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Domenica, 08 Aprile 2018 22:02

Giusto terrore. Conversazione con Alessandro Gazoia

Scritto da Marco Montanaro

Quest'intervista è stata pubblicata sul blog minima&moralia il 23 marzo 2018.

Un flusso di sconcertante nitore scorre tra le pagine di Giusto terrore di Alessandro Gazoia, libro che di lettura in lettura (e di recensione in recensione) sembra cambiare forma e categoria libraria. A tal proposito, si dice – è un cliché – che il romanzo sia onnivoro: con più probabilità in questo caso onnivoro è soprattutto l’autore. Anche in questa prova edita dal Saggiatore Gazoia si rivela infatti un curioso del pensiero umano come luogo e strumento, oltre che come mera materia di studio.

E nel pensiero siamo immersi, in Giusto terrore, che mette in scena un gioco di sponda continuo tra frammenti di notizie, video condivisi sui social, vecchi film e trasmissioni televisive; gioco di sponda la cui sostanza principale è il terrorismo: quello jihadista, quello delle Brigate Rosse e dell’OLP – ma sono solo alcuni esempi: a Gazoia sembra interessare piuttosto il comune denominatore di tutti i terrori, per ravvivarlo e scardinarlo quasi dall’interno – in una sorta di hacking verbale – con giusto raziocinio.

Quanto a noi lettori, con la voce narrante di Giusto terrore abbiamo in comune tanto il viaggio quanto l’assenza di destinazione. Lui in treno per la consulenza su una serie di documentari sul terrorismo, noi nella sua testa, nel suo montaggio alternato a tema ora storico, ora religioso, ora politico o linguistico-mediatico.

“Da oltre una decina d’anni”, leggiamo a pagina 49, “il montaggio alternato e gli accostamenti stupefacenti di Fuori Orario e Blob […] vengono autoprodotti in tempo reale. Il cadavere squisito lo compone in forma personalizzata il social network, con i materiali condivisi dagli utenti e senza necessità dell’alta garanzia teorica. Nel flusso ininterrotto i nuovi pezzi vanno a prendere il loro posto casualmente perfetto”.

Punti fermi di questo viaggio in quattro capitoli sono le parole, che sono insieme contese e terreno di contesa – e allora ecco l’hacking verbale: “Le parole hanno più di una storia e le armoniche di senso risuonano in modi diversi nel tempo, nella comunità e nel singolo che parla, ricorda e scrive. Siamo parlati dal linguaggio, ma proprio per questo dobbiamo negarci ogni estasi etimologica, non importa che in uccidere si celi caedo, verbo tecnico dei latini per il togliere la vita nel sacrificio: non significa nulla di più”.

Radicalizzarsi in carcere e politicizzarsi in carcere, ad esempio, sono due espressioni che sottendono un collegamento nemmeno poi tanto stravagante tra territori e terrori apparentemente distanti nello spazio e nel tempo. Spazio e tempo che in Giusto terrore, se stiamo alla misura narrativa, sono sovrapposti, smussati, a volte liquefatti dal pensare il pensiero più chiaro possibile da parte del narratore, il quale fissa assorto la singola parola come si trattasse di un sole pieno inchiodato al blu del cielo.

Manuale di comunicazione, romanzo di non finzione, saggio romanzato: ha dunque poca importanza la forma di Giusto terrore. Di certo quello di Gazoia è un libro aperto, in dialogo col tempo conteso del sottotitolo e con altre opere contemporanee: penso a L’innominabile attuale di Roberto Calasso o a due romanzi come Gli anni di Annie Ernaux e, per l’apparente assenza di un centro stabile, Il defunto odiava i pettegolezzi di Serena Vitale; e certo va detto pure che un tempo i libri che facevano più cose insieme, come nel caso di Giusto terrore, si chiamavano appunto romanzi.

“I romanzi sono importanti” spiega il narratore di Gazoia a proposito della teoria letteraria che salvò Salman Rushdie dai tribunali inglesi (ma non dalla fatwa dell’Ayatollah), “proprio perché rappresentano la creazione umana dove ogni persona e idea può ottenere un suo limitato e parziale riconoscimento, dove le tesi finali, quando compaiono, non estinguono la proliferazione e la contraddizione del reale”. E questo è precisamente ciò che Gazoia fa col suo libro: occuparsi di proliferazione e contraddizione, a partire dalle parole contese.
E ora un breve scambio di riflessioni con l’autore.

