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Giovedì, 15 Marzo 2018 07:00

Quando Bene ci lasciava "A boccaperta". Lettura di un'opera degenere

Scritto da Salvatore Dinoi
"Hommelette for Hamlet", 1987, foto di scena da C. Bene, G. Dotto, "Vita di Carmelo Bene", Bompiani, Milano, 1998. "Hommelette for Hamlet", 1987, foto di scena da C. Bene, G. Dotto, "Vita di Carmelo Bene", Bompiani, Milano, 1998.

Dalla Vita di Carmelo Bene apprendiamo che Bene ha scritto San Giuseppe Desa da Copertino. A Boccaperta nel 1970[1] e che solo a distanza di sei anni, nel 1976, il testo sarà pubblicato, insieme con altre due opere, S.A.D.E. ovvero libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina. Spettacolo in due aberrazioni e Ritratto di signora del cavalier Masoch per intercessione della beata Maria Goretti. Spettacolo in due incubi, in un volume edito per i tipi di Einaudi[2]. Nella quarta di copertina del volume si legge che questi scritti non son pubblicati nella semplice veste di ‘supporto’ preliminare a opere cinematografiche o a pièces teatrali, ma presentati al pubblico nella loro valenza squisitamente letteraria:

 

Non è tuttavia come materiali per lo spettacolo che i tre testi vengono qui riproposti, ma come vere e proprie opere letterarie, pervase da un’aspra tensione creativa, sotto la cui spinta si muove un universo sintattico ad esplodere e a ricomporsi secondo moduli e cadenze atipiche.

 

Soltanto S.A.D.E. (è lo stesso Bene a informarcene nella Vita, p. 233) sarà inscenato “in Italia e quindi a Parigi (in lingua francese), truccato da musical”; mentre Ritratto di Signora, afferma l’autore, non sarà “mai traslato in teatro” per “estrema difficoltà”. Analoga sorte spetterà ad A Boccaperta, che resterà per sempre privo di trasposizione cinematografica. Giancarlo Dotto ne svela un primo motivo:

 

A Boccaperta, la favola di frate Asino. Non si arrivò mai ad allestire un set: sarebbe costato cifre catastrofiche. C.B. pretendeva che alcune sale si dotassero di due schermi, quello verticale più un altro sul soffitto per restituire i folli voli del frate (p. 297).

 

Ancora nella Vita di Carmelo Bene, Dotto parla di A Boccaperta come di “sceneggiatura cinematografica dedicata a San Giuseppe da Copertino” (p. 230). Tuttavia da questa ‘sceneggiatura cinematografica’ l’autore, come abbiamo constatato, sceglierà di non trarre mai un film: una decisione che potrebbe apparire immotivata, se si considera che il 1970 è un anno che sta esattamente nel mezzo di quella che Bene, in Sono apparso alla Madonna, definisce una

 

parentesi “eroica”. Quella cosiddetta cinematografica. Il ciclo della dépense. Immane spreco di energia a dar fondo all’avventura di ben cinque film consecutivi, diretti, prodotti, “scemografati”, decorati, vestiti, calzati, registinterpretati. Cinque film d’ “autore”, autore in particolare del proprio disfacimento[3].

 

Riferendosi a questo tratto della sua produzione artistica, Bene scrive (nella Vita, p. 297):

 

Queste sono le frustrazioni di chi è tutto di qua o di là della cinepresa. La mia urgenza era solo una: sparecchiare in fretta il set e passare ad altro. Giravo un film pensandone un altro.

 

E i ritmi di lavoro di Bene, ci informa Dotto, sono serrati (p. 263):

 

Dal ’67 al ’72: cinque anni di furore iconoclasta mettono a soqquadro la dormivegliante provincia del cinema italiano, fermo alle celebrazioni del neorealismo. […] Carmelo Bene […] [è] produttore di sé stesso, scenografo, regista, attore, al di qua e al di là della macchina da presa. Tutte opere girate a basso costo, in tempi brevissimi e con mezzi di fortuna.

 

Ma allora perché, proprio in un periodo di così densa ispirazione e instancabile impegno nella cinematografia, rinunciare a girare un altro film, di cui è stata perfino scritta la sceneggiatura? Potremmo tentare di ricostruire una risposta a partire da quanto Bene stesso esprime in alcuni luoghi che esamineremo. Intanto, nella breve sezione introduttiva premessa alla versione di A Boccaperta contenuta nelle sue Opere (p. 419), egli tiene a specificare quanto segue:

 

N.B. La mia produzione cinematografica consta di cinque lungometraggi: Nostra Signora dei Turchi (’68), Capricci (‘69), Don Giovanni (‘70), Salomè (‘71) e Un Amleto di meno (‘72), realizzati senza supporto di sceneggiatura. Questo A Boccaperta è […] qualcosa in più d’una sceneggiatura, e perciò mai filmato.

 

Dunque, a monte di ogni pellicola creata da Bene non esiste una sceneggiatura, che è invece presente per l’unico progetto di film che non vedrà mai la luce del proiettore: Bene avverte l’esigenza di consegnare alla carta la sua ispirazione. Un ulteriore passo della Vita (p. 225) risulta in tal senso illuminante:

 

Scrivo per scompensarmi nell’infortunio del corpo tipografico. […] Quando fai una cosa, devi occuparti di un’altra. […] Lo scritto è come ou topos, un teatro senza pubblico. Né l’illusione d’una folla grande o piccola di lettori. Il non-luogo della pagina. Necessarissimo: dopo tanta congestione teatrale, ecco la de-generazione cartacea.

