Stampa questa pagina
Giovedì, 16 Novembre 2017 06:59

Pasolini e la dittatura del presente

Scritto da Simone Giorgino

L'attualità di Pasolini potrebbe consistere in questo: nel riconoscere l'importanza di valori - o controvalori, dipende dai punti di vista - come la disobbedienza e l'ostinazione, portati avanti col rigore e la radicalità di una ragione apocalittica che ha molto meno credito della ragione cinica oggi prevalente, cioè del disprezzo acritico del presente (Houellebecq e dintorni). Pasolini disobbedisce a un sistema di potere e a un modello socio-economico considerati dai più, con fatalismo, alla stregua di un habitat naturale e pressoché immutabile. La storia della borghesia, dice Pasolini, coincide ormai con la storia del mondo. Il neocapitalismo è come l'aria che ogni giorno respiriamo, quasi senza farci più caso; e pochi si soffermano a riflettere sulla qualità dell'ossigeno che immettono nei loro polmoni. Pasolini, invece, si ostina a ripetere che quest'aria è appestata; e, siccome non riesce a far sentire le proprie ragioni, finisce per urlare come un ossesso, forse anche per espellere tutte le tossine che ha in corpo, e correndo consapevolmente il rischio di rimanere asfissiato.

Pasquale Voza, professore emerito di Letteratura italiana all'Università di Bari e fra i maggiori specialisti del poeta di Casarsa, nel suo recente libro Pasolini e la dittatura del presente (Manni, 2016) riflette sull'ultimo periodo della sua attività, cioè il decennio 1965-'75, senza risparmiare raffronti con le opere precedenti. L'analisi di Voza parte da un articolo, La colpa non è dei teddy boys, pubblicato nel 1959 e dunque nel pieno del boom economico, in cui Pasolini preannuncia l'avvento di quella «"mutazione antropologica" che in seguito sarebbe diventata il punto fondativo e ossessivo della sua visione e della sua ricerca intellettuale e letteraria». In questa fase, Pasolini sembra coltivare ancora un'illusione: il presente lo si inizia già a percepire come dittatura della borghesia capitalista, più pericolosa del nazi-fascismo perché più subdola e pervasiva. Ma, a quest'altezza, Pasolini sembra indicare anche una possibile alternativa: un modello di cultura e di società che coincide con tutta una mitologia della 'preistoria' meridionale (dove il sud è da intendersi come iponimo delle società non ancora industrializzate), resiliente di fronte alla feroce avanzata della 'preistoria' neocapitalista. Non si tratta però, come aveva capito bene Andrea Zanzotto, di nostalgie reazionarie: la forza rivoluzionaria di quel passato consiste, invece, nella sua natura metaforica di «alba prima. Infinitamente indietro e sempre nel futuro».

Quest'idea suggestiva di passato inteso illusoriamente come terra promessa si dissolve, però, di fronte alla completa affermazione del neocapitalismo, che, attraverso inediti meccanismi di acculturazione, determina, secondo Pasolini, un vero e proprio «genocidio culturale» - concetto, questo, come spiega Voza, non molto lontano dalla nozione di apocalittica borghese di Ernesto de Martino. A partire dagli anni Sessanta fino al suo drammatico assassinio, Pasolini fa del tema dell'omologazione culturale il centro focale della sua poetica e della sua ideologia: riflette sul concetto di falsa tolleranza, che considera una delle armi più insidiose dell'edonismo consumistico («La tolleranza» - scrive Pasolini - è l'aspetto più atroce della falsa democrazia. Ti dirò che è molto più umiliante essere "tollerati" che essere "proibiti" e che la permissività è la peggiore delle forme di repressione»); non perdona al Potere la feroce manipolazione non solo dei modi di pensare delle persone, dei loro atteggiamenti, del loro modo di vestire e di parlare, ma addirittura dei loro stessi corpi, reificati, degradati e insomma sottoposti a una violenza senza precedenti: perciò Voza parla di Pasolini come dell'«intellettuale-artista che più tenacemente, più estremisticamente, all'interno della sua ormai impossibile poetica del regresso, è andato interrogando il nesso corpo-potere».

Nell'ultimo decennio della sua attività artistica, Pasolini non oppone più, scrive Voza, «il passato contro il presente», ma considera «il presente come assoluto»: questo suo nuovo atteggiamento di desolante constatazione di un regime dittatoriale ormai irreversibile si esprime non più attraverso la lotta, ma «attraverso la consapevolezza estrema dell' "urlo", ovvero del "gesto essenziale del rifiuto", "totale" e "assurdo": da scagliare contro i "rapporti di intimità" col Potere, vale a dire contro la sua molecolarità pervasiva, capace di penetrare nelle fibre più interne della vita».

Sono gli anni terribili dell'abiura dalla trilogia della vita e dell'«ipertrofia metascritturale» - così la definisce Voza, già autore di un importante saggio su questo argomento, La meta-scrittura dell'ultimo Pasolini (Liguori, 2011) - del «poeta in falsetto», gli anni del Pasolini "luterano" e "corsaro", gli anni di Salò e del Tetro entusiasmo della sua raccolta estrema, La nuova gioventù.

Sono gli anni in cui Pasolini, seppur sconfitto perché sa che la poesia, in questo contesto, è impossibile e comunque incapace di intervenire su una realtà sempre più orrenda, continua ostinatamente a urlare tutto il suo disprezzo contro la dittatura del presente, e, insomma, la sfida ancora, col «proposito di rappresentarne l'estrema irriconoscibilità».

Articoli correlati (da tag)