Stampa questa pagina
Giovedì, 21 Settembre 2017 07:30

Corpo a corpo con la morte: recensione a "Incontri e agguati"

Scritto da Annalucia Cudazzo
Milo De Angelis Milo De Angelis

Nella raccolta poetica Incontri e agguati, pubblicata nel 2015 nella collana “Lo specchio” edita da Mondadori, Milo De Angelis sembra calare il lettore, più volte invocato come amico, in una dimensione intima e familiare, come se volesse prenderlo per mano e condurlo in un viaggio fra ricordi e sentimenti, mettendo a nudo un io lirico che prova a riavvolgere il nastro della sua esistenza, confrontandosi col passato e preparandosi ad un impatto inevitabile con la morte.

La prima delle tre sezioni del libro, già dal titolo, Guerra di trincea, riproduce la battaglia, lenta e logorante, fatta di attese e tempi morti – come accade, appunto, nelle trincee –, di assalti e trattative, tra l’autore e la morte, una sorta di deuteragonista dell’opera, messa in risalto nell’incipit del componimento d’apertura e a cui l’Autore è disposto addirittura a cedere la parola, per entrare in dialogo con lei. Una fine che incombe sul poeta, ma che appare quasi una conquista, un lavorio costante e portato avanti “da anni e anni” (p. 9), un nemico che, per essere fronteggiato, bisogna prima imparare a conoscere, con cui ci si abitua a convivere fino al punto da insospettirsi quando non fa avvertire la propria presenza.

Il primo incontro con la morte viene narrato nel secondo componimento dell’opera (p. 10), in cui si parla del decesso del padre, figura, spesso presente nei versi di De Angelis, che appare in un’area metafisica e ultraterrena e che “rivive nelle occasioni dell’esistenza più impensabili”, una “potenza ontologico-metafisica” in poesia, come si legge in un’intervista di Massimo Natale al poeta, contenuta nel volume La parola data. Interviste 2008-2016,[1] dove il poeta riflette sulla dualità Padre-Figlio e su come questo tema lo colleghi ad altri autori come Raboni, Caproni, Sereni e Montale. Quello che trapela dai componimenti della prima sezione non è tanto una reale paura di terminare i propri giorni quanto la preoccupazione delle “cose / che restano nascoste in una fine” (p. 22), cioè l’ansia di non poter più sciogliere i propri dubbi esistenziali, che tuona come una minaccia avanzata dalla stessa morte: “morirai invaso dalle domande” (p. 18).

“Vicino alla morte tutto è presente” (p. 25) scrive De Angelis, come se passato e futuro si appiattissero in un’unica dimensione presente e l’io diventasse spettatore dei momenti della sua vita che all’improvviso si affacciano alla mente: si passa così alla seconda sezione che dà il titolo alla raccolta, dove la memoria incontra figure della sua storia e ricordi che, come la morte, tendono agguati al poeta, già tormentato da un senso di vuoto e di niente. Ecco che, come un racconto da tramandare al figlio, compare una bambina che lottava “sul prato con i maschi” (p. 32) che richiama la donna guerriera ricorrente nella poetica di De Angelis; come in un’apparizione “tra gli squilibri della mente”, arriva una ragazza quasi in funzione di “alleato” (p. 34); dopo aver incrociato un vecchio amico alla stazione, si rammentano il liceo e il tempo trascorso sulle versioni di greco. Riemergono luoghi precisi, come il binario ventidue, la stazione di Greco, piazza Aspromonte, il cortile del Liceo Gonzaga, il pub di Porta Vercellina; sbucano immagini di sofferenza e di morte, possibile ricordo della malattia della moglie; riaffiorano nomi di persone significative, come l’amico poeta Angelo Lumelli, e, infine, quello di Viviana, sentimentalmente legata a De Angelis, rievocata nel componimento finale che lascia trasparire l’influenza dell’attività di fotografa svolta dalla donna sulla sua poesia.

Nella seconda sezione si nota un’attenzione particolare riservata alla dimensione del corpo, termine spesso ripetuto nei testi, in alternativa al quale sono nominate singole parti del fisico (braccia, mani, fronte, volto, occhio, dita, gola, palpebra, unghie), come se l’io di Guerra di trincea riuscisse ora a vedere se stesso e gli altri dal di fuori. Ed è proprio con un fatto esterno al sé, una vicenda di cronaca nera quanto mai attuale, che ci si avvia alla fine dell’opera, con le poesie di Alta sorveglianza, che, prendendo spunto dall’attività di De Angelis di insegnante nel carcere di massima sicurezza di Opera a Milano, raccontano un uxoricidio in cui viene messa in luce la carnalità dell’assassinio (“Una donna così si uccide solo con il coltello / si uccide corpo a corpo”, p. 63).