In un’intervista con Michele Lamonaca hai spiegato che il Giusto terrore del titolo può essere considerato come una citazione in traduzione di just terror, la risposta jihadista al just war della guerra americana; o che in alternativa si può interpretare quel “solo” come avverbio: dunque “solo terrore”,  come a dire “è solo un fantasma”, se gli togli il lenzuolo sparisce. Un modo per razionalizzare, forse, per dire che quel terrore è soprattutto nelle nostre teste. Una mia interpretazione ulteriore è che il terrore di cui parli, specie quello jihadista, sia anche “appropriato” per l’epoca in cui viviamo: globale e diffuso, ipermediatico, una sorta di giusto aggiornamento di un terrore più classico.

La tua interpretazione mi pare sensata, vi sono anzi diversi studi sull’«ultraviolenza ipermediatica» dell’ISIS, pensata specificamente per il fruitore occidentale contemporaneo. Farei solo un’aggiunta: il terrorismo è sempre una forma di azione-comunicazione, è propaganda del fatto (da intendere come: il fatto si determina attraverso la propaganda), richiede dunque un’interpretazione attiva, un moltiplicatore emotivo che lo spettatore terrorizzato fornisce.

Il libro si apre col terribile rogo del pilota giordano Muath. Se non erro, da quel momento in poi si ha un salto di qualità tecnica da parte della propaganda del sedicente Stato islamico. Siamo nel regno dell’HD, del montaggio e della colonna sonora epica, degli zoom e del ralenti (il tutto richiamato tra l’altro su carta dalla patinatissima rivista Dābiq). Qui secondo me c’entrano, oltre all’inedita disponibilità di mezzi tecnici a un costo più basso, un immaginario da blockbuster occidentale e la pornografia. Soprattutto come per la pornografia, il gore della propaganda in HD ha a che fare con quello che solitamente non saremmo disposti ad ammettere di voler vedere, con un certo tipo di oscenità che diventa forse sempre un po’ meno oscena.

Oggi si usa di frequente porn come una sorta di superlativo, tra finta autoironia e vero compiacimento, ad esempio su Instagram le foto curatissime di cibo sono etichettate food porn dagli stessi autori, quelle di librerie sono book porn e così via. In questo senso credo che tu abbia ragione: il gore del video di Muath è «terror porn». Siamo stati abituati, prima dai maestri truccatori poi dalla grafica computerizzata (nel cinema e nei videogiochi), a divertirci con orrori spaventosi e spaventosamente realistici. L’uccisione di Muath funziona benissimo come trucco, intrattiene, solletica e diverte… sino a quando non sentiamo che sta accadendo fuor di finzione. Mi viene da pensare, per una variazione, all’agnello sulla tavola pasquale che una mia zia non trova più buonissimo da quando si concentra sugli occhi dell’agnellino televisivo (sì, la conversione è merito di Berlusconi).
La differenza fondamentale è ancora una volta riconoscere l’altro nella sua sofferenza, nella sofferenza che sentiamo reale.

Collegamenti e simmetrie – le BR rilette attraverso la formazione dell’Italia campione del mondo nell’82 o le commedie erotiche di quegli anni – creano la struttura a quadri del libro. Quadri instabili, in cui si avanza come seguendo dei link nella testa del narratore (non a caso, Giovanni Bitetto su Esquire ha parlato di Giusto terrore come di un romanzo del cloud). Il libro da questo punto di vista mi sembra un’esperienza immersiva del tutto simile a quella che facciamo saltando da un contenuto all’altro in rete. Di più, ho avuto la sensazione che Giusto terrore avanzasse generando da sé il suo ambiente, quadro dopo quadro, come in certi videogiochi fa il motore grafico (motore che nella lettura è forse l’incontro, l’accordarsi tra la sensibilità dell’autore e quella del lettore).

