Stampa questa pagina
Venerdì, 26 Agosto 2016 20:22

Il vero che è passato. Poesia e tempo in Franco Fortini

Scritto da Fabio Moliterni
Franco Fortini Franco Fortini

 “Per una critica futura. Quaderni di critica - Poesia italiana e-book”, a cura di A. Inglese, n. 4, 2007, pp. 59-69

 

Gershom Sholem parlava delle tesi Sul concetto di storia come di «un lascito in linguaggio cifrato, come forse soltanto un metafisico alla Edgar Allan Poe avrebbe saputo inventare». La sorgente più vitale della cifra messianica che attraversa i testi di Fortini si potrebbe cogliere, pensando a Benjamin, nell’interrogazione sul tempo che solca come un «segno urticante» la sua scrittura (lirica e saggistica). Vicina, come è stato ormai ampiamente attestato, alla filosofia della storia di stampo benjaminiano, l’idea di tempo in Fortini esemplifica il carattere dialettico e conflittuale, profetico e utopistico del suo disegno intellettuale (insieme, con le parole di Luperini, «teoria della dialettica» e «poetica della contraddizione»). In una sincronia verticale di voci e fonti che interseca esperienze care a Fortini come quelle di Benjamin, Bloch, Adorno, Brecht, si tratta in prima istanza della polemica contro la nozione di progresso, per la quale il presente si istituisce come tempo eterno, «omogeneo e vuoto», delusivo spazio dell’attesa; il processo storico si fonderebbe sulla sintesi armonica di rinnovamento e conservazione, lo svolgimento del divenire sulla cancellazione delle discontinuità: «Questa pretesa si chiama riformismo, ed è il sabotaggio della critica reale, è la negazione del movimento, è la forma del moderatismo politico» (A. Leone de Castris).
Il presupposto politico di tale riflessione – la confutazione dell’idea di storia come «continuum e perpetuum privo di salti qualitativi» – è esplicitato nel saggio Le mani di Radek (1963):

 

Per questo è urgente sbarazzarsi di tutta quella secolare parte di basso storicismo, fra esortatorio e produttivistico, di famosa ascendenza capitalistica, che è quasi da sempre il fondiglio delle sinistre europee e tuttora si rimescola nel linguaggio ufficiale sovietico. E farlo in nome della assoluta sincronicità tendenziale del mondo presente e passato e delle nostre esistenze in esso, sincronicità che deve essere conquistata e che comincia ad esistere intanto come rivendicazione della contemporaneità di tutti i viventi… (p. 98).



Proprio dall’esposizione «eretica» e non consolatoria, dalla messa in forma delle rovine del reale e delle scissioni soggettive («Di questo mondo sempre volevo la fine. / Ma la mia fine anche», Il comunismo) – a partire da uno sguardo leopardiano, materialista, gettato sull’apparente immobilità del presente – è possibile svelare, per Fortini, la struttura reale del tempo e della storia. La traccia da cui partire per tentare di afferrare la presenza e le rifrazioni di questo tema nelle sue scritture sembra risedere nei concetti di metamorfosi e di processo: «L’essenziale è questo mutamento» (Da Praga); «Tutto muta e tutto è ancora possibile» (Attraverso Pasolini, p. 248). Se il presente appare il tempo della privazione, deputato alla consunzione o allo spreco (già in Una volta per sempre, 1963: «I tempi sono maturati e vizzi», Fine della preistoria), esso rappresenta pure lo spazio del suo superamento, secondo un processo nel quale schegge, frammenti o echi del passato e del futuro intervengono per trascenderlo («Non ci sono più, dicono, perché tutto sarà veramente»):

 

Guardo le acque e le canne
di un braccio di fiume e il sole
dentro l’acqua.
Guardavo, ero ma sono.
La melma si asciuga fra le radici.
Il mio verbo è al presente.
Questo mondo residuo d’incendi
vuole esistere.
(Il presente)


