Stampa questa pagina
Giovedì, 04 Gennaio 2018 07:00

Il linguaggio mediterraneo di De André: Sinàn Capudàn Pascià e l’eterno confine tra Oriente e Occidente

Scritto da Andrea Martina

Stabilire delle fasi nella produzione di un artista è sempre un compito delicato. Nel caso di De André si potrebbe ricorrere a un criterio ‘geografico’: al periodo francese degli esordi, in cui il cantautore guardava con interesse alla forma-canzone (che di fatto non ha mai abbandonato) degli chansonnier Brassens e Brel, fa seguito quello americano, che parte dalla ‘traduzione’ dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e arriva alle influenze di Leonard Cohen e Bob Dylan, sviluppandosi per tutti gli anni Settanta. In quest’ultimo periodo avviene l’incontro con la PFM che, di fatto, sarà una sorta di detonatore per la carriera di De André, e questo grazie ad arrangiamenti che andranno a rivoluzionare parte del suo vecchio repertorio, mostrando le grandi potenzialità che può avere una canzone quando ricerca testuale e ricerca musicale riescono a incontrarsi.

La collaborazione con Franz Di Cioccio e soci, e un incontro fortuito con Mauro Pagani all’inizio degli anni ’80, aprirono le porte alla vera rivoluzione di Faber: Crêuza de Mä. In questo disco, che vedrà la luce nel 1984, si può individuare l’avvio della terza e ultima fase di De André, quella mediterranea, che, in un certo senso, rappresenta una sorta di approdo dove l’artista può trovare finalmente la propria dimensione. Quella di un cantante che, arrivato ormai all’apice del successo, indirizza la propria ricerca verso una musica appartenente a secoli dimenticati e a popoli che si affacciano sul mare, senza mai rinunciare alla sua naturale empatia verso le fasce più emarginate della società, passata e presente.

Proprio per questo, definire Crêuza de Mä un disco di world music o un disco cantato interamente in dialetto genovese sarebbe assai riduttivo. In primo luogo abbiamo il concept, filo conduttore di tutto l’album, ovvero il mar Mediterraneo, e già qui si trova una delle più grandi intuizioni di De André: fermare la propria attenzione su quel mare che ha segnato l’incontro tra antiche civiltà e che, negli anni Ottanta, era diventato un non-luogo in cui transitavano vacanzieri o, nel peggiore dei casi, barconi di profughi che scappavano da guerre e miseria. Uno scenario che, oggi, è addirittura peggiorato.

La collaborazione con Mauro Pagani, poi, è decisiva per la scelta degli strumenti, che avviene con un obiettivo preciso: smarcarsi dai sintetizzatori e dalle batterie digitali, che segnavano la musica pop di quel periodo, e riscoprire gli strumenti della tradizione mediterranea, al fine di unire idealmente le tre penisole (italiana, iberica e balcanica) con l’Africa e l’Asia minore.

E poi, ancora, i testi (e il modo in cui sono stati cantati). La parola chiave è ‘ricerca’: chi si aspettava un disco in dialetto genovese è rimasto un po’ deluso, dal momento che l’idioma scelto da De André era l’antico genovese della repubblica marinara, pieno zeppo di termini di influenza balcanica, catalana e turca a tal punto da renderlo una sorta di lingua franca di marinai, contaminata da diverse culture e tradizioni. La cantata, inoltre, è l’elemento più innovativo del disco, sia per le opportunità vocali che lo stesso De André scopre nel dialetto, sia per la facilità con cui la voce riesce a modularsi agli arrangiamenti, grazie soprattutto alla ricchezza di dittonghi e iati del genovese. Non a caso, per la prima volta in un album di De André, la voce assurge a strumento musicale vero e proprio.

Un altro elemento fondamentale di Crêuza de Mä è il tema dell’incontro: incontro tra marinari che vanno e che vengono, assaporando la sensazione del distacco e del ritorno (Crêuza de Mä, D'ä mê riva); incontro con il sogno durante la navigazione (Jamin-a); incontro con gli emarginati delle città portuali ('Â duménega, 'Â pittima); e incontro tra Occidente e Oriente che troppe volte si trasforma nel racconto di scontri presenti (Sidún) e passati (Sinàn Capudàn Pascià).

Quest’ultima canzone è fra le più interessanti dell’album. Il protagonista è Scipione Cicala, un genovese di ricca famiglia che fu catturato dai turchi nel XVI secolo e sottoposto a un dilemma cruciale: rinunciare al cristianesimo e convertirsi all'Islam, oppure morire. Questa scelta coincise con l’inizio di una nuova vita, che lo portò a cambiare nome in Hassan Çigala-zade e a passare, in breve tempo, da prigioniero a Sinàn Capudàn Pascià. La storia, raccontata in prima persona, ripercorre le scelte che hanno segnato la vita del protagonista, riassunte da un vecchio ritornello popolare:

 

“Intu mezu du mä gh'è'n pesciu tundu / che quandu u vedde ë brûtte u va 'nsciù fundu / intu mezu du mä gh'è 'n pesciu palla / che quandu u vedde ë belle u vegne a galla”

(“In mezzo al mare c’è un pesce tondo / che quando vede le brutte va sul fondo / in mezzo al mare c’è un pesce palla / che quando vede le belle viene a galla”).

 

Attraverso il racconto di questa vicenda, De André riesce a combinare diversi elementi tipici del suo mondo e fa emergere tutta la sua naturale inclinazione all’indulgenza. Cicala è il classico esempio dell'arrampicatore sociale, ma in un contesto delicato in cui si rischia di barattare la propria coerenza con la morte. Quello che a prima vista potrebbe sembrare opportunismo, in realtà non è altro che semplice istinto di sopravvivenza. In questa canzone, inoltre, c'è spazio anche per l'eterno conflitto tra cristianesimo e Islam, che nei secoli è stato motivo di sanguinose guerre lungo tutto il Mediterraneo e ancora oggi resta di estrema attualità. La conversione di Cicala, più che essere raccontata in chiave drammatica, ci viene presentata come un esempio di saggezza e scaltrezza popolare:

 

“E digghe a chi me ciamma rénegôu / che a tûtte ë ricchesse a l'argentu e l'öu / Sinán gh'a lasciòu de luxî au sü / giastemmandu Mumä au postu du Segnü”

(“E digli a chi mi chiama rinnegato / che a tutte le ricchezze all'argento e all'oro / Sinán ha concesso di luccicare al sole / bestemmiando Maometto al posto del Signore”).

 

La scelta di abbracciare il dialetto, per De André, era dettata da una duplice motivazione: innanzitutto era evidente la maggiore musicalità rispetto alla lingua italiana, resa possibile grazie alla gran quantità di parole tronche che si sposano bene con la metrica della canzone. Il dialetto, inoltre, non rappresentava solo un espediente ‘tecnico’, ma veniva anche arricchito di ‘significato’. Cantando in genovese era possibile avvicinarsi ancora di più al mondo che voleva raccontare, usando il linguaggio del popolo che era malvisto dalle istituzioni – le stesse istituzioni che De André ha sempre avuto nel mirino, in quanto detentrici di potere e sopraffazione – ed era bollato come volgare.

Sulla scorta di Pier Paolo Pasolini, che intravedeva il rischio di un'omologazione sociale dai contorni allarmanti, e che riguardava anche il linguaggio, il dialetto diventava, perciò, un baluardo da contrappore all'appiattimento della società, “la difesa di quel pluralismo culturale, che è la realtà di una cultura”.

Video

Articoli correlati (da tag)