Prima di tutto permettimi di ribadire l’ovvio: l’interpretazione dell’autore non è in principio più autorevole di quella di un qualsiasi altro lettore. Inoltre provo un grande imbarazzo nel citare i modelli altissimi a cui mi sono ispirato. Dovendo però rispondere alla tua domanda: non penso affatto che il mio libro sia un romanzo del cloud o dei link. I miei riferimenti sono piuttosto lontani dal digitale, ad esempio il lavoro di montaggio (analogico, con un saluto affettuoso al ragionier Ugo) è sfacciatamente novecentesco. Insomma, non pensavo ai salti da un link all’altro ma ai Passages, ad Ėjzenštejn e, venendo a testi più recenti, ad Austerlitz Mao II.

A lato e in breve, due cose per me importanti: Giusto terrore cerca di pagare il proprio debito verso molte opere e molti scrittori, ad esempio il primo capitolo è tutto intessuto di motivi benjaminiani e nel finale del libro c’è un richiamo all’andare in profondità di Austerlitz, e pure questo procedimento – fatto di arte allusiva, cauti e incauti omaggi, citazioni e criptocitazioni, armoniche di senso – viene dal Novecento, è l’intertestualità; Giusto terrore tratta del flusso dei social network ma si propone di farlo senza mimare il flusso dei social network. Ripeto: nessuna pretesa di verità da parte mia, forse ho scritto davvero il «romanzo del cloud». Ma se così è, ho fallito in pieno.

L’avanzare generando da sé il proprio ambiente, quadro dopo quadro, è invece un’immagine che mi piace moltissimo, così come la definizione di esperienza immersiva. Credo valgano per tante opere di letteratura, prima e dopo Internet.

Collegamenti, ma anche simboli. Il treno, in cui per la maggior parte del tempo si trova il narratore, è sicuramente un simbolo forte quando si parla di terrorismo. Sia per il viaggio in sé – più o meno mentale, come abbiamo visto – sia in quanto tra i luoghi pubblici in cui più ci sfiora l’idea del terrore. (A me capitò nei primi anni del Duemila, in un viaggio verso Roma subito dopo gli attentati di Madrid, di guardare con sospetto la valigia di pelle nera di un povero Sikh che sonnecchiava nel mio scompartimento.) E siamo alla paranoia, che è forse legata all’inconfessabile desiderio di credere che anima persino una società ultrasecolarizzata come la nostra. Un desiderio alla rovescia: crediamo a tutto perché non crediamo a niente. Così il terrorismo percepito, almeno in Occidente, supera di gran lunga il terrorismo reale: e finisce col diventare però un dato di realtà.

Non penso sia vero che viviamo in una società ultrasecolarizzata e non penso sia vero che «crediamo a tutto perché non crediamo a niente», o meglio: il credere in qualcosa, in Dio, non impedisce a molte persone di credere a tutto.

Sulla paranoia vorrei riprendere la risposta alla prima domanda con una riformulazione estrema: il terrorismo percepito deve superare il terrorismo reale, per essere davvero terrorismo.

Concluderei sulla parola, su come l’articoli nel libro. Mi sembra che su tutto domini un desiderio di chiarezza, pur nella proliferazione e nella contraddizione, anche nei periodi più lunghi (che ho il vizio di paragonare in genere a dei piani sequenza cinematografici). Eppure mi sembra che questo desiderio si limiti a far luce sulla contesa, a svelarla più che risolverla: ad esempio resta il fatto che ciò che per noi è terrorismo, per altri è l’insurrezione del fedayn; o che sia molto difficile anche solo aspettarsi, da parte del grosso della stampa italiana, una distinzione tra sunniti e sciiti (per non dire degli altri gruppi) all’interno dell’immensa umma musulmana; o che ancora si arretri persino sul terreno del diritto, quando il tizio che ha urlato “Allah Akbar” poco prima di essere neutralizzato dalla polizia francese è già definito terrorista dalla stampa – senza più traccia dell’aggettivo presunto, e in attesa del bollino di qualità elargito da Rita Katz su Twitter.

Giusto terrore non risolve nulla e non pretende di risolvere nulla. Racconta storie dal nostro tempo conteso (come recita fedelmente il sottotitolo) e crede che questo sia il suo «compito storico». Diversi lettori mi hanno detto che il libro li ha portati a riflettere su alcuni dei temi che citi e su altri importanti allo stesso modo. Sono molto felice che Giusto terrore abbia prodotto anche questo effetto, per quanto limitatissimo.

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