 

Quali sono le reali intenzioni di Carmelo Bene riguardo la destinazione di A Boccaperta? Egli stesso, come abbiamo letto, scarta l’idea che si tratti di una sceneggiatura tout-court: l’opera, per ammissione dello stesso autore, non è una mera ‘stampella’ propedeutica ad un lungometraggio, né esaurisce in ciò la sua funzione. Occorrerà ancora prendere atto di quanto affermato nella Vita (ibid.):

 

C’è una scena senza scritti e degli scritti senza scena. In teatro non ho mai adoperato un pre-scritto. Così anche nel cinema. Quanto scrivo, al contrario, non ha transfert scenico. A Boccaperta, che i più sensibili considerano la mia cosa più alta, anche se strutturato in forma di sceneggiatura, non ha mai avuto una versione cinematografica.

 

La sostanza letteraria di A Boccaperta è, ancora, confermata implicitamente da Bene (p. 232):

 

“Un evento letterario”, ha giudicato più d’uno studioso. Talmente compiuto che rimane a sé, ricchissimo esercizio e documentazione.

 

Da quanto esposto, emerge come Bene affermi e rivendichi per A Boccaperta il valore di opera autonoma, capace di far parte per sé, dotata cioè d’una sua indipendenza rispetto a un eventuale film a essa ispirato e, infine, portatrice di significati propri e peculiari. Carmelo Bene, insomma, non sconfessa né circoscrive il campo di letterarietà in cui va a collocarsi la ‘sceneggiatura’ in questione. Notiamo ancora come, sempre nella sua Vita (p. 230), egli fornisca al lettore una coordinata capace non già di catalogare il genere in cui A Boccaperta rientrerebbe, ma almeno di rischiarare una direzione verso cui il Nostro si muove: “A Boccaperta è il mio unico tentativo d’irruzione nel romanzo storico”. Siamo quindi dinanzi ad uno “scritto senza scena” che, “strutturato in forma di sceneggiatura”, è in realtà “qualcosa in più d’una sceneggiatura” e costituirebbe per l’autore un “tentativo” di confrontarsi (in modo brusco, violento, non convenzionale, se d’irruzione si parla) col genere “romanzo”, nella sua declinazione storica, precisa Bene. Con tutto ciò non intendiamo certo negare che egli avesse un’intenzione aurorale di esplorare poi nel medium cinematografico l’ispirazione già consegnata alla carta, come è accaduto per il suo primo romanzo, Nostra Signora dei Turchi (1966), il cui “soggetto” - scrive Giorgino - “è stato presentato al pubblico in tre diverse versioni: letteraria, cinematografica e teatrale, ognuna delle quali, nel suo genere specifico, meriterebbe di essere studiata autonomamente”[4]. La forma filmica avrebbe senz’altro permesso allo spettatore di apprezzare alcuni elementi importanti: primo fra tutti la colonna sonora, ma anche le tecniche di ripresa, di montaggio e di missaggio che, per Bene, sono sempre sede di una travagliata sperimentazione. D’altronde questo proposito pare confermato anche da Piergiorgio Giacché (intervistato da Di Giacomo), che ribadisce per altri versi la sostanziale compiutezza di A Boccaperta:

 

Quando [Bene] l’ha scritta forse voleva farne davvero un film, però col tempo s’è reso conto, e a ragione, che si trattava di una perla letterariamente e filosoficamente completa. Bastava a sé stessa e non aveva più bisogno del cinema. [5]

 

Inoltre, secondo Morreale, dopo aver letto quest’opera, riuscirebbe perfino difficile immaginarne un seguito nel cinema:

 

A Boccaperta […], che idealmente riallaccia il filo con il “Sud del Sud dei santi” di Nostra Signora dei Turchi […], [è la] prima e unica vera sceneggiatura di Bene (i film precedenti erano girati sul filo di opere preesistenti e\o canovacci di poche pagine), tanto da far nascere il sospetto che la sua destinazione reale sia più la pagina che lo schermo. Un film che è impossibile immaginarsi, scritto com’è in alta letteratura […].[6]

 

Tuttavia, tra le voci critiche vi è anche quella di Pisanò, che considera A Boccaperta un’opera “incompiuta”, dimidiata poiché “destinata all’immagine filmica”:

 

Il percorso beniano si interrompe a metà del guado. Del progetto resta lo scheletro, sufficiente, però, a farci intuire quale poteva essere la sua trascrizione sullo schermo, sicché… Nomina nuda tenemus! Manca il colore. […] dell’intenzione di Bene possiamo cogliere l’essenza invisibile, il punctum oriens, non la totalità. Eppure resta l’insieme in forma di testo letterario con la sua polisemia, le sue sequenze, i suoi campi semantici, le parole chiave. Un testo che potrebbe essere un racconto e che non è: in luogo della diegesi, del canone narrativo convenzionale, la vita del Santo è raccontata dalle disposizioni per la scena, per gli effetti da raggiungere nell’ordine della visione e del suono, fattori che molto aggiungerebbero alla sintesi mitopoetica.[7]

 

Concordiamo parzialmente con Pisanò: anche a noi pare innegabile il fatto che una versione cinematografica dell’opera avrebbe costituito un arricchimento di questo “evento letterario” (Vita, p. 232). Oppure avrebbe potuto addirittura costituire un’altra opera a sé stante, derivata dal medesimo soggetto (e meritevole a sua volta di analisi specifica), per restare alle parole di Giorgino, che aggiunge:

 

Carmelo Bene, infatti, indirizza la propria ricerca artistica come studio critico delle caratteristiche particolari e dei codici linguistici propri del medium praticato, e cioè il cinema viene ‘smontato’ attraverso una sistematica sperimentazione del linguaggio cinematografico, il teatro attraverso la sperimentazione teatrale, il romanzo e la poesia attraverso quella letteraria (p. 207).

