non resta in superficie, ma ferisce il lettore, lasciandolo arreso davanti all’insondabilità dell’esistere, alla vacuità dei rapporti interpersonali, come privato di una Grammatica del mondo, dolorante e frustrato nei suoi intenti al pari dell’«insetto enorme che occupa la parete del salotto […] troppo pesante per essere ucciso senza rimorsi […] [che] esprim[e] il proprio terrore gettando se stesso contro un limite che non p[uò] vedere».

Il lettore non smette di provare a evadere da questa visione del mondo e sino all’ultima pagina della raccolta spera che l’autore voglia suggerirgli una via d’uscita. La posizione dell’intellettuale post-contemporaneo è, tuttavia, di gran lunga la più scomoda dell’intera società occidentale; egli non ha risposte da suggerire al lettore, «perché alla fine vivere significa conservare una forma di miopia, di ottusità, ed evitare di interrogarsi fino in fondo sulle cose ultime […]. Quell’amore per la superficie […] contiene, alla fine, una forma profonda di saggezza».

 

*

 

Uscire

Esce di casa per una ragione, la dimentica,
sale su un autobus, incontra le persone, le scherma col linguaggio,
dice “studente fuorisede”, “tatuata”, “filippino”
per non vedere il fuorisede, la donna tatuata, il filippino,
poi viene travolto dalle frasi assurde, le mani colorate
come animali onirici,
come uccelli tropicali, l’anarchia degli altri.

Da qualche anno le cose mi vengono addosso senza protezioni.
In sogno vedo denti rotti, punti di sutura,
topi tagliati in due, fra l’orecchio e la mascella, che discutono fra loro.
Spesso, quando parlate, io non vi ascolto,
mi interessano di più le pause tra le parole,
ci leggo un disagio che oltrepassa la psicologia, qualcosa di primario.
La tatuata scende prima di diventare umana, il vetro
moltiplica i dettagli, per un attimo
il filippino significa qualcosa,
poi prova le suonerie, il suo rumore
mi ottunde internamente, vorrei colpirlo.
Ero uscito per comprare una di quelle lampadine a led
di nuova generazione, di quelle che non si bruciano,
un paio di forbici, la frutta, un cocomero.
Ho scritto un testo che non tende a nulla. Vuole solo esserci, come tutti.
Ho scritto un testo che rimane in superficie.

 

*

 

Grammatica

L’insetto enorme che occupa la parete del salotto si è scontrato per ore contro il vetro cercando di uscire. Troppo pesante per essere ucciso senza rimorsi come un insetto piccolo, esprimeva il proprio terrore scagliando se stesso contro un limite che non poteva vedere. Ho aperto i vetri per aiutarlo, ma la differenza fra di noi era così grande che ogni mio gesto, indecifrabile per lui, amplificava la sua paura. Cercavo di capire che cosa percepisse, volevo evitare che la sua agitazione perdesse valore diventando una funzione della mia, una metafora umana. Il suo movimento entrava in me, tentava di dividermi. Le persone, il fiume, l’ufficio postale che esistevano oltre il vetro erano piccoli in quel momento, ridiventavano superficiali. Perché alla fine non comprendiamo mai: troppo grande è la differenza che ci separa, troppo pesante ciò che gli altri suscitano in noi. Eppure la loro agitazione allude a un’angoscia, compone una grammatica che misteriosamente ci appartiene. È per questo che ora esco dalla stanza e lascio aperta la finestra; è in nome e per conto di questa grammatica che adesso sono in pena.

 

*

Angola

Incontro Rino Genovese in Boulevard de Montparnasse, ci conosciamo male, passiamo i primi minuti a calibrare le distanze, attraversiamo i passaggi mentali che le persone attraversano per accostarsi alle persone. Fra qualche mese lui compirà sessant’anni; io penso a come sia avere sessant’anni, vedere la propria vita diventare indecifrabile per chi esiste adesso, regredire nel passato. La lastra sopra di noi si muove senza nuvole, i passanti oltre i tavolini camminano senza uno scopo. È agosto, è domenica. Anch’io sto regredendo.
Parliamo degli anni Novanta, degli anni Settanta, di un’assemblea in cui Genovese prende la parola come militante di un gruppo extraparlamentare per spiegare ai compagni la rivoluzione comunista in Angola. È il 1976, ha ventitré anni, non è mai stato in Africa, non conosce il portoghese, sa di essere bordighista ma non sa nulla delle quaranta lingue che si parlano in Angola – ma per mesi interi, nel 1976, va in piazza per difendere la rivoluzione comunista in Angola, parla dell’MPLA, dell’FLNA, dell’UNICA, dell’ingerenza del Sudafrica, di imperialismo americano. Migliaia di sconosciuti combattono una guerra di cui capiscono poco e che terminerà venticinque anni dopo per estenuazione, eccesso di morti, indifferenza; lo fanno per obbligo, per necessità, per interesse, per appartenenza etnica, per puro caso – ma nel 1976 il mondo è leggibile, lo è oggettivamente; la coscrizione, la necessità, gli interessi, i popoli, il caso fanno parte di un conflitto fra due forme di vita, e questo schema è rozzo ma sta dentro le cose, le semplifica e spinge masse di giovani italiani a parlare, per mesi, della rivoluzione comunista in Angola come se potessero capirla, a scendere in piazza a Massa o a Pescara come se l’Angola avesse un rapporto con Massa o con Pescara, o come se Massa o Pescara avessero un rapporto con la storia umana, compiendo un gesto che nel 1976 è ovvio ma che cinque anni dopo sarebbe diventato incomprensibile come un rituale totemico o una processione medievale – e mentre l’aneddoto ricrea questo mondo qualcosa si lacera, il paesaggio si fa ironico, la parola ‘bordighista’ si copre di virgolette, il cellulare ci riporta nel presente e mi trovo a disagio come quando, in questi decenni, ho parlato di Ruanda, Jugoslavia o primavere arabe mentre era palese che a nessuno interessava parlarne veramente, e ascoltavo gli altri, e ascoltavo me stesso ripetere idee di terza mano per obbedire a un rituale che apparteneva a un’altra epoca, seguendo un’ossessione che, se vista dall’esterno, non è molto diversa da quella che occupa la mente di coloro che organizzano il proprio tempo intorno a uno dei tanti dada di cui è fatta la vita umana, alla monomania di chi vive per il fitness, i giochi di ruolo o l’Atalanta; perché i conflitti che ci interessano significano solo se stessi, perché la Jugoslavia, il Ruanda, le primavere arabe significano solo se stessi, eventi illeggibili, pure vittime, mentre la politica comincia quando non esistono più eventi illeggibili o pure vittime, quando diventa giusto morire e soprattutto uccidere in nome di qualcosa, anche se oggi non osiamo più pensarlo, anche se oggi non oseremmo scriverlo, o lo faremmo solo in una poesia. Per questo guardo il viale e passo ad argomenti prossimi, per questo voglio sentirmi credibile e presente – i miei problemi, la forma dei suoi occhiali, la chemioterapia di un amico, la gravidanza di un’amica, un altro neonato. Ci salutiamo così.