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Lunedì, 26 Marzo 2018 07:00

Vivere in due lingue. Su «Favelado» di Matteo Gennari

Scritto da Beatrice Stasi

Vivere in due lingue è una ricchezza, quale che sia il prezzo da pagare in termini di identità culturale e rassicuranti corrispondenze biunivoche (almeno tendenzialmente!) tra parole e cose.
P
er Matteo Gennari (Milano 1975), italiano che vive in Brasile dal 2003, giunto al suo terzo libro (Favelado. Quaranta racconti da Rio de Janeiro, Guagnano, Ofelia Editrice, 2017), l’equivoco bifrontismo della sua condizione si dichiara e si riscatta fin dal titolo, che in portoghese individua, con puntuale oggettività, la condivisa situazione dei suoi personaggi, abitanti delle favelas e dunque «favelados», mentre in italiano evoca, grazie a suggestioni fonetiche vaghe e indeterminate, l’attitudine narrativa alla base del racconto, di un «favellare» quasi declinato in un improbabile gerundio, in grado di conferirle una valenza continuativa e indefinita.

Benché si presenti, fin dal sottotitolo, come una raccolta di novelle e dunque opera potenzialmente aperta, Favelado rivela però subito, a una lettura attenta, una strutturazione meditata e profonda, esplicita nella forte vocazione circolare che non tanto accosta, quanto sovrappone il primo e l’ultimo racconto, ma implicita anche nella ragionata concatenazione dei primi tre microtesti. L’onomatopea che apre il libro e il primo racconto («TOC, TOC, TOC») risuona infatti anche nei due racconti successivi: tutti e tre i protagonisti (Henrique de Le ultime ore di Henrique, Toni e lo straniero, eponimi dei due testi successivi) sono colti in un loro personale e disperato «knockin’ on Heaven’s door», nell’atto di bussare alle porte di una possibile salvezza; che sia un Centro Spiritista in cui si legge il Vangelo, o un Terreiro in cui si assiste o si partecipa ai trascinanti e parossistici riti dei culti afrobrasiliani, chi bussa a quella porta  spera di trovarvi «un po’ di pace, una risposta agli interrogativi assillanti, al desiderio di farla finita…» [p. 180], come pensa Henrique, nella sua inopinata ricomparsa nell’ultimo racconto, La lettura del Vangelo. Evangelica è del resto la citazione epigrafica che il lettore incontra alle soglie del libro (Luca 6 27 e non Matteo 6 44 come indicato nel testo), segno e annuncio dell’ostinato fervore non tanto, forse, di una fede, quanto piuttosto della speranza in una fede che sorregge tutto il libro, insieme ad una ferma e costante, e non sempre sommessa, vocazione etica. In questa prospettiva, anche il numero dei racconti può acquisire un valore simbolico: tra Antico e Nuovo Testamento, tra i quaranta giorni del Diluvio Universale e i quaranta giorni di digiuno di Gesù nel deserto (per citare solo alcuni esempi), fino alla consacrazione liturgica della Quaresima, quaranta è il numero che segna e misura un periodo di sofferta e penitenziale preparazione e attesa della possibilità di un miracolo liberatorio.

A giustificare una simile chiave di lettura è un’altra fervida speranza che pervade il libro, quella in un senso che trasformi in segno dettagli ed eventi, come rivela l’avvincente finale de La civetta: «Quante volte io e lei abbiamo pensato di mollare tutto e ricostruirci una carriera, un’identità da un’altra parte, poi siamo tornati, ci siamo detti che le persone non si incontrano per caso, che un destino esiste e che se quella volta che lei ha preso l’autobus per Bahia (e pareva davvero fosse tutto finito) davanti a noi sulla panchina che a fatica ci davamo un bacio, se quella volta sulla panchina invece di un piccione si è posata una civetta e ci ha squadrati coi suoi occhioni dorati, se quella volta quella civetta così intensamente ci ha guardati e inquadrati quando meno ce l’aspettavamo, deve significare qualcosa» [p. 55].

 È quest’attesa di un’epifania del senso, a pensarci bene, che accende e ravviva l’esperienza stessa della scrittura, fino a riconoscerle una funzione salvifica: a professarla è, prima di tutto, il personaggio che parla in prima persona, «lo straniero» che dà il titolo al terzo racconto per poi ricomparire anche in molti altri, con delle caratteristiche che ne fanno una evidente proiezione autobiografica dell’autore in grado, anche in questo caso, di cucire i diversi segmenti narrativi in una coerente e intensa continuità macrotestuale. Centrale in questo senso il racconto Giulia, in cui il protagonista, alla figlia preadolescente in crisi, dà un suggerimento tratto dalla propria esperienza personale: «Quando ti senti triste, scrivi e cerca di sfogarti. […] Iniziando, ho subito sentito che il mio cuore diventava più leggero. Fallo anche tu, magari ti serve».

Quel «magari» accende un baluginio di speranza anche per altri personaggi del libro, da Raul Notte Fonda, che in quindici anni ha scritto quindici pagine del suo romanzo, al ricco Poeta del racconto eponimo, dai limpidi occhi «che lasciano scorgere miriadi di pesci (e di perversioni)» [p. 141], allo stesso Pai de Santo, un sacerdote del culto afrocristiano (Umbanda), compositore incompreso, che si libera così dall’ossessiva tentazione suicida scaturita dal fallimento del suo terzo matrimonio: « Poi troverà un’altra donna, la quarta, e, se deve succedere, arriveranno anche la quinta e la sesta. Meglio per lui che avrà molte cose da raccontare e scriverà tutte le canzoni che gli verrà voglia di scrivere» [p. 131].

Più scontata, ma non per questo meno efficace, è l’altra componente che conferisce unità e coerenza a tutto il libro, un indiscusso protagonismo delle favelas e dei suoi abitanti fondato su un’intima adesione in grado di esorcizzare tanto il pericolo di una deriva giornalistica quanto quello di un indugio manieristico sul pittoresco. A mettere poi al sicuro la voce narrante da un possibile cedimento sentimentale è la sorvegliata tenuta della scrittura, con la precisa messa a fuoco dei suoi oggetti, senza sbavature: personaggi e storie, luoghi e colori incontrano il lettore nell’apparente semplicità referenziale di parole che senza cambiare registro e senza apparente soluzione di continuità oscillano tra mondo onirico e mondo reale, come nella surreale rappresentazione di una Rio de Janeiro innevata, che inquadra in bianco e nero l’«esatto momento» in cui « stanco di aspettare, il Cristo Redentore decide di staccarsi dal piedistallo della statua che lo tiene ancorato alla collina del Corcovado, e di scendere per la foresta di Santa Teresa dove, ultimamente, turisti e viandanti sono stati derubati e uccisi a fiotti» [p. 92].

Documentario e visionario al tempo stesso, questo bel libro pubblicato dalla coraggiosa e lungimirante casa editrice Ofelia di Guagnano sottrae così anche l’icona più celebre di Rio alla stereotipata e statuaria immobilità della cartolina per farla camminare «pesante» per tutta la città «con le braccia aperte […] strascicandosi a fatica tra i metri di neve, cercando disperatamente qualcuno da abbracciare». Perché, come pensa don Matteo, il prete italiano che pure abita più di un racconto, «Nessuno è cattivo per sempre» [p. 101].

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