 

Queste parole forniscono la chiave di volta per rischiarare la singolare scelta beniana di scrivere un romanzo usando la struttura della sceneggiatura (come noi mostreremo). Infatti, Bene è riottoso verso (citando Pisanò) il “canone narrativo convenzionale”[8] e, insofferente ad adeguarvisi, tende a ‘schernirlo’ continuamente. Nota ancora Giorgino:

 

Per le opere letterarie di Carmelo Bene non è possibile ricorrere alle tradizionali distinzioni di genere, dal momento che le caratteristiche delle sue pubblicazioni fanno pensare, piuttosto, ad una contaminazione di generi letterari differenti, al limite fra drammaturgia, saggio, romanzo, autobiografia e sceneggiatura (p. 23).

 

“Eccedendo le forme” nella creazione artistica[9], Carmelo Bene oltrepassa gli stilemi convenzionali della disciplina di cui volta a volta si occupa e ciò compie attraverso “una sistematica infrazione dei generi e dei codici tradizionali” (Giorgino, p. 23). Nella Vita Bene, in riferimento all’opera omnia edita nel 1995 da Bompiani, definisce il suo lavoro consegnato alla carta come “barbarico e cretino […]. A dispetto della letteratura maggioritaria e sottoscritta” (p. 207) e, qualche riga più avanti, aggiunge alcune considerazioni sull’editoria in generale, che risultano pregnanti per la comprensione di A Boccaperta:

 

Non esistono d’altra parte nell’editoria planetaria edizioni destinate al barbarico e al neoclassico, né tantomeno ‘sezioni’ de-generi (destabilizzazione del genere) dedicate alla di-scrittura letteraria, all’equivoco del corpo tipografico e soprattutto all’opera senza autore  (ibid.).

 

Qui interessa notare la “destabilizzazione del genere” cui Bene accenna. Da quanto finora emerso, infatti, si potrebbe considerare A Boccaperta non come semplice sceneggiatura per un film abortito, ma come opera ‘degenerata’, rigorosamente in linea con la robusta riflessione filosofica ed estetica che sempre soggiace all’arte di Bene; per questo, essa figurerebbe a pieno titolo nel défilé letterario di Opere[10], volume che egli nella Vita (p. 207) definisce “anti-umanesimo affrancato anche dalla squallida connivenza col teatrino totale dell’espressione artistica – catastale dei generi”.

Dopo Nostra Signora dei Turchi (Milano, Sugar, 1966) e Credito Italiano V.E.R.D.I. (Milano, Sugar, 1967), Bene scrive A Boccaperta: un’ulteriore prova di ‘smontaggio’ sperimentale del romanzo, forse perseguita dapprima a livello inconscio (se si ponesse come originario il proposito, poi deflesso, di destinare l’opera al cinema), ma che - col tempo - tale si rivelerà all’autore e come tale sarà consegnata ai lettori. Occorrerà ancora prendere atto di quale sia la singolare aspirazione di Bene, puntualmente inquadrata da Giorgino (p. 39):

 

La letteratura ‘barbarica’ di Bene da una parte devasta le consuetudini dell’impegno neorealista, a suo avviso troppo impensierito da problematiche politiche e sociali, perché “trattare della società del consumo […] è un compito da vigile urbano che non mi interessa”; dall’altra consente di prendere le distanze dalle Avanguardie, o perlomeno dalle sperimentazioni linguistiche cervellotiche e fini a se stesse; la letteratura barbarica, soprattutto, è per l’autore la “fine di ogni forma possibile”; è il modo per farla finita, paradossalmente, proprio con la letteratura e con l’arte, perché “ogni storia d’arte trasuda rappresentazione [nostro il corsivo], ovvero ossessa secrezione dell’Io desiderante. Eccettuate quelle che si pongano nella ‘differenza’. Altrove. Che non si esauriscano nell’espressione documentaria-descrittiva-decorativa impressa su qualsivoglia superficie (tela, carta, pellicola, ecc.)”.

 

Preliminarmente, per non cadere in un equivoco, è opportuno ricordare che Bene è certo conscio del fatto che “la pagina scritta è comunque mera rappresentazione” (Vita, p. 209) e che non è dato superare la soglia del simbolico[11] per mezzo della scrittura. Fermo restando ciò, egli si abbandona al paradosso: come poter rappresentare senza rappresentare? In quale modo portare al collasso il racconto? Per quale via tentare un’effrazione nel congegno del romanzo? Insomma come, sulla pagina, provarsi nel merito che egli attribuisce a James Joyce: “raccontare senza raccontare”? Quest’ultima è una citazione di Carmelo Bene, tratta da una video-intervista ad Antonio Debenedetti dal titolo suggestivo, L’Ulisse di Joyce mi ha cambiato la vita[12]: ciò può rendere la misura dell’importanza dell’autore irlandese nel pensiero dell’artista salentino. James Joyce figura, infatti, nel novero dei suoi scrittori prediletti[13] e in diverse occasioni Bene afferma di considerare l’Ulisse il miglior film mai realizzato. In un’altra intervista, Goffredo Fofi gli chiede se vi sia stato, “negli ultimi tempi”, un film che gli abbia “dato l’idea di qualcosa di importante” ed egli ha occasione di rispondere:

 

Nessuno, in assoluto nessuno, in nessun caso. Nemmeno per un minuto. Senti sempre altre cose: la letteratura, la fotografia… Nessuna autonomia. Il più bel film? L’Ulisse di Joyce, non ci sono santi. Come film[14].