La sezione è introdotta da un estratto di un compito in classe di un detenuto che vorrebbe parlare del suo delitto ma che non ci riesce, da una riflessione del poeta su un uomo che fissa il cielo nell’ora di aria e da una citazione di Oscar Wilde, tratta da La ballata del carcere di Reading: “ognuno uccide ciò che ama” (p. 53). I primi quattordici componimenti di Alta sorveglianza, che appare come un vero e proprio poemetto, descrivono la realtà del carcere, dove chi vi è rinchiuso sente la necessità di parlare, perseguitato dal silenzio del luogo, per dare sfogo alla sua colpa, per evadere da una prigionia che è prima di tutto esistenziale piuttosto che fisica (“eri chiuso nel quadrilatero della tua voce”, p. 55).

In queste mura dell’anima (“Ma le mura le avevamo già dentro”, p. 57), nelle restanti dieci poesie, l’assassino mette su carta la sua confessione, la storia della sua passione consumatasi in un dramma, descritto da De Angelis con minuzia e vivide immagini: dalla giovane donna che apre la porta al suo carnefice, al suo tentativo di fuggire, alle coltellate inflitte sul suo corpo “per un intero minuto” (p. 63) da un “figlio creato che impazzisce e trema” (p. 62). Così, con un andamento circolare, la morte che aleggiava nella prima sezione ritorna nell’ultima, divenendo reale, concretizzandosi in un incontro – quello della sposa e dell’uomo da lei, un tempo, amato – e in un agguato che sfocia in un vero delitto.

La raccolta si chiude con un ultimo componimento, esterno alle tre sezioni, scritto completamente in corsivo, dove la reclusione nel carcere finisce per somigliare alla condizione degli spiriti del purgatorio dantesco: nell’Opera si aggirano, come ombre, assieme allo spettro della “cosa più amata” (p. 65) e uccisa, “anime guaste” (p. 64) in attesa di purificarsi, che, attraverso la scrittura, possono giungere alla salvezza oppure decretare la loro definitiva esecuzione.

Tutta l’opera è percorsa dalla sensazione di un tempo che sta per scadere, la fine dei giochi che De Angelis sembra portarsi dietro dalla raccolta precedente Quell’andarsene nel buio dei cortili (Milano, Mondadori, 2010), in cui l’avvicinarsi alla fine viene fatto coincidere con l’ansiosa immagine degli studenti che devono sbrigarsi a consegnare il compito in classe perché la campana che segna le ore sta per suonare.

I componimenti della prima sezione sono tutti brevi frammenti consequenziali di una storia raccontata in forma quasi dialogica e con un andamento che sembra imitare il parlato. La dimensione colloquiale è perseguita anche attraverso il linguaggio utilizzato, semplice e quotidiano, e anche attraverso le strutture sintattiche, piane e prevalentemente paratattiche. L’Autore cerca spesso di creare uno scenario sfumato, tipico dei viaggi condotti nei meandri della memoria, cui contribuisce l’uso dei puntini di sospensione, come nel terzo componimento, dove addirittura essi occupano oltre due versi della poesia. La coordinazione per polisindeto dà vita molto spesso ad un ritmo ansioso e incalzante, come nella prima poesia della seconda sezione.

In Guerra di trincea si riscontra un’oscillazione continua fra opposti (“pezzi buoni e quelli deboli”, p. 9; “in un solo attimo” e “cento di questi giorni”, p. 10; “guadagnati e persi”, p. 11; “nell’alba il suo buio”, p. 12), contrapposizioni che si accentuano grazie alle proposizioni avversative (“Iniziai dunque a trattare, sì, a trattare / ma lei recalcitrava, negava la firma”, p. 12; “Con la morte ho cercato ancora / un patto, ma lei era astuta”, p. 14).

Numerose sono le ripetizioni (“anni e anni”, “sostare, sostare”, p. 9; “dopo una lunga guerra / di trincea, dopo una guerra”, p. 11; “ a trattare, sì, a trattare”, p. 12; “ha cominciato a muoversi caso per caso / […] / poi ha cominciato a intonare”, p. 13; “era il respiro e l’artiglio nel respiro”, p. 14; “tra un grammo e un altro grammo”, “cercatemi / cercatemi”, p. 33; “solo tu… solo tu”, p. 35; sono presenti ripetizioni ad inizio e fine dello stesso verso: “della vita, di me e di te, della tua vita”, “un vuoto mai estinto nella fronte, un vuoto”, p. 31), così come numerose sono le anafore (“e”, vv. 5 e 7, p. 10; “ha”, vv. 3, 4 e 5, p. 13, con variazione del participio passato; “sarai”, vv. 1 e 4, p. 17; “nessuno”, vv. 1, 2 e 3, “e”, vv. 7 e 8, p. 20; “e”, vv. 4, 6 e 8, p. 25) e troviamo incipit uguali in componimenti vicini (“Con la morte”, pp. 13-14).

