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Martedì, 20 Febbraio 2018 17:21

Una radiolina fuori frequenza. Su «Parigi è un desiderio» di Andrea Inglese

Scritto da Fabio Moliterni

Venerdì 23 Febbraio 2018, presso Mondadori Bookstore di Lecce, Andrea Inglese presenterà Un'Autoantologia, Poesie e Prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017) e Parigi è un desiderio (Ponte alle Grazie, 2016), suo primo romanzo uscito nel 2016. In occasione dell'evento, pubblichiamo la recensione di Fabio Moliterni a Parigi è un desiderio, già apparsa sulla rivista «l'immaginazione» (n. 299, maggio-giugno 2017, pp. 55-56).

 

«Al posto del racconto abbiamo una sterminata (…) conversazione, o forse il frammentato e diseguale giustapporsi di (…) monologhi»: la frase è di Manganelli, stupito o stupefatto di fronte alla forma centrifuga e sconnessa di certi romanzi anglosassoni di fine Settecento (è facile pensare alla Vita e opinioni di Tristram Shandy di Laurence Sterne). E potrebbe servire come epigrafe a un discorso sulla natura antifrastica e paradossale della scrittura narrativa di Inglese, il quale oggi si cimenta con la forma-romanzo (Parigi è un desiderio, Ponte alle Grazie, Milano 2016), con tanto di tag in copertina, abbandonando (apparentemente) l’orizzonte delle scritture di ricerca, tra prosimetri e prose in prosa, che nel corso del tempo avevano affiancato la sua scrittura in versi (dopo La distrazione, uscito per Sossella nel 2008, si devono ricordare le prose raccolte nel volume collettivo del 2009 Prosa in prosa, con Giovenale Zaffarano Broggi e altri, a cui sono seguite altre esperienze che in parte sono riassorbite in questa specie di romanzo, come Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, La grande anitra del 2013 e soprattutto Commiato da Andromeda, 2011). Ma appunto di quelle prose atipiche perché non liriche né narrative, Inglese mantiene e trasferisce nelle strutture codificate del romanzo (memoir, autofiction o autobiografia) la stessa attitudine sperimentale e anti-normativa, trasgredendo e torcendo il collo agli imperativi (di mercato) oggi più che mai efficienti nel campo letterario e del consumo culturale, come la necessità rassicurante della trama leggibile a tutti i costi, il racconto lineare di fatti accaduti, il feticcio dello storytelling.

Troviamo non a caso la chiave di questa operazione estetica fuori asse e controtempo in uno dei frequenti momenti (excursus o digressioni) nei quali si spezza o si interrompe provvisoriamente la 'trama' per così dire ordinata della Bildung erotica ed esistenziale – tra l’adolescenza punk in una periferica Milano, la dromomania parigina fino all’epilogo della (sempre inquieta) maturità – scritta in prima persona dal protagonista di Parigi è un desiderio, un soggetto inetto ma vitale e vivente, anti-eroe e «smemorato», «deficiente di memoria» («io non sono comunque niente», p. 295); e viene alla luce la postura confessionale, sdoppiata e strabica, ironicamente meta-letteraria della voce narrante: «ho finito per scrivere qualsiasi cosa nei miei quaderni, ma da rapsodo, radiolina fuori frequenza (…) perché io (…) scrivo a sprazzi, per scalmane, copiando e riassumendo, interpolando e deformando, come se dovessi far convergere in una data frase (…) tutta la mia circoscrizione umana più vasta, il dentro e il fuori, l’osso e l’anima, la paranoia privata e l’allucinazione di massa, la scarpa slacciata e la metafisica dei costumi» (p. 249).

Non sono sufficienti né politicamente funzionali, insomma, i vincoli o i dettami imposti dal senso comune estetico e dalle leggi del mercato romanzesco, se qui alla trama stitica e alle costruzioni centripete della Bildung tradizionale e del plot sempre-uguale (viaggio/ritorno, avventura/scioglimento dell’azione/lieto fine) si sostituiscono le microstrutture ipotattiche, centrifughe e magmatiche, la gestione discontinua di un racconto onnivoro dal ritmo sincopato per accumulo, 'idiosincratico' e imprevedibile. E se al dominio spendibile in termini commerciali e alla stanziale 'purezza' del genere si risponde – per dare conto delle indecidibili relazioni o dei conflitti tra io e mondo, corpo e psiche, centro e margini, linguaggio e realtà – scompaginando e moltiplicando i piani narrativi, inglobando nella scrittura vari materiali spuri ed eterogenei che vanno fluttuando dagli appunti di diario alle scritture epistolari, dall’ekphrasis al commento fino agli pseudo-trattati in miniatura (sull’alcol e l’antropologia dei tossici, sulla vita condominiale e il sonnambulismo, eccetera) nei quali si dispiega la vena comico-umoristica di questo nuovo e inatteso seguace (franco-)italiano di Céline. (Il carotaggio demistificante della «socialità linguistica», p. 138, e delle «macchine semantiche»egemoni, p. 120, d’altra parte, occupa una porzione importante di queste digressioni saggistiche, collegandosi ai lavori di Balestrini o di Giorgio Vasta, Giovenale, Gherardo Bortolotti e Alessandro Broggi contro lo «sclerotico e automatico» conformismo ideologico della lingua media, «le espressioni convenzionali alla base comune del linguaggio parlato», sia esso amoroso, pubblico o politico).

In linea con il disegno complessivo che nutre l’attività letteraria di Inglese in tutte le sue possibili declinazioni, e come di rado avviene nelle esperienze di scrittura contemporanee, qui le ragioni della ricerca formale o della forma del contenuto si saldano senza ambiguità all’ideologia letteraria del suo autore, ossia alla sua idea di letteratura e a una visione conflittuale del mondo. Capace di segnare, rivitalizzare o riaprire una strada più o meno inedita e marginale nel romanzo italiano contemporaneo – penso a Volponi o a certa scrittura materialistica che spesso ricorre al grottesco e alla linea umoristica: un qualcosa che potremmo definire con l’autore «psico-geografia», autofiction o narrazione biopolitica dell’io e del mondo –, la scrittura di Inglese si presenta nella sua dimensione estetica e politica come vitalissima violazione delle norme codificate: proprio perché, nel raccontarci à la Auerbach la «vita di (una) person(a) come noi», incorpora e accoglie le tracce rimosse e non censite, i frammenti informi di qualcosa che sfugge e si oppone ai dispositivi disciplinari e immunitari del neoliberismo, all’anaffettività e all’omologazione, al «virus linguistico» (p. 245) del nostro presente. L’ordinario e l’infra-ordinario, le pulsioni oscure dell’individuo e le traiettorie non lineari della vita sociale, la specola magmatica del corpo e del desiderio erotico, ma anche le periferie e gli scarti esclusi dalle cartografie e dalle lingue ufficiali, dove si aggirano gli anonimi losers o gli spostati bianciardiani che insieme con la voce narrante perseguono ottusamente le strade laterali della «deriva», del rifiuto del lavoro e del profitto. Molto più pericolosi di quello che appaiono nello sconfessare le logiche dominanti del consumismo e del successo («se ne stanno fermi e non collaborano», p. 136), indicano nella vita comune o condivisa, sempre imprevedibile, e comunque nell’amor fati e nella fuoriuscita dall’io il modo per superare lo «stato di minorità» nel quale vaghiamo oggi, da lettori di romanzi e abitanti del pianeta, come fantasmi troppo spesso impotenti e rassegnati.

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