 

Nella sua Vita (p. 309), Bene propone una “conclusione sul cinema tout court”, offrendo poi come contraltare i nomi di due scrittori, Henry James e, ancora, James Joyce:

 

[il cinema] questa ipervirtualità filmata del già trascorso non è mai (mai stato) un non-discorso in fieri, ma espressione-informazione scontatissima. Bene e male un rendiconto mnemonico del fatto, estorto sempre alla letteratura abortita. Qualche esempio? Eccovelo: Giro di vite (Henry James) è, pur se letterato raccontino, l’unico, insuperato film horror. In questa “esercitazione”-capolavoro il lettore vede, solare, il minimo dettaglio, pur senza mai vederlo. È senza fiato. È, appunto, sensazione purissima. Visione cieca. E l’Ulysses joyciano non è, forse, sulla pagina, la più immediata “pellicola” mai realizzata, via via “filmantesi” […]? È pensiero immediato. Ebbene, questo sì che è cinema, conferma della dolente chiosa sul de-genere: non si può fare cinema col cinema!

 

Ora interessa prendere in esame l’Ulisse[15] e, più esattamente, un determinato capitolo di questo testo.

Abbiamo proposto di inquadrare A Boccaperta dalla prospettiva della degenerazione del genere, in quanto sceneggiatura che, citando le parole di Giorgino, “nell’impianto è molto più simile a un romanzo sperimentale” (p. 37). La struttura generale, composta da scene, evocate per mezzo di didascalie che estrinsecano l’azione dei personaggi, alle quali si alternano le (poche) battute presenti, collocherebbe A Boccaperta nel genere drammatico, declinato secondo il sottogenere cinematografico (una sceneggiatura scritta per il cinema). Tuttavia, da questo complesso indiziario si può notare un’analogia con il capitolo XV dell’Ulisse: Circe, il bordello[16]. Tale capitolo presenta la medesima struttura drammatica e perciò, ci pare, una certa somiglianza con A Boccaperta. Di Circe, infatti, De Angelis scrive (nella Guida alla lettura dell’Ulisse, p. 210) che “l’esposizione è in forma dialogata con didascalie a volte molto minuziose”. Lo stesso Joyce (nello “schema Linati”, riportato a p. 38 della Guida) descrive il capitolo nei seguenti termini:

 

Scena e azione: Bloom segue Stephen ubriaco nel bordello di Bella Cohen e lo aiuta quando viene aggredito da due soldati.

Tecnica: allucinazione, “visione animata fino allo scoppio” (forma drammatica).

Scienza o arte: magia, danza.

 

Leggiamo l’apertura di Circe (pp. 416-417), in cui fa la sua comparsa un ‘idiota’ (come tra l’altro viene definito innumerevoli volte Giuseppe Desa, il protagonista di A Boccaperta):

 

(L’ingresso del quartiere dei bordelli di Mabbot Street, davanti al quale si stende un binario morto disselciato con scheletri di rotaie, fuochi fatui rossi e verdi e segnali luminosi. File di case sporche con porte spalancate. Rare luci dai deboli schermi iridati. Attorno alla gondola del gelataio Rabaiotti uomini e donne rattrappiti leticano. Stringono in mano cialde tra le quali sono inseriti blocchi di neve color carbone e rame. Succhiando, si disperdono lentamente. Bambini. La cresta a collo di cigno della gondola, eretta, si spinge avanti nella penombra, bianca e azzurra sotto un faro. Fischi chiamano e rispondono).

I RICHIAMI  Aspetta, amor mio, e sarò da te.

LE RISPOSTE  Laggiù dietro la stalla.

(Un idiota sordomuto con gli occhi sporgenti, la bocca senza forma sbavante, passa muovendosi a scatti, nella stretta del ballo di San Vito. Una catena di mani infantili lo imprigiona).

I BAMBINI  Mancino, fa’ il saluto!

L’IDIOTA  (Alza il braccio sinistro e barbuglia). Grhahuto!

 

Per avere un termine di paragone, poniamo subito a confronto un passo di A Boccaperta in cui Giuseppe cerca un po’ di quiete, che gli è negata dalle beffe di alcuni bambini e di un vecchio lebbroso:

 

Copertino… Interni-esterni.

In questa attesa assolata, rotto a strappi dalle decisioni disperate appena accennate, Giuseppe se ne sta sdraiato nel sole. “Idiota”, la bocca sempre aperta e gli occhi fissi nel cielo vuoto, sotto un altissimo muro bianco… Dal terrazzo sovrastante, alcuni monelli gli giocano certi scherzi… Giuseppe non riesce a neutralizzarsi nella pace cui sembra vocato… Uno sputo di quegli scugnizzi gli finisce in un occhio. Ridestato, Giuseppe cerca invano di cambiare di posto. Cerca di non imbattersi in nessuno… Un povero vecchio, lebbroso all’apparenza, che se ne sta accucciato in attesa di morire, allunga il piede vecchio e rattrappito e sgambetta Giuseppe al suo passaggio… Giuseppe, ruzzolato, si rialza, urtando un finto religioso, in fuga scomposta, che gli fa una smorfiaccia scimmiottandolo, e si eclissa (p. 458).