Da sempre, una delle figure retoriche più adoperate da De Angelis è l’enjambement (“la virtù / di applicarsi”, “quella / di sostare”, “attendere / una soluzione”, p. 9; “guerra / di trincea”, p 11; “ha ripreso / la sua cerimonia”, “ha diffuso / un canto”, p. 15; “ribelle alla farsa / delle preghiere”, “tu mi hai rivelato / il pungiglione”, p. 20; “la luce / obliqua”, p. 55).

Le rime, invece, non sono molte: “attendere - vedere”, p. 9; “intonare - re”, p. 13; la rima interna “amore - giallore”, p. 14; “sorridente - niente”, p. 18; “alleato - indicato”, p. 34). Troviamo anche una catafora (“e tu”, p. 31) in Questa sera ruota la vena, dove quel pronome si scopre, nel complemento di vocazione che chiude il componimento, identificarsi con il figlio del poeta.

Vi sono dei poliptoti (“canzone cantata”, p. 13), alcuni dei quali nell’ultimo verso di un componimento e nel primo del successivo, come “iniziai / una trattativa con la morte” (p. 11) e “Iniziai dunque a trattare” (p. 12).

De Angelis gioca magistralmente con le assonanze e le consonanze (“Sarai una Sillaba Senza luce”, p. 17; “eRo divenuto oRmai l’incaRnazione / di ciò che peRdiamo”, p. 19; “ruota la Vena / dell’uniVerso e io esco, come Vedi”, p. 31). Nella seconda sezione è presente l’unica citazione straniera, una frase in greco antico tratta da una versione di Tucidide: “toiόsde men o táfos eghéneto…” che significa “tale tomba diventava…” (p. 35).

Come già in Biografia sommaria del 1999, anche in Incontri e agguati varie e ampie sono le sequenze di discorso diretto: in Guerra di trincea, il poeta dialoga col lettore e, dopo aver concesso la parola in più di un componimento alla morte, che usa parole oracolari, sembra parlare come una sibilla, con un uso frequente e incalzante dei verbi al futuro, così certa del destino di vuoto che attende il suo interlocutore, le si rivolge direttamente. Date le tante apparizioni che costellano l’opera, nella seconda sezione, De Angelis entra in dialogo con varie figure, dal figlio all’amico incontrato alla stazione, dalla ragazza che giocava sul prato all’amico Mario, dal poeta Angelo Lumelli al compagno di classe, dalla moglie malata alla tanto amata compagna Viviana, e la sua poesia si apre anche a un rapido susseguirsi di battute su cui è costruito un intero componimento intitolato “Come ha potuto mieterti così, la vita?” (p. 49).

Nella commovente sezione Alta sorveglianza, il discorso è rivolto inizialmente all’assassino, poi al carcere dell’Opera, poi a se stesso; negli ultimi componimenti della raccolta, è l’omicida a prendere la parola, finalmente pronto a raccontare la sua drammatica storia, dopo un lungo silenzio, usando forti immagini evocative, epifanie della moglie, descrizioni metaforiche della donna brutalmente ammazzata, liberi pensieri di visionaria follia.

Incontri e agguati esce a quasi quarant’anni dalla sua prima raccolta Somiglianze e, come scrive Raffaele Manica, la sua “precocità è diventata maturità” e “taluni fatti osservabili con difficoltà all’inizio dovrebbero essersi messi in una prospettiva più agevole”.[2]

Resta in De Angelis una tensione verso l’assoluto, una dimensione dell’oltre, tipica della sua poesia, come già si poteva osservare nell’ “oscuro astrattismo”[3] di Millimetri e di Terra del viso, che si accentua nell’ultima opera, sebbene il suo sia un viaggio nel tempo e nello spazio sempre controllato, mai lasciato alla completa balìa dell’inconscio, dove le lucide visioni rappresentano i tentativi di ricomporre i tasselli di una realtà fatta di luoghi, prevalentemente lombardi, e di personaggi che sembrano apparire come fantasmi, e anche di un passato sfuggito alla vita ma conquistato nei ricordi.

 

[1] M. DE ANGELIS, La parola data. Interviste 2008-2016, con introduzione di L. Tassoni, Sesto San Giovanni, Mimesis, 2017.  L’intervista è stata pubblicata anche su «Nuovi Argomenti» ed è reperibile sul web, al link http://www.nuoviargomenti.net/poesie/la-figura-del-padre-intervista-a-milo-de-angelis/.

[2] R. MANICA, “Quell’andarsene nel buio dei cortili”. Le nuove poesie di Milo De Angelis. L’enigma di De Angelis, in «Il Manifesto», consultabile sul blog «Giuseppe Genna», 16/12/2010, reperibile sul web al link https://giugenna.com/2010/12/16/milo-de-angelis-quellandarsene-nel-buio-dei-cortili/.

[3] Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, a cura di E. Testa, Torino, Einaudi, 2005, p. 304.

Articoli correlati (da tag)