In una delle ultime poesie di "Tetro entusiasmo", sezione conclusiva della "Nuova gioventù" (Einaudi, 1975), Pasolini si definisce come «un misero e impotente Socrate» che osserva i vari cambiamenti storici e si interessa al futuro del suo giovane allievo, Fedro, al quale decide di dedicare questi versi pubblicati prima della sua morte. Negli anni Settanta Pasolini sembra essere ossessionato dalla pedagogia, poiché avendo assistito all’affermazione dello stile di vita borghese – ritenuto il simbolo di una regressione sociale che ha portato alla creazione di una società composta da uomini-sudditi integrati nel sistema altamente pervasivo dei consumi – sente il dovere di indicare ai giovani i valori fondamentali per la vita di un uomo. Sull’esempio di Gramsci, egli pensa che tale compito spetti principalmente all’intellettuale. Non stupisce quindi che l’impegno educativo sia vissuto da Pasolini come una missione e che tale propensione non venga meno neanche negli anni che precedono la sua morte, caratterizzati da una cupa rassegnazione dovuta all’imperante neocapitalismo che sancisce la vittoria delle masse sui singoli individui, trasformati in esseri alienati senza una propria libertà decisionale. Le dodici poesie di Tetro entusiasmo possono esser considerate il testamento poetico che Pasolini intende lasciare alle giovani generazioni; egli, avendo perso ormai le speranze di una possibile inversione di rotta, decide comunque di vestire i panni non tanto del pedagogo ma del fratello maggiore che, in un presente offuscato da perbenismo e benessere, fornisce gli strumenti necessari per edificare un futuro diverso dal presente ‘infernale’.

Il neocapitalismo è come l'aria che ogni giorno respiriamo, quasi senza farci più caso; e pochi si soffermano a riflettere sulla qualità dell'ossigeno che immettono nei loro polmoni. Pasolini, invece, si ostina a ripetere che quest'aria è appestata; e, siccome non riesce a far sentire le proprie ragioni, finisce per urlare come un ossesso, forse anche per espellere tutte le tossine che ha in corpo, e correndo consapevolmente il rischio di rimanere asfissiato.

Intervista concessa per e-mail il 18 giugno 2017. Biagio Cepollaro (1959) è critico letterario e poeta. È stato fondatore, insieme a Mariano Baiano e a Lello Voce, della rivista “Baldus” (1990–1996) dedicata alla sperimentazione letteraria. Teorico del “postmoderno critico”, è stato tra i promotori del Gruppo 93, considerato un gruppo di avanguardia letteraria. 

In uno scritto del 1964 Pasolini dipinge Roberto Roversi, amico ed ex compagno di scuola al Liceo Galvani di Bologna, nelle vesti di «un monaco pazzo, che cerca una clausura nella/clausura, per rifare di nuovo il cammino già fatto». È un’immagine o uno stereotipo diffuso nell’ambiente intellettuale bolognese del tempo, come diffusi accanto al nome dello scrittore erano appellativi quali ‘eremita’ e ‘poeta comunale’, a sottolineare la sua riluttanza nei confronti di riflettori e ospitate mediatiche. In verità Roversi, che fu poeta e libraio, non per semplice professione ma per vera e propria vocazione, preferiva trascorrere la maggior parte del suo tempo “trafficando” con antichi volumi e riviste storiche, riparato nell’ombra della sua libreria antiquaria.

Pier Paolo Pasolini era un’icona ben prima di morire. Ma pochi, ancora oggi, sanno quali siano stati i suoi ultimi appuntamenti pubblici prima della morte, e anche i salentini ignorano che essi avvennero proprio qui: a Lecce e poi a Calimera. Il penultimo fu al liceo classico Palmieri, da sempre un faro culturale della città. L’ultimo incontro avvenne invece a Calimera, nel cuore dell’area grica. Per gli interessi dello scrittore friulano, che aveva incluso alcuni testi in grico nel suo Canzoniere popolare, si trattò di un fatto naturale, anche se l’incontro calimerese fu del tutto improvvisato: ma gli si proponeva l’occasione imperdibile di ascoltare dalla viva voce dei cantori popolari quello che conosceva ancora solo da fonti scritte, e Pasolini la colse al volo.

Su un punto Carlo Levi e Pasolini – che si conoscevano e amavano molto – si trovano perfettamente in sintonia. Per loro il mondo che si presume arretrato, o arcaico, o appena sfiorato dalla modernità, non è un mondo da redimere, da correggere, ma contiene una sua verità preziosa, che getta un dubbio su qualsiasi magnifica sorte progressiva. Il sottoproletariato delle borgate romane contiene, accanto al degrado obiettivo, una “alterità” che mette in discussione tutti i valori dell’allora boom industriale e modernizzazione (imperfetta) del nostro paese. E così la Lucania significa per Carlo Levi, intellettuale ebreo torinese di formazione illuministica, la civiltà contadina, che conosce nell’esperienza concreta del confino e non in qualche libro di storia o di antropologia.

La Divina Mimesis si presenta come lo stadio più avanzato, assieme a Petrolio, degli studi ermeneutici compiuti dall’ultimo Pasolini su Dante. Escludendo il carattere di compiuta incompiutezza che subito viene naturale affidare a questo scritto, in quanto l’autore volutamente lo lasciò incompleto e così volle che esso venisse pubblicato, l’aspetto più interessante dell’opera concerne il piano diegetico/narrativo. Rimanendo sul binario della riscrittura attualizzata dell’Inferno dantesco, si nota infatti che Pasolini scelse di replicare la perfetta identità tra agens e auctor che fu già del suo illustre modello. L’affinità tra Dante e Pasolini finisce tuttavia qui e, per comprenderne il motivo, bisognerà esaminare il concetto, tutto contemporaneo, di perdita dell’autore, dove il termine autore non vuole riferirsia chi produce un testo o, più in generale, una qualunque opera d’arte.