 

Dal confronto dei due luoghi emerge una differenza (che resterebbe costante se estendessimo il confronto ad altri passi) e cioè la preponderanza nel testo joyceano di battute pronunciate da personaggi, che nell’opera di Bene sono invece fortemente minoritarie. Tuttavia, la narrazione si sviluppa in entrambi i casi grazie allo strumento della didascalia. Diamo ancora un esempio. In A Boccaperta Giuseppe, bambino, è costretto a giacere a letto a causa di due piaghe sul deretano. Tutti lo credono sul punto di morire. La camera “pullula di vicinato”, di anziani sdentati i quali, rompendo ciotole e tegami (come Giuseppe aveva involontariamente fatto nella scena precedente), sperano di rallegrargli l’agonia. L’attenzione del narratore si concentra su due astanti, un religioso e il suo mulo:

 

Casa di Giuseppe. Interno-esterno.

(Stessa scena).

Rileviamo un particolare di questo affresco manicomiale:

Un vecchio religioso, il curato, forse, dal muso volpino, se ne sta nel bel mezzo di tutta questa babele artificiosa, seduto su uno scanno a un tavolaccio imbandito, come fosse all’osteria (indubbiamente è venuto di lontano o è lì da tanti giorni, e adesso ha fame). Mangia di buon appetito, sospirando di tanto in tanto, e soprattutto bevendo molto vino, nell’attesa che il piccolo Giuseppe entri in coma, per somministrargli l’estrema unzione. Nell’attesa, si ristora. Sempre nella stessa stanza, accanto a lui, se ne sta cheto il suo mulo. E perché no? Tanto la stanza-cortile sembra una stalla. Di tanto in tanto, anche l’animale fruga nei piatti del suo padrone (p. 445).

 

Anche nel capitolo ulissiano Circe è presente una descrizione miniata, affidata a una didascalia (p. 425). Il protagonista Leopold Bloom incontra per strada la moglie infedele, Molly Marion. Bloom è piuttosto scosso ed è visitato da miraggi e visioni (tra le quali un cammello al servizio della moglie) che rendono surreale la scena:

 

BLOOM  Molly!

MARION  Be’? D’ora in poi tanto di Mrs Marion, caro mio, quando mi rivolgi la parola. (Satiricamente) Ha i piedi ghiacci il mio maritino a forza di aspettare?

BLOOM  (Saltella su un piede e poi sull’altro). No, no. Neanche un pochino.

(Respira con profonda agitazione, deglutendo grosse sorsate d’aria, domande, speranze, zampetti di porco per la cena di lei, cose da dirle, scuse, desiderio, magato. Una moneta le riluce in fronte. Ha le dita dei piedi ingioiellate d’anelli. Le caviglie sono unite da una catenella. Accanto a lei un cammello, incappucciato con un turbante torreggiante, attende. Una scala di seta dagli innumerevoli scalini sale al suo ondeggiante baldacchino. Le ambia intorno col posteriore corrucciato. Rabbiosamente essa lo percuote su un’anca e i suoi braccialetti frendorati stizzinnano, rimbrottandolo in lingua moresca.

 

Le due tecniche sembrano collimare, eppure la questione non sarebbe ancora del tutto chiarita, l’analogia potendo essere casuale. Questa struttura drammatica nell’Ulisse è presente in un ‘momento’ ben delimitato, cioè soltanto nel capitolo Circe, capitolo di un testo che, sperimentale quanto si voglia, in toto è narrativo, come lo stesso autore afferma. A tal proposito Giorgio Melchiori, nella Guida alla lettura dell’Ulisse (p. 19), ricorda come “a smentire le affermazioni di Eliot sul carattere di antiromanzo o non-romanzo dell’Ulisse stanno le ripetute e costanti definizioni di Joyce che chiama il suo libro novel”, ovvero ‘racconto, romanzo’ (e qui si ricordi che Bene, pur se un’unica volta nella Vita, p. 230, ha parlato di A Boccaperta come di romanzo storico). In Circe, però, è presente un segnale che, dall’interno, trasformerebbe il capitolo da drammatico in narrativo. Le didascalie, che paiono così oggettive per il loro carattere di descrizione, costituiscono delle narrazioni originate “dal continuo interpenetrarsi e susseguirsi di un’azione reale (Bloom, Lynch e Stephen nel bordello di Bella Cohen) e di una serie di fantasticherie in cui Bloom e Stephen a turno […]” cadono (come spiega De Angelis nella Guida, p. 210). Qual è la funzione qui attribuita alla didascalia? Ricordiamo brevemente l’estetica di Joyce, per cui i personaggi non agiscono secondo la mente dello scrittore, ma agiscono ‘autonomamente’; allora, le didascalie non sono più le indicazioni fornite dall’autore su come i personaggi debbano muoversi, ma sono la trasposizione esatta di quanto l’autore ‘vede’ che i personaggi stanno compiendo. Proprio come se lo sceneggiatore di un dramma con le sue didascalie, invece di predisporre gli attori all’azione, si limitasse a raccontare che cosa essi già compiono e dicono sulla scena. In tal senso, il capitolo XV si rivela solo apparentemente drammatico: non solo perché inserito in un novel, ma addirittura perché, per la poetica di Joyce, esso diventa il racconto di ciò che il narratore osserva e registra immediatamente sulla pagina. La prospettiva, quindi, si capovolge e l’autore, da deus ex machina, diventa un narratore ‘periferico’, una sorta di spettatore dei personaggi, dei quali registra quasi ‘per procura’ eventi e pensieri. Un procedimento simile sembra determinare la scrittura del primo romanzo di Bene, che afferma nella Vita di scrivere, sorvegliato da “una sorta d’angelo custode, ebete, idiotizzato quanto vuoi, ma intransigente nella sua qualità di controllore” (p. 221). Inoltre, sempre nella Vita (p. 223), egli ci informa:

 

Non v’è in Nostra Signora scrittore-autore, ma nemmeno scrivente dilettante. Quanto emerge espropria l’autore dall’operina. È lo scrivente in terzo grado. Scrivente in quanto scritto, io scritto e non sottoscritto […]. Condannato a scrivere (vivere) sotto dettatura, ascolto scritto, perciò mormoro quando scrivo a mano. […] Tutte le mie operine letterarie sono il libro d’uno scrivente (non nel senso del dilettante).

 

Pertanto Giorgino (p. 177) ha modo d’affermare che “questo alter ego dispettoso non solo gioca a mettere in scacco lo scrittore, cioè colui che ‘si spaccia’ come l’autore dell’opera in questione, ma addirittura gli suggerisce, dettandoglielo, il testo da scrivere, guarda divertito le righe d’inchiostro che si moltiplicano sulla carta e al tempo stesso irride lo scrittore curvo su quei fogli, ora degradato a semplice scrivente, anzi a scrivano”.

Ritornando al nostro confronto strutturale, occorre notare come in una didascalia di Circe emerga per un attimo una voce che non è dei personaggi, ma dello stesso narratore. Si tratta in verità di due sole occorrenze a brevissima distanza tra loro, comunque utili per capire quanto accade in A Boccaperta (in cui la voce del narratore emerge in diverse occasioni, come vedremo). Leggiamo:

 

([…] Dall’altro lato sotto il ponte ferroviario appare Bloom, rosso in viso, ansimante, ficcandosi pane e cioccolata in una tasca. Dalla vetrina di parrucchiere di Gillen un ritratto composito gli mostra l’immagine del prode Nelson. Uno specchio concavo a lato gli presenta il derelitto d’amore ormai perduto lugubre Booloohoom. Il grave Gladstone lo guarda dritto negli occhi, Bloom per Bloom. Egli passa, colpito dallo sguardo del truculento Wellington, ma nello specchio convesso sogghignano incolpiti gli occhi bonari e le gote a braciola rotondette di Poldacciuolo pollo tristanzuolo [nostro il corsivo]. Alla porta di Antonio Rabaiotti Bloom si ferma, sudato sotto la splendente lampada ad arco. Sparisce. Dopo un momento riappare e avanza in fretta). (p. 420).

 

“Poldacciuolo pollo tristanzuolo” sarebbe lo stesso Leopold Bloom: a parlare è qui il narratore che registra il personaggio con questo strano epiteto, caricaturandolo con un gioco di parole che compare all’improvviso nel fluire della diegesi. Continuiamo nella lettura per mostrare la seconda occorrenza. Bloom si è affaticato nel tentativo di seguire Stephen (che lo ha di molto distanziato) e decide di fermarsi presso una macelleria, dove compra uno zampetto di porco e uno di pecora, per poi uscire:

 

BLOOM  Pesci e patatine. Niente buono. Ah!

(Sparisce da Olhausen, il norcino, sotto la saracinesca calante. Pochi istanti dopo emerge da sotto la saracinesca Poldino sbuffante, Bloohoom soffiante [nostro il corsivo]. […]). (Ibid.).

 

Anche in questo luogo il narratore pare quasi prendersi gioco del personaggio, chiamandolo “Poldino” e rendendo, tramite un gioco di significanti, il fatto che egli sia ancora affaticato dalla corsa (in ciò possiamo tra l’altro apprezzare come nell’Ulisse “domina costantemente l’elemento linguistico, fonico più ancora che semantico”, come ricorda Melchiori a p. 55 della suddetta Guida). Riconosciamo qui due casi ben camuffati di intrusione dell’autore (metalessi). Le intrusioni di un narratore eterodiegetico nel racconto non sono sempre facilmente riconoscibili. Anche soltanto con un solo aggettivo il narratore può esprimere una propria valutazione nei confronti di un personaggio. A volte nelle narrazioni trasparenti (quelle in cui il narratore tende a rendersi invisibile, dando alla storia un’illusione di realtà) si possono individuare minimi segnali di intrusione del narratore, che costituiscono delle vere e proprie infrazioni rispetto al ‘canone dell’impersonalità’.

I fenomeni di metalessi sono abbondantemente presenti in A Boccaperta, opera in cui il narratore eterodiegetico non esita a prendere la parola, determinando così una narrazione opaca (con ciò si intende che l’atto della narrazione non è reso invisibile dallo scrittore, ma è mostrato con chiarezza). Peraltro, egli propone considerazioni e istituisce similitudini, la cui ragion d’essere riposa esclusivamente nella pagina, perché - come si potrà constatare - esse resterebbero intraducibili in un film. Un primo esempio nella didascalia che ritrae la tavola da pranzo apparecchiata da Franceschina:

 

C’è una tavola rustica e due scanni, apparecchiata poveramente, ma con un ordine davvero eccessivo. Una dignità folle (p. 438).