Sarà dunque un tempo «misto», palinsesto complesso e reversibile nel quale il passato reclama la sua contemporaneità (la sua immanenza) con un futuro che lo contiene, che a sua volta si collega al presente proprio nel punto in cui il passato mostra i suoi momenti ancora vitali e «inestinti», per inverarne la speranza, realizzarne l’«adempimento» (la «promessa di futuro»): «La nozione di storia come durata e intermittenza, come alternanza di quantitativo e qualitativo, come rifiuto della continuità, è finalismo, prospettivismo, prepara la fine della storia a noi nota. E nella misura in cui essa si sta già esaurendo, l’uomo non ha più bisogno di sapere verso dove vive, perché lo vive» (Le mani di Radek). Da qui, nella poesia di Fortini, il motivo dell’irruzione o dell’invocazione delle «voci grigie», degli «estinti», le «altre menti», corpi e «anime offese o vinte», «gli esseri / d’altra storia, che visitano il sonno», segnali di «futura onniveggenza». Provenienti da un passato storico e arcaico, «geologico» o biologico, «a metà nel non esistere», s’introducono nei quadri allegorici delle sue parabole in versi, interrompono l’arida e sterile fenomenologia dell’esistente (l’attesa vana del presente, gli interrogativi e le incertezze della percezione: gli scarti tra vero e reale). Suggeriscono la presenza di altre dimensioni temporali, esigono una risposta perché testimoniano, in filigrana, della sincronicità che lega passato e futuro, natura e storia, io e mondo – «viventi, passati e venturi» («Furono, sì, sono, saranno», La luce del gran nuvolo…). È una reversibilità di tempi e livelli di senso nient’affatto consolatoria, chiama il soggetto (e il lettore) alla responsabilità della pietas, dell’ascolto o dell’attenzione (la «sapienza» e la saggezza necessarie per captare segnali dal «coro» dei «dormienti»):

 

Si andò ragazzi un giorno senza sapere
che verità l’aria voleva e quante
domandavano a noi ragione dello strazio
anime sterminate, servi delle miniere
mutati in mura o in opere di piante.
         […]
Ti vedo molto lontano sul fondo
del secolo tra infiniti esseri uccisi
[…].
Ma con quanta passione ora ti seguo tra i morti,
con quanta tenerezza ti chiamo amico
            e con quanta sapienza. Questa voleva, mi dico,
il vento che tormenta gli orti.
(Una risposta)

Di noi spiriti curiosi in ascolto
prima del sonno parleranno.
(Gli ospiti)

 

Come voleva Benjamin, l’«eco di voci ora mute» – la memoria inestinta dei «senza nome» e degli «oppressi», degli «antenati asserviti» – risuona per il presente «nelle voci cui prestiamo ascolto». È un rovello etico, etico-politico, che riempie a intermittenze la scrittura in versi del poeta. Ne sommuove il dettato raggelato, ne mobilita vertiginosamente i piani di significazione, porta ad altissime temperature il tema della destrutturazione del soggetto, l’autocontestazione della poesia come errore («[…] Tutto è / tremendo ma non ancora irrimediabile»; dalla conclusione de Il custode: «Neanche sono depresso, vorrei solo / un poco meno debole la mente / meno sconsiderata la speranza…»). Nel quadro di questa particolarissima «codificazione» del reale generata dalla poesia – all’interno di quell’inedita teoria del sapere che per Fortini, ricordiamolo, è il compito autentico che attende il linguaggio lirico («scrivere, voler poesia o letteratura è alludere […] ad una diversa possibile decodificazione del reale e del linguaggio») – anche la vitalità del passato, pronto a riscattarsi e a spezzare la «cristallizzazione» del tempo (la fissità del presente), è dato non acquisito ma esposto di continuo alla minaccia dello scacco. L’anticipo di un tempo «altro», custodito nella memoria del passato (dei sommersi), è osteggiato dalla minaccia dell’iterazione, la ciclicità del sempre-uguale, la «distrazione» che elude la sapienza – la negazione di futuro e movimento:

 

Volgono il capo
dicono
più nulla da fare con te.
Vanno via
uno dopo l’altro.
Posso distrarmi dormire
sul fianco
animale cardiaco
il surrene elabora fetida
è sotto il minimo.
Anche arrendersi all’evidenza
ha il nome di un nemico.
La verità deride.

Sconosciuti venite.
(Volgono il capo)


Insieme ai toni vocativi del comando o dell’«augurio», a intrecciarsi problematicamente con l’orizzonte messianico-escatologico che sostiene questa insolita esperienza del tempo s’introduce nelle liriche di Fortini (soprattutto a partire dalla stagione inaugurata da Questo muro) la dimensione dell’odio e del rancore – dimensione anch’essa salvifica e nutrita di un’anima messianica, di una funzionalità politica. «Un’idea di storia che si fosse liberata dallo schema della progressione in un tempo omogeneo e vuoto, riporterebbe finalmente in campo le energie distruttive del materialismo storico, che per tanto tempo sono state paralizzate»: è ancora una volta un tema che permette di istituire nessi e assonanze con il pensiero benjaminiano:

 

Contro la socialdemocrazia, che ha preferito “assegnare alla classe operaia il ruolo di redentrice di generazioni future”, Benjamin ricorda che Marx stesso la voleva invece “vendicatrice… in nome di generazioni di sconfitti”. A questa indebita cancellazione della memoria della passata schiavitù a favore della prospettiva di un futuro radioso la classe operaia dovette, secondo Benjamin, la perdita delle sue migliori forze: “l’odio” e la “volontà di sacrificio” (G. Bonola, M. Ranchetti).


È il risvolto dantesco e «petroso» della poesia di Fortini, una tenzone che si consuma nel quadro stratificato e simultaneo della sua idea di tempo. Contro l’«iniqua» e «oltraggiosa» immobilità del presente – contro il «controllo dell’oblio» e il fatalismo progressista che stabilisce la continuità della storia come sfondo necessario al perdurare di una situazione storico-politica definita e immodificabile (il «tempo dell’oppressione») – i versi diventano strumento dell’odio: «Morire con rancore, scrivere con rancore è l’unico modo possibile per non arrendersi all’unidimensionale e all’indifferenziato, per coniugare passato e futuro, cronaca e storia» (Luperini). Si tratta del momento della sua scrittura nel quale precipita e si radicalizza l’interrogazione senza riparo intorno alla consistenza dell’io («Ma io non ho parlato, solo l’odio era vero», Il falso vecchio), nei suoi rapporti di «corresponsabilità» con l’eterno e con la storia, i «vicini» e i «lontani», la «stanchezza di tutto il vissuto secolo»: «E ora sul punto di dormire / un dolore terribile mi morde / come mille anni fa quando ero

bambino / e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo / ago del mondo in me» (La partenza). Da Traducendo Brecht:

 

Fissavo vetri di cemento e di vetri
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.

Scrivi, mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

 

Senza garanzie, il nuovo sapere che la poesia si incarica di produrre, chiamando il lettore alla decifrazione di quadri e «disegni» allegorici («Allora comincerò con un altro disegno, / un’altra carta, ancora una leggenda. / Voi che ascoltate, date la vostra pietà», Il custode), è costretto a misurarsi con la disperazione e il «non sapere» che subdolamente s’insinuano nella vita dell’individuo, nelle esistenze di tutti i viventi: «Non è vero che siamo in esilio. Non è vero che torneremo in patria, / non è vero che piangeremo di gioia / dopo l’ultima svolta del cammino. / Non è vero che saremo perdonati» (Prima lettera da Babilonia); «Non so, non capisco, non parlo, lasciatemi andare» (Aprile 1961). Il tema coinvolge la dialettica speranza/non-speranza, vero/reale, distruzione/costruzione, i nessi tra dolore privato e destini sociali: «Insieme alla fine, è riaperto il discorso di un nuovo inizio: genesi ed apocalisse, nella visione dell’autore, debbono rimescolare i tempi per far luogo ad un tempo nuovo. […] La dissoluzione/decomposizione non vi ha mai soltanto valore negativo, in quanto rimette in moto il ciclo vitale al di là del soggetto» (Lenzini). Fino a suggerire che proprio il momento (sacrificale) del «rancore» e dell’annullamento, l’identificazione del «nemico», può essere il varco attraverso cui riattivare dalle macerie del reale l’attesa di futuro. Ad esempio nelle campate tra le più rabbiose della lirica di Fortini, laddove la densissima tramatura sonora e iterativa, il percussivo andamento asindetico, topos strutturale della sua opera in versi, accompagna come un marziale basso continuo la sovrapposizione di piani e registri discorsivi (tra lo gnomico-sentenzioso, l’esortativo-profetico e l’andamento onirico, visionario, straniante).

Il testo ne svela così, in vitro, tutta la profondità allegorica, cogitativa e figurale – il desiderio di verità e la tensione al cambiamento alla quale fa appello. Una ricchezza formale e testimoniale che in questo caso risuona, come per l’ennesimo paradosso che ci consegna la sua esperienza di scrittura, nelle campate asimmetriche di versi «freddi» e «spettrali», tra «vetri» e «cemento» (tra «metallo» e «lamiera»). Dove, accanto alla costruzione del ricordo («È necessario ricordare»), sono la negazione e il giudizio fulminante sul «nemico» a presentarsi come compiti e possibilità per ripristinare, sin da subito, un «buon uso della memoria»:

 

Il metallo è stato corroso dai gas. La vernice
non ha resistito. I corpi hanno ribrezzo.
Voi li avete disfatti
che mutate il diritto in assenzio.
È necessario ricordare.
Non avere di voi nessuna pietà.

Lo spessore del metallo chi ha deciso di ridurlo? La lamiera
è filata così fino al pancreas. Gli orfani
la possono toccare.
La mente più sottile l’avete strappata con due dita.
Alla vita futura non avete creduto mai.
È necessario volere che subito siate uccisi.

Quando sarete spariti il bene non verrà al mondo:
nostri il dolore il male la memoria del male.
Ma vengano altri nemici! Più terribili!
Non voi che così umanamente sorridete.
È necessario che nessuno si ricordi

di voi mai.
(Di voi)

 

 

 

NOTE BIBLIOGRAFICHE


Per i versi di Fortini si cita di F. FORTINI, Versi scelti 1939-1989, Torino, Einaudi, 1990; Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983, Torino, Einaudi, 1984.

Il riferimento a Sholem è in W. BENJAMIN, Documenti dalla cerchia degli amici, in W. BENJAMIN, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p. 304.

Sulla presenza di Benjamin in Fortini: R. LUPERINI, Il futuro di Fortini, Lecce, Manni, 2007, p. 55 e p. 56: «È una posizione che sa di essere e vuole essere, oltre che dialettica, anche, in un certo senso, profetico-messianica e cioè, in fondo, non dialettica: capace però di tener conto non solo della diacronia storica ma anche di una dimensione “verticale”. Posizione che guarda quindi all’oltre, al salto di qualità […]. Da Benjamin sembra d’altra parte derivare l’intreccio di “teologia” e di materialismo storico, e cioè l’arduo progetto di giungere ad un modo di pensare che riesca ad essere, nello stesso tempo, dialettico e non dialettico» (cfr. anche A. BERARDINELLI, Franco Fortini, Firenze, La Nuova Italia, 1974, pp. 85-86). Il discorso di A. LEONE DE CASTRIS sul moderatismo è tratto da Conclusioni possibili sull’intellettuale collettivo, in ID., Sulle ceneri di Gramsci, Napoli, Cuen, 1993, p. 113; sull’anti-storicismo di Fortini: «La nozione di storia come continuum e perpetuum privo di salti qualitativi genera scientismo, ottimismo tecnologico, riformismo. Hai deperimento della storia ma solo in quanto deperimento di prospettiva. L’uomo non sa più verso dove vive», F. FORTINI, Le mani di Radek, in ID., La verifica dei poteri, Torino, Einaudi, 1989, p. 98.

Sui nessi tra metamorfosi, distruzione e «superamento» riprendo l’esegesi di Luca LENZINI, a ridosso dell’ultimo Fortini di Composita solvantur: «Nonché essere irriducibile a tema contingente di Composita, la metamorfosi (mutamento e sparizione) vi si svela ora più scopertamente per tropo vitale e strutturale di Fortini. L’urgenza del “comando” e dell’“augurio” che suggeriscono il titolo al libro non fa che accelerare, si potrebbe dire, il movimento escatologico proprio della sua scrittura, che da una parte tende a vedere l’alienazione del presente come tempo di privazione, di qua dal vero, dunque da trascendere per via di annullamento, dall’altra ne fa la condizione stessa del superamento», Il poeta di nome Fortini, Lecce, Manni, 1999, p. 225.

Per il dialogo morti/vivi, presenti/futuri (sullo sfondo delle riletture dell’opera di Sereni): «L’allegorismo comporta […] un distacco, quasi uno strappo dal presente. In [Fortini] il presente è schiacciato fra un passato che lo preannuncia e come lo contiene già e un futuro che incertamente simboleggia»: P.V. MENGALDO, Per Franco Fortini, in ID., La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino, Bollati Boringhieri, 2000 (1996), p. 265; e ancora: «Il superamento di noi da parte dei venturi non ci annulla e condanna e basta, ma anche ci adempie», ID.,“Questo muro” di Franco Fortini, ivi, p. 308. Ma sul tempo nell’opera di Fortini: E. TESTA, in Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, p. 78: «Su questo asse macroscopico che sprofonda nei secoli (e nell’eterno) o, meglio, sulle convergenze e sugli attriti che si determinano tra esso e gli eventi contemporanei, si svolge gran parte della poesia di Fortini. La quale […] adotta, come prospettiva nei riguardi del reale e della sua assediante mole, quella della distanza, della non immedesimazione, della telescopica mira del passato per scorgere da lì allegorie e istanze del futuro».

Si rimanda anche a G. NAVA, Tempo e memoria nella poesia di Fortini, in Dieci inverni senza Fortini, a cura di L. Lenzini, E. Nencini e F. Rappazzo, Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 357-363. Sul materialismo storico e il messianesimo “distruttivo” in Benjamin: «Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche a noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? […] Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto… (W. BENJAMIN, Sul concetto di storia Tesi II, p. 23); «Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo possiede su di una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica; ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà a riconoscere come un’azione messianica» (tesi XVII, p. 55). [Una versione diversa in F. Moliterni, Il vero che è passato. Scrittori e storia nel Novecento italiano, Lecce, Milella, 2011]

Articoli correlati (da tag)