 

L’ultima proposizione costituisce una osservazione del narratore, che prende poi in prima persona la parola, dopo che Giuseppe, riluttante ad accomodarsi per via del suo deretano piagato, è costretto sulla sedia dalla madre. Il narratore onnisciente commenta la scena:

 

È chiaro anche che a Giuseppe fa male star seduto. Ma sua madre non intende ragioni e, rudemente, secca, pressandolo sulle spalle, lo schiaccia a sedere sullo scanno. È una frittata, questa, che lei, povera donna, non può capire (dico davvero)… (Ibid.).

 

Ancora un’intrusione è facilmente individuabile nella scena della convalescenza di Giuseppe, il quale si sporge (non senza dolore) da una finestra molto stretta e di forma quadrata, che fa risaltare la rotondità della sua testa:

 

Giuseppe ha male, ha male veramente. Ha male al male. Ma dentro il cerchio della sua testa ormai si è spalancato quell’altro cerchio aperto della sua bocca, che non premia con l’estasi o il sogno il suo eroe ancora… (chi mai decide quando è presto o tardi, storicamente?!)… (p. 456).

 

Fra parentesi il narratore pone un interrogativo di natura tale, che in un testo genuinamente drammatico (quale dovrebbe essere una semplice sceneggiatura), non avrebbe ragion d’essere. Diamone ancora un esempio:

 

Pianura otrantina. Tramonto. Notte-alba. Esterno.

Giuseppe, travestito da novizio, si precipita, ebete, verso la sua vocazione… Procede via via più affrettandosi (si lascia camminare) a testa alta, contemplando il cielo e in cielo accendersi le prime stelle… (come santa Teresa bambina: “ne voulant rien voir de la vilaine terre!”)… (p. 460).

 

Nuovamente tra parentesi, il narratore propone una similitudine che, tra l’altro, si direbbe di difficile resa su uno schermo.

Inoltre, l’opacità della narrazione è favorita dalle intrusioni in cui il narratore commenta l’agire dei personaggi, oppure si ritrae nell’atto di scrivere o, ancora, rende manifesto il suo ruolo di ‘regista’ degli avvenimenti, attraverso interventi metanarrativi nei quali propone considerazioni sulla narrazione e sulla gestione della stessa. È quanto accade in A Boccaperta. Un vistoso esempio è nella scena in cui il santo Giuseppe, che si trova nella sua celletta in compagnia di fra’ Ludovico, riceve la visita di un lebbroso, di un cieco e di uno storpio, i quali attendono che un miracolo del protagonista li guarisca. Il narratore si ritrae nell’atto di contemplarli:

 

E qui nessuno si vede visto. Mentre anch’io me li godo uno ad uno [nostro il corsivo], c’è tempo quanto basta a che l’impensabile si verifichi: […]. (P. 511).

 

Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Tuttavia, da quanto è stato esposto nel complesso, è possibile trarre alcune conclusioni. La didascalia in A Boccaperta è lungi dall’essere oggettiva, non è un mero strumento impersonale con cui veicolare delle indicazioni, relative alla recitazione degli attori e alla scenografia. Alla didascalia sono affidate sia le scene che il Narratore espone, sia le sue riflessioni estemporanee, che puntellano l’intera estensione del testo. Le occorrenze citate andrebbero ad avallare l’ipotesi, secondo cui Carmelo Bene non abbia scritto una sceneggiatura per un’opera cinematografica, ma abbia raccontato quest’opera nel suo farsi, nel suo apparire “via via filmantesi” (Vita, p. 309). Non un semplice ‘canovaccio’ propedeutico ad una mimesi, A Boccaperta presenta, tuttavia, la struttura drammatica della sceneggiatura, scelta dall’autore per la creazione di un testo, che si presenta come un’allucinata dissezione della forma romanzo e in cui, ricordando le già citate parole di Bene dedicate a H. James e J. Joyce, “il lettore vede, solare, il minimo dettaglio, pur senza mai vederlo. È senza fiato. È, appunto, sensazione purissima. Visione cieca”. Perseguendo la destabilizzazione del genere, Carmelo Bene - sull’onda di Joyce - propone un testo narrativo in forma drammatica (o assimila un testo drammatico in una narrazione), consegnando un’opera degenerata attraverso una commistione che sfrutti ed eluda nel contempo convenzioni letterarie differenti.

 

Intervistato da Antonio Debenedetti nel 1988, Carmelo Bene parla del suo rapporto con l'Ulisse di James Joyce: 

 

http://www.letteratura.rai.it/articoli/carmelo-bene-lulisse-di-joyce-mi-ha-cambiato-la-vita/2245/default.aspx

 

[1] C. BENE, G. DOTTO, Vita di Carmelo Bene, Milano, Bompiani, 1998, p. 230.

[2] C. BENE, A Boccaperta, Torino, Einaudi, 1976. (Contiene: Giuseppe Desa da Copertino. A Boccaperta; S.A.D.E. ovvero libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina. Spettacolo in due aberrazioni; Ritratto di signora del cavalier Masoch per intercessione della beata Maria Goretti. Spettacolo in due incubi). D’ora in avanti, col titolo A Boccaperta ci riferiremo alla sola opera specificamente dedicata a San Giuseppe da Copertino e le indicazioni dei numeri di pagina saranno da riferirsi a Giuseppe Desa da Copertino. A Boccaperta, in ID., Opere. Con l’Autografia d’un ritratto, Milano, Bompiani, 1995, pp. 421-534.

[3] ID., Sono apparso alla Madonna. Vie d’(H)eros(es), in ID., Opere. Con l’Autografia d’un ritratto, cit., p. 1132.

[4]  S. GIORGINO, L’ultimo trovatore. Le opere letterarie di Carmelo Bene, Lecce, Edizioni Milella, 2014, p. 207.

[5] A. DI GIACOMO, Le odi di Bene per San Giuseppe: ‘ha fatto volare il sud del Sud’, in “La Repubblica”, 6 settembre 2003.

[6] E. MORREALE, Prefazione, in AA.VV., Contro il cinema, a cura di E. Morreale, Roma, Edizioni Minimum Fax, 2011, cit., p. 17.

[7] G. PISANÒ, S. Giuseppe da Copertino nella letteratura del Novecento (I. Silone, V. Bodini, C. Bene, A. Prete), «Studi salentini», anno 49, LXXXI, 2004, pp. 148-184. La citazione è tratta dalle pp. 175-176.

[8] G. PISANO’, S. Giuseppe da Copertino nella letteratura del Novecento, cit., p. 176. Tuttavia crediamo che il fatto che A Boccaperta ‘ecceda’ questo canone non sia sufficiente per asserire l’assenza di diegesi nell’opera (ne noteremo la presenza più avanti). Inoltre, a nostro modesto avviso la definizione di Pisanò, per cui A Boccaperta è “un testo che potrebbe essere un racconto e che non è” (ibid.), con la quale il critico intenderebbe osservare una mancanza rispetto alla compiutezza dell’opera, corrisponde in realtà all’inclassificabile degenerazione in cui Bene, scrivendo, ha voluto coscientemente situare A Boccaperta.

[9] C. BENE, Quattro momenti su tutto il nulla, Nostra Signora s.r.l. – RAI Trade, 2001.

[10] A giustificare la nostra affermazione concorre lo stesso Carmelo Bene. In un’intervista rilasciata in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria di Otranto, nel 1995, egli ha dichiarato a proposito di A Boccaperta: “Si tratta della sceneggiatura per un film centrato appunto su San Giuseppe da Copertino. Un vero e proprio affresco del Seicento. Fattela prestare. E comunque è compresa, ovviamente, nella mia opera omnia pubblicata da Bompiani. […] In ogni caso, la sceneggiatura in questione è tale solo per definizione: in realtà, è vera e propria letteratura. Ma davvero non la conosci? Devi assolutamente leggerla”. Cfr. E. FIORE, E San Carmelo volò in Convento, in “Il Mattino”, 2 ottobre 1995, ora in AA.VV., Panta. Carmelo Bene, a cura di L. Buoncristiano, Anno 2012, Numero 30, Milano, Bompiani, 2012, p. 351.

[11] Lo psicoanalista francese Jacques Lacan individua tre registri, che corrispondono ad altrettanti stadi nella strutturazione psichica del soggetto: immaginario, simbolico, reale. Il simbolico è pervaso e dominato dall’Altro, ovverosia il bagno preesistente del linguaggio (e della cultura nel senso più largo), in cui l’individuo singolo nasce. Cfr. A. DI CIACCIA, M. RECALCATI, Jacques Lacan, Milano, Mondadori, 2000, p. 39. Nell’intervista di U. VOLLI, I vescovi entusiasti di Carmelo, in “La Repubblica”, giugno 1994, ora in AA.VV., Panta. Carmelo Bene, cit., p. 332, Carmelo Bene dichiara d’essere “un artista che non ne può più del linguaggio dell’arte (il simbolico) […]”.

[12] C. BENE, L’Ulisse di Joyce mi ha cambiato la vita, Rai Letteratura, disponibile presso il seguente link: http://www.letteratura.rai.it/articoli/carmelo-bene-lulisse-di-joyce-mi-ha-cambiato-la-vita/2245/default.aspx.

[13] S. Giorgino ci informa del fatto che nella vasta biblioteca posseduta da Bene “di Joyce sono presenti, per esempio, oltre che le Poesie, le Lettere e Gente di Dublino, anche ben tre edizioni differenti dell’Ulisse tradotte da De Angelis (alcune delle quali annotatissime) e uno studio di Patricia Hutchins dal titolo Il mondo di James Joyce (Lerici, 1960) […]”. Cfr. S. GIORGINO, La biblioteca “impossibile” di Carmelo Bene, cit., p. 588.

[14] G. FOFI, E adesso vi getterò nel panico, in “Sette”, supplemento del “Corriere della Sera”, febbraio 1995, ora in AA.VV., Panta. Carmelo Bene, cit., p. 161.

[15] J. JOYCE, Ulisse, con Guida alla lettura, a cura di G. Melchiori e G. De Angelis, Milano, Mondadori, 2000.

[16] In J. JOYCE, Ulisse, cit., questo capitolo si estende da pagina 416 a pagina 567. Inoltre, è il caso di ricordare che i titoli con i quali Joyce indica le sezioni e gli episodi dell’Ulisse emergono solo dalla sua corrispondenza privata: egli preferì che non comparissero mai nelle varie edizioni della sua opera. Nelle edizioni recenti essi vengono indicati per comodità del lettore (cfr. la nota del curatore in J. JOYCE, Ulisse, cit., p